"Amour" di Erica Arosio


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Foto di Massimo Brega

Camminava fissandosi la punta delle scarpe e guardava gli schizzi che i suoi passi sollevavano, pozzanghera dopo pozzanghera. Non conosceva quel quartiere. A essere sinceri, non aveva nessuna dimestichezza con quella città, ma l’aveva vista così tante volte al cinema che gli sembrava di esserci nato. Si era alzato il bavero dell’impermeabile e se lo teneva stretto sul volto, per proteggersi dall’aria gelida. Non aveva voglia di tornare a casa. Sempre che il suo lurido buco meritasse quel nome. Era un antro buio e umido, e soprattutto troppo silenzioso per invitare a sonni tranquilli. Ma non aveva un soldo e non poteva permettersi niente di meglio. A casa ci stava il meno possibile. Aveva passato il pomeriggio al bar all’angolo, bevendo caffè annacquato e riempiendo il taccuino con la sua grafia minuta. Per scrivere aveva bisogno di stare in mezzo alla gente: gli bastava alzare lo sguardo e ogni viso, ogni abito, ogni rumore, ogni sussurro, ogni lampo di luce si trasformavano in una nuova storia. La sua immaginazione trasformava ogni sconosciuto in un eroe con un albero genealogico da romanzo epico: gli sembrava di vedere arrivare intorno all’anonimo avventore che al banco beveva in solitudine la sua birra tutti i suoi antenati, con parenti e amici, una folla di volti impalpabili, simili a fantasmi. E intanto scriveva. Scriveva tutto. Ma quella era una notte speciale che meritava qualcosa di speciale: meritava un regalo. Non poteva dormire solo. Gli inviti mercenari si susseguivano, interrompendo i suoi passi veloci, erano proposte di donne ma anche di uomini, frasi pronunciate a voce bassa, seduttive o sconce, a volte accompagnate dagli sguardi allusivi che proponevano carni pronte a mescolarsi. Ma nessuno gli andava bene e, pur incamerando ogni parola (non si sa mai: avrebbero potuto trovare spazio sul suo taccuino), tirava dritto, una mano in tasca, l’altra a serrare il bavero sul volto. Finché non incontrò lei. Perché l’aveva colpito? Cos’aveva di diverso dalle altre? Non l’aveva aggredito, lo aveva semplicemente guardato e sembrava un cucciolo fragile e indifeso. Era anche lei sola, come lui. Aveva occhi grandi come quelli dei monelli delle comiche di Charlot, ma uno sguardo bistrato che prometteva torbidi piaceri buoni che ti portavano all’inferno passando per il paradiso. Un miraggio o una creatura in carne e ossa? La vedeva solo lui o la vedevano anche gli altri uomini? Comunque sia, gli bastò un cenno per farla avvicinare, lui le prese il braccio, lei si strinse, e le parole furono da subito superflue. Continuarono a camminare e, come per incanto, non ebbero neppure bisogno di adeguare il passo l’uno all’altro per scivolare all’unisono sull’asfalto lucido di umidità, schivare passanti e starsene in silenzio. L’insegna al neon sembrava uscita da un disegno di Hopper: AMOUR. Lui la fissò, sorpreso: si sarebbe aspettato Hotel Amour. Guardò con più attenzione: le altre lettere erano cadute? No, l’insegna in verticale che occupava i due piani della palazzina in legno diceva tutto quello che voleva dire, illuminando la facciata verde chiaro e le finestre verniciate di blu. Un angolo dalle sfumature caraibiche che strideva nella fredda notte newyorkese. In che quartiere erano finiti? Sentì il calore del corpo di lei attraversare la stoffa del cappotto e arrivargli fino alla pelle, scaldandogliela. La guardò, finalmente le sorrise e assieme entrarono in quella promessa di paradiso. Il portiere non alzò gli occhi dal giornaletto porno che stava sfogliando e bisbigliò: 30 dollari. Lui prese dalla tasca tre biglietti verdi sgualciti. L’uomo, senza smettere di leggere, li barattò con la chiave della stanza numero 11, aggiungendo “Primo piano”. Le guance della ragazza presero colore: il cambio di temperatura o la timidezza? O un rossore retaggio di un passato pudico? Nella stanza lui si liberò del cappotto e lo buttò su una vecchia sedia impagliata, entrò in bagno, si guardò allo specchio e la luce che si ritrovò negli occhi color carbone non gli piacque per niente. Ma non poteva farci nulla. Ormai era lì. Guardò fuori dalla finestra e fissò di nuovo l’insegna al neon: AMOUR. Ma esisteva l’amour? Chissà. Rovesciò le tasche dei pantaloni e trovò quello che cercava. Tornò in stanza. La ragazza era già sotto le coperte e aveva avuto cura di sistemare prima il letto: come se una madre premurosa le avesse rimboccato le lenzuola. Gli sorrideva. Lui ricambiò lo sguardo e cominciò a spogliarsi, lentamente, gettando distrattamente la giacca e poi la camicia, i pantaloni e infine le calze sulla sedia, a formare un mucchietto di stracci sopra al trench. Non aveva voglia di spogliarsi completamente e aveva paura del contatto con la pelle di lei: voleva solo un po’ di calore. Si infilò sotto le coperte e piano, per non farle male, per non farle troppo male, per spiegarle che anche quello era un modo d’amare, le affondò la lama nel ventre e si lasciò inondare dal sangue caldo della vita che fuggiva. Finalmente non aveva più freddo.


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