“Appuntamento nel bosco” di Rino Casazza


La storia non si snoda/come una catena/di anelli ininterrotta. /In ogni caso/molti anelli non tengono … /La storia non è poi/la devastante ruspa che si dice. /Lascia sottopassaggi, cripte, buche/e nascondigli …
(E. MONTALE)

Adesso
Allo squillo del cellulare Federico scattò fuori delle coperte, rimanendo intontito a fissare il buio. Prima che riuscisse a connettere lo squillo si ripeté tre volte. Poi si girò a sbirciare la radiosveglia sul comodino e: « Ma chi cazzo è, alle sei meno un quarto? » imprecò, allungando la mano per afferrare il telefonino, acceso sotto carica accanto alla radiosveglia.
Dal ricevitore proruppe la voce di Claudio. «Fede, nevica!»
I due tacquero per lunghi secondi: Claudio assaporando l’effetto della sua rivelazione, Federico profondamente disorientato. Nevicava, e allora? Per quanto quel fenomeno atmosferico fosse piuttosto raro, lì a Villa D’Almé, non c’era motivo di restarne meravigliati come davanti ad un miracolo. Avevano diciassette anni, che diamine, non erano più bambini delle elementari che alla prima neve si precipitano fuori per fare a pallate.
«Ci sei Fede?»
«Io sì. Tu no, a quanto pare»
Claudio fu colto da improvviso rimorso: «Scusa! Devo aver tirato giù dal letto i tuoi! »
«E’ me, che hai tirato giù dal letto, deficiente! » ribatté Federico.
In corridoio, peraltro, si era accesa la luce, e si sentiva avvicinarsi il passo felpato della madre, messa in allarme da quello squillo troppo mattiniero. «Federico? Tutto bene?»
«Niente, mamma, non ti preoccupare. E’ Claudio per una questione di compiti…»
«Ma non aveva tempo di chiamarti ieri, che era festa?» brontolò la madre, seccata «Va be’, vado in cucina a preparare la colazione. Mi raccomando, non fare rumore che papà sta dormendo.»
«Mi spiace, Federico…» riprese Claudio «Ma era un novità troppo importante, ed io…»
«Novità un cavolo! Sei uscito di testa, altro che sto…» S’interruppe di colpo, balzando giù dal letto. «La neve!» esclamò «Il due novembre!»
«Era ora!» fece Claudio, con sollievo venato da una punta di risentimento.

Poi
Correva in preda ad un cieco terrore. Era scattata in fuga non appena il primo oggetto volante era sbucato tra le nubi, sopra la dentellata cima del Resegone. Aveva intuito il pericolo subito dopo che Giorgio aveva accostato la faccia al finestrino, puntando l’indice verso il cielo. Il suo ragazzo non aveva compreso la minaccia neppure adesso che il sibilo degli ordigni riempiva la valle, altrimenti non sarebbe rimasto nell’abitacolo ad osservare a naso in su l’irreale visione, invece di scappare assieme a lei, semisvestita e accaldata per le effusioni di colpo interrotte, verso il folto della boscaglia. Era chiaro che l’unica possibilità di scampare alla pioggia di missili era allontanarsi dalle zone abitate, dove erano destinati ad abbattersi. Questo almeno il solo calcolo che il panico le aveva consentito, e che le dava le energie per correre a perdifiato. Il repentino calare di un rombo immane le bloccò le gambe. Frastornata, alzò la testa mentre un siluro metallico con la coda fiammeggiante si schiantava contro le cime degli alberi.

Adesso
Era un vecchietto di novant’anni, curvo e segaligno, sempre vestito con gli anacronistici abiti invernali della sua giovinezza, anche d’estate. Viveva in tale simbiosi con un piccolo tavolino appartato dell’Osteria Senza Scabbia, da far pensare che non se ne allontanasse mai, nemmeno quando il locale era chiuso.
Nella fervida immaginazione di Federico e Claudio, più che un avventore fisso dell’osteria, era la sua stessa insegna. Non ricercava compagnia. Fosse per lui, se ne sarebbe rimasto perennemente solo a sorseggiare il suo quartino. Ma se ti sedevi al suo tavolo, e attaccavi discorso, si concedeva volentieri, ed allora la sua voce cantilenante, modulata sulle cadenze dialettali, ti conduceva per mano dentro mondi meravigliosi.
Appena Claudio e Federico ne avevano sentito parlare avevano pensato di farsi un po’ di risate alle sue spalle. L’affascinante personalità del vecchio aveva spento ogni intento canzonatorio nel giro di un quarto d’ora. Da allora erano diventati i suoi più assidui frequentatori.
Un tardo pomeriggio invernale di un anno prima, mentre il crepuscolo diffondeva nell’osteria una raccolta penombra, Federico aveva chiesto: «Perché questo locale si chiama così?»
«La peste!» aveva iniziato il vecchio, in tono drammatico «Un ricordo della peste.»
«Ma la scabbia non…» aveva provato a correggerlo Claudio.
«Peste, scabbia…Solo nomi per indicare le cose. Quello che rimane è l’atrocità di un contagio che miete vittime come mosche. La pestilenza del 1630 è stata un flagello inimmaginabile…»
Una facile, quasi inevitabile reminiscenza scolastica aveva colto Federico: «La peste manzoniana!»
Sì, la storia che il vecchio, facendoli rimanere a bocca aperta, aveva raccontato, riguardava gli effetti nell’immediato circondario della pestilenza descritta nei Promessi Sposi. Solo che i toni della narrazione erano molto più spaventosi. La luce della speranza era del tutto assente, c’era solo spazio per uno sterminio apocalittico, che alla fine non aveva lasciato più nessuno in vita, né uomo né animale, nel villaggio contadino di Villa D’Almé. La gente venuta dalle località vicine al termine del contagio si era trovata di fronte a un cimitero a cielo aperto. La maggioranza delle vittime giacevano insepolte nelle case e per le strade, fulminate dalla malattia. Secondo il vecchio si era trattato di un castigo divino, mandato per punire la degenerazione dei costumi tra gli abitanti del villaggio, culminata nel diffondersi di pratiche superstiziose contrarie alla retta fede.
Il borgo si era poi ricostituito a seguito di emigrazioni dal circondario, e su quel terribile azzeramento dell’antica popolazione villalmeese era con passar degli anni calato l’oblio. A rammentarlo era rimasta solo una chiesuola, detta “Chiesina dei Morti della Scabbia”, costruita ai primi del 700 nel podere detto Ronco Basso, sul margine a monte della vecchia strada della Brughiera, a poca distanza dal bosco dove, in una gigantesca fossa comune, erano stati seppelliti i cadaveri degli appestati. A ricordo dell’evento sul luogo era stata posta una lapide con la scarna scritta “Morti della peste del 1630”. La chiesina era andata distrutta nel corso del 1800.
«E la lapide?» non avevano saputo resistere dal chiedere all’unisono Federico e Claudio.
«Non si sa più dove si trovi dall’inizio del 900. Nessuno è più andato a visitarla dopo la morte del nonno dell’attuale proprietario di questa osteria. Una brutta fine, poveraccio. Hanno trovato il cadavere, completamente decomposto, nel bosco della sepoltura, nel gennaio del 1902. Non si avevano più sue notizie dal 1° novembre precedente…»
Prima
«Strano nome per una locanda, vero?»
Non ostante l’aria paciosa dell’oste, l’avventore trasalì. In effetti, per quanto lui si fosse soffermato a scrutare perplesso l’insegna appesa sopra la porta, era un modo un po’ aggressivo di accogliere un cliente.
«No…non direi…» tentò di giustificarsi, cercando di dissimulare il disagio.
«Non si preoccupi!» esclamò l’oste, con un gran sorriso accattivante «Tutti si stupiscono di quel nome. E tutti ne chiedono il motivo. Ma prego, si accomodi!» aggiunse indicando con un ampio gesto del braccio i tavoli liberi. A quell’ora del pomeriggio, a metà strada tra il pranzo e la cena, il locale era vuoto. Era lo stesso paese, del resto, ad apparire come spopolato: cosa normale, visto che gli abitanti, quasi tutti contadini, erano a lavorare nei campi. L’oste ne era contento: sempre a caccia di spunti per intrattenere la clientela, già pregustava di poter magnificare di fronte all’osteria piena, nell’imminente festività d’Ognissanti, la splendida carrozza da cui quell’elegante avventore era sceso.
«Ho bisogno di qualcosa di caldo, oggi fa un freddo del diavolo…» fece quest’ultimo, dopo essersi seduto «Un bicchiere di “vin brûlé” andrà benissimo. Mi faccia una cortesia: ne porti uno anche al cocchiere: lui sarà ben più infreddolito di me… »
«Ai suoi ordini» fece l’oste, con un nuovo inchino. Mentre si dirigeva verso il banco diede ulteriore prova della sua loquacità: «Per quel che mi riguarda, non fa ancora abbastanza freddo… »
«Prego?» Il cliente era sempre più incuriosito.
«Vorrei una bella nevicata!» spiegò l’oste, con un sorriso a piene labbra.

Adesso
I fasci di luce, sciabolando tra i tronchi, rivelavano scorci di bosco fiabeschi sotto l’intatta coltre bianca. Nulla di minaccioso per il momento, ma Claudio non riusciva a scacciare la sensazione che nella tenebra ai bordi delle zone illuminate si nascondesse chissà quale insidia. Il buon senso suggeriva di desistere da quell’escursione notturna, inutile ancor prima che temeraria: come potevano sperare di trovare il luogo della lapide, senza indicazioni, nel folto di una gelida selva ammantata di neve? Era il discorso che aveva provato a fare mezz’oretta prima all’entusiasta Federico, ricevendo in risposta un’accusa di disfattismo: s’erano equipaggiati di tutto punto, con tanto di torce elettriche, giacche a vento, copricalzoni di nylon e scarponi da neve, e dopo neanche due ore voleva battere in ritirata? Quanto alla ricerca della fossa comune, s’era dimenticato i segnali inequivocabili che avrebbero permesso di individuarla?

Ancor prima
Nella livida e un po’ falsa luce del mattino nuvoloso, un strato di neve sembrava coprire la campagna. Invece, per il freddo polare calato durante la notte, sulla spoglia vegetazione di novembre era sparsa una pellicola di brina.
Fermo nello spiazzo oltre l’ultima casa del paese, il parroco, pur indossando sotto i paramenti il pesante cappotto nero, tremava come una foglia.
Come mai non era ancora arrivato nessuno? E sarebbe arrivato qualcuno? La natura sembrava voler contrastare il pellegrinaggio. Forse avevano ragione coloro che avevano manifestato dubbi. Chi erano loro, miseri abitanti di un piccolo villaggio, per pretendere d’essere risparmiati dal flagello della peste? Non dovevano attendere fiduciosi che la Provvidenza decidesse il loro destino?
Dalla strada che s’inoltrava tra le case giunse uno scalpiccio di passi, e un gruppetto di persone imbacuccate comparve sullo spiazzo. Il parroco si sentì slargare il cuore: erano ancora pochi, ma rappresentavano un incoraggiamento quasi insperato. Raccolse da terra il quadro che raffigurava l’immagine del santo, e andò loro incontro mostrandola alta sopra la testa.
«Sia lodato San Carlo Borromeo!» proclamò in tono solenne.
I nuovi arrivati risposero inginocchiandosi e facendosi il segno della croce. Quasi attirato da quel richiamo un altro gruppetto di persone s’era affacciato sullo spiazzo.
«Sia lodato San Carlo Borromeo!» gridarono tutti in coro, mentre altra gente, a frotte, accorreva.
Il parroco era così entusiasta che non sentiva più nemmeno il freddo. Veramente fosse lodato San Carlo Borromeo, pensava, se in una terra non sua riusciva a riunire una così numerosa folla di fedeli. Ma i santi sono di tutti, ovvero di tutti coloro che hanno bisogno di loro.
E nessun santo più di Carlo Borromeo, angelo confortatore della popolazione milanese e lombarda durante l’epidemia del 1576, era adatto ad essere invocato sotto la minaccia di un nuovo contagio. Le notizie che provenivano da Milano, unite alle voci di morti sospette nei paesi circonvicini, erano campanelli d’allarme preoccupanti. Il parroco sentì un brivido corrergli lungo la schiena. 54 anni prima la peste aveva riempito di cadaveri la fossa comune scavata nel bosco del podere di Ronco Basso. No, basta, doveva liberarsi di quei foschi pensieri. San Carlo Borromeo avrebbe accolto la loro supplica.
«Questa processione non s’ha da fare, reverendo» disse una voce.
Il parroco si volse di scatto, continuando a tenere levata l’immagine del santo. La frase aveva fatto intorno un silenzio ostile. Il temerario che l’aveva pronunciata era un trentenne tracagnotto dal volto serio. Indossava abiti che indicavano una certa agiatezza. Era un forestiero. Il parroco lo conosceva bene: amico di una famiglia del luogo, era venuto a trascorrere lì la festa d’Ognissanti. Faceva il capo filatore in un paese vicino. Bortolo Castagneri, si chiamava.
«Sbaglierò» proseguì, sfidando l’impopolarità «ma ciò che vorremo fare non è da buoni cristiani. Oggi non è la festa di San Carlo Borromeo, ma il giorno dei morti, che riposino in pace» si fece il segno della croce «e non è bello invocare protezione da una malattia quando si ricordano quelli che non ci sono più. Andando a visitare la tomba di quanti se ne sono andati per quella malattia, per giunta!»
«Ma smettila, baggiano!» lo apostrofò una vecchia esagitata. Solidale con lei, la folla fu percorsa da un borbottio minaccioso.
«Vi prego!» s’affrettò a intervenire il parroco «Lasciamo stare le origini di questo giovanotto: siamo tutti fratelli, milanesi e bergamaschi. Piuttosto, figliuolo» aggiunse, rivolto a Castagneri, visibilmente impaurito, ora «non capisco perché non apprezzi la nostra devozione per il santo vescovo della tua terra…» e fece un giro su sé stesso per mostrare a 360 gradi il quadro, sommerso dalle acclamazioni.

Poi
Mentre il siluro sfasciava rombando il tetto di rami, si gettò bocconi sul terriccio del bosco, la faccia premuta al suolo e le braccia strette a protezione della testa. Un riflesso meccanico, dettato dall’istinto di sopravvivenza, ma sapeva che di lì a pochi istanti l’esplosione l’avrebbe polverizzata.
La terra tremò spaventosamente per l’impatto, a non più di cento metri da lei. Seguì un innaturale silenzio. Niente bagliore abbacinante, niente fuoco d’inferno, niente ciclonico spostamento d’aria.
Forse, pensò ancora, si muore senza accorgersene. Il tempo si ferma e un sudario di silenzio ci avvolge. Sennonché, il silenzio non era assoluto. Incominciavano a punteggiarlo i fruscii e i piccoli rumori del bosco. Pur rintronata dal fragore, li avvertiva.
Alzò il capo, stupefatta di scoprirsi viva, e scorse una scena irreale. Il missile era conficcato nel terreno, intatto, la coda fumante. Ora che ci pensava, non aveva avvertito un solo frastuono d’esplosione, intorno, eppure il cielo appariva sgombro.
Con le emozioni congelate dallo shock, avanzò verso l’ordigno. Era molto lungo e slanciato: sbucava dal terreno di quattro/cinque metri, ma il diametro arrivava a stento ad uno. Dalla coda continuava a fuoriuscire una scia di fumo. “Assomiglia ad un’enorme freccia metallica”, pensò. Ma perché non è esploso?
Incurante del calore che emanava dall’involucro, arroventato per l’attrito dell’aria, si avvicinò e gli girò cautamente intorno.
Fu allora che notò la scritta. A caratteri bianchi, screpolati ed anneriti, ma ancora leggibili, spuntava dal muso interrato.
« …mo Tell alla Federazione Padana…» compitò nella quiete sospesa.
«Bombe svizzere!?» esclamò, incredula. «Ma non eravamo alleati?»

Adesso
Claudio si fermò per rifiatare, appoggiandosi alla gelida corteccia di un tronco. Dopo uno sguardo dell’orologio da polso, che segnava le 23 e 17, chiamò a gran voce Federico. Da una buona mezzora l’amico lo aveva staccato, e riusciva a stargli dietro solo seguendo il lume della sua torcia tra i tronchi. Muoversi a caso in mezzo a quella sfilza d’alberi e arbusti carichi di neve sembrava, invece di smontarlo, aver moltiplicato le sue energie.
«Cosa c’è? risuonò irritatala sua voce, un centinaio di metri più avanti.
«Aspettami che arrivo»
La faccia di Federico, quando lo raggiunse, era ancor più scoraggiante di quanto s’aspettasse. Pochissime altre volte aveva visto il suo sguardo così torvo.
«E’ ora di smettere di girare a vuoto, Fede.»
«Sapevo che eri un cacasotto»
Punto nell’orgoglio, Claudio si avvicinò sino a sfiorare con la sua faccia quella dell’altro: « Non ho detto che voglio rinunciare!»
Rimasero a guardarsi in cagnesco per alcuni secondi in cui l’intero bosco sembrò trattenere il respiro.
«Ho detto che è meglio fermarci. Sai che ore sono?» aggiunse Claudio, battendo l’indice sulla cassa dell’orologio «Quasi le undici e mezza! Resta solo mezz’ora!»
Federico rifletté qualche istante. Poi replicò: «Mezz’ora è un tempo ancora lungo.»
«Non volevo dire che è tardi!»s’inalberò Claudio «Sino a prova contraria, sono stato io stamattina ad avvisarti, fosse per te non te ne saresti nemmeno ricordato …»
«Ma fammi il piacere! Hai solo fifa e non vedi l’ora che arrivi mezzanotte senza che accada nulla!» infierì con cattiveria Federico.
«Brutto stronzo!» urlò fuori di sé Claudio, scagliandosi addosso all’amico.

Prima
«Tipo affascinante, vero?»disse al cocchiere il signorile avventore. Si era appena ritirato dentro l’abitacolo dopo essersi sporto dal finestrino per salutare l’oste, rimasto sulla soglia della locanda a sventolare il braccio.
Il cocchiere provò un istintivo imbarazzo: di solito il padrone non conversava con lui. Doveva esser proprio rimasto colpito dal locandiere.
«Sai che ti dico, Giuseppe?» aggiunse gridando, per farsi udire sopra lo scalpiccio degli zoccoli. «A costo di rendere più difficile il viaggio, non mi dispiacerebbe che il tempo lo accontentasse…»
Il cocchiere, perplesso, non azzardò commenti.
«Ah, già: >tu non conosci la storia…- proseguì il padrone. Era così smanioso di condividere quanto aveva appreso che fu tentato di confidarsi col servitore «Va be’, lasciamo perdere…» glissò a malincuore.
Una cosa era certa: si augurava di incontrarne ancora, di osti così accattivanti. E poco importava se, pur di interessare i clienti, erano disposti a raccontare un sacco di balle. A cominciare dall’origine del nome della locanda: “Osteria Senza Scabbia” per esorcizzare l’incubo della pestilenza che, tre secoli prima, aveva sterminato la gente di quel paese. A parte che la scabbia era una malattia benigna della pelle neppure lontana parente della peste, come si poteva credere, anche se la fondazione di quell’osteria risaliva al 1600, che la memoria del flagello sopravvivesse nel suo nome?
Quel furbastro aveva la risposta pronta: “scabbia” era un termine popolaresco, tramandatosi per generazioni, coniato per sottolineare la virulenza di quel contagio. Come se il nome peste non riuscisse a rendere l’idea. I racconti dell’epoca parlavano di cadaveri ridotti a un informe ammasso di bubboni, e di morte di tutta la popolazione nel giro di poche ore.
“Nientemeno!”, continuava a pensare il distinto avventore. Ma non poteva fare a meno di ammirare l’oste. L’obiettivo di avvolgere il locale in un alone leggendario era trasparente, ma che maestria nell’imbastire il tutto!
Il bizzarro nome della locanda si legava all’altrettanto bizzarro nome della chiesina, “Dei Morti della Scabbia”, eretta nelle vicinanze del paese a ricordo – come volevasi dimostrare! – dei morti della peste del 1600. E se, ahimè! la piccola chiesa era stata demolita da quasi un secolo e mezzo, in un bosco vicino non poteva mancare, nel punto dov’erano sotterrate le vittime della pestilenza, una lapide a loro dedicata.
Così era inevitabile che il due novembre di ogni anno, in un momento imprecisato tra il tramonto e la mezzanotte, i fantasmi delle vittime se ne venissero in invisibile processione dalla chiesetta sino alla lapide. Se la cosa pareva incredibile, bastava avere il coraggio di appostarsi da quelle parti, e si sarebbe udito il lugubre salmodiare degli spettri. L’oste, almeno – ecco che il cerchio si chiudeva! – poteva annoverarsi tra i testimoni dello strabiliante fenomeno. Per chiudere la bocca agli scettici, attendeva da anni il ripetersi della coincidenza che, secondo la tradizione, centovent’anni prima aveva fornito la prova della manifestazione oltremondana: una copiosa nevicata su cui le impronte scheletriche dei poveri morti erano rimaste impresse.
Il distinto avventore sorrideva. Augurava all’oste di poter finalmente tirar fuori i calchi di piedi scheletrici che, a beneficio della credulità popolare, aveva pronti per l’occasione.

Poi
“Mai fidarsi delle acque chete!”, pensava la ragazza, senza riuscire a staccare lo sguardo dalla scritta canzonatoria. Che la Federazione Svizzera fosse infida lo indicava il suo passato di neutralismo opportunista, ma chi poteva supporre che disponesse di armamenti sofisticati? Eppure quei razzi a lunga gittata stavano lì a dimostrarlo. E dire che il governo svizzero aveva ricercato un patto di alleanza con la Federazione Padana dichiarandosi bisognoso di protezione militare contro l’espansionismo del Quarto Reich. Il Presidente Federale era entusiasta di quell’asse svizzero-padano, che apriva a sinergie tra il sistema bancario elvetico e l’industria lombardo-veneta. Un cavallo di Troia, ecco cosa s’era. Gli svizzeri miravano ad allentare le difese aeree sul confine alpino. Il pericolo di un’invasione armata da nord, e bisognava capirlo, era un pretesto: ormai era chiaro che il Quarto Reich, preferiva espandersi attraverso “spontanee” richieste di annessione da parte dei vicini strangolati dal suo strapotere economico.
Rimaneva da spiegare la mancata esplosione del razzo. L’ attacco missilistico era uno spettacolare avvertimento?
Di colpo, l’intera scena incominciò a sussultare sotto un tremito dalle frequenze brevi e vertiginosamente rapide. Il suo corpo sembrava rischiare d’esserne sbriciolato. Il tremito s’accompagnava a un sibilo pungente che in pochi secondi crebbe a livelli insostenibili, sino a varcare la soglia dell’ultrasuono.
Nello stesso tempo, il folle ritmo delle microscosse incominciò a decrescere regalandole un sollievo insperato. Ma adesso era la vista a dover sopportare uno stress violento: diradandosi e allungandosi i sussulti accompagnavano un progressivo sdoppiarsi delle immagini. Il missile con la sua scia fumigante, i tronchi, i rami, i cespugli, il suolo pulsavano duplicandosi e ricongiungendosi, duplicandosi e ricongiungendosi con una cadenza sempre più lenta. Quando l’oscillazione si placò, le immagini rimasero sdoppiate.
Colta da vertigine barcollò, e nel muover le braccia per aiutarsi a riprendere l’equilibrio si accorse che erano quattro.
Angosciata, incominciò a guardarsi intorno cercando una via di scampo ma da qualsiasi angolazione si fiancheggiavano assurdamente due boschi gemelli.
Un momento! Non erano identici: la luce. Quella di uno era più grigia. Alzò lo sguardo e ne scoprì il motivo: il cielo di un bosco era nuvoloso.
Si sentiva impazzire.
Il frenetico movimento sussultorio riprese, localizzato tra il primo e il secondo bosco. Un’altra immagine, molto più scura, si apriva e richiudeva, apriva e richiudeva diventando ad ogni scossa più larga e lasciando intravedere tronchi innevati nel chiarore lunare.
A darle il colpo di grazia fu scoprire che sulla pelle degli avambracci destri, ed anche su un altro notturno che compariva/spariva fra di essi, comparivano numerosi purulenti bubboni.
Mentre piombava nel buio dello svenimento le parve di avvertire, in una sorta di pietosa allucinazione, un lontano salmodiare di voci in coro, come se qualcuno sussurrasse per lei delle preghiere.

Adesso
Quando il bosco iniziò a sussultare Claudio e Federico stavano rotolandosi avvinghiati in mezzo alla neve. Nella foga selvaggia non si sarebbero accorti di nulla, se un sibilo acutissimo non li avesse costretti a sospendere la lotta per tapparsi le orecchie.
« Aiuto!» urlò Claudio, indicando con i due indici della mano destra i due Federico distesi accanto a lui con gli abiti strappati e fradici. La cosa più pazzesca era che il secondo Federico non era circondato dal familiare buio di quella notte, ma immerso nella luce del giorno. E non era ancora finita: sull’altro lato dell’immagine notturna incominciò a staccarsene una terza diurna.
Folle di paura, Claudio s’alzò e incominciò a correre, cercando di fuggire a quell’assurdo labirinto a tre immagini.
Era così allucinato da rendersi conto solo confusamente che i due boschi diurni erano senza neve. Gli sfuggivano del tutto altre più significative differenze: la maggior luminosità di uno dei boschi diurni, e soprattutto le dimensioni diverse dei tronchi nei tre i boschi.
Avrebbe continuato a brancolare senza meta in quel gioco di specchi, se non gli fosse giunto alle orecchie un brusio di voci. C’era qualcuno, nei paraggi, per fortuna!
Si mise in ascolto e individuata la provenienza del brusio, vi si diresse.
Aveva di fronte il solito triplice scorcio di bosco ma, concentrato nel cercar di scorgere la gente che si avvicinava, non si accorse che il sentiero tra gli alberi era, nell’immagine diurna più scura, sbarrato da un tronco che mancava sia nell’immagine notturna che nell’altra diurna.
Il vociare era ormai vicinissimo. Sembrava una litania cadenzata, ma non riusciva a distinguere le parole. A tratti parlava una sola voce, poi riprendeva il coro.
Non si vedeva nessuno. Eppure dovevano essere vicini, appena oltre il tronco in mezzo al sentiero. Nei due diurni la vista era libera, ma neanche lì si scorgeva anima viva.
Un senso di vertigine lo costrinse ad appoggiarsi contro un tronco. Il movimento del braccio, ripetuto per tre volte all’unisono, accentuò il capogiro.
La sensazione di sbandamento divenne totale scorgendo sulla neve intonsa del bosco notturno stamparsi e progredire verso di lui un nugolo di orme umane. Nella follia della visione, gli parve di intravedere, in tutti e tre i boschi, un tremolio d’immagini sfuocate.
«ANDATE VIA!» urlò indietreggiando, con le sei braccia alzate davanti al viso per proteggersi dal sopraggiungere dei fantasmi.
Alla vista dei purulenti bubboni che gli ricoprivano la pelle, una smorfia di orrore gli contrasse il viso.

Ancor prima
«Restate calmi! E’ Satana che tenta di confonderci!»
La voce del parroco risuonò così sicura in mezzo al caos che la folla dei fedeli cessò di colpo le manifestazioni di panico.
Dimenticando per un momento del terremoto che stava moltiplicando le visioni della realtà, tutti si volsero a guardare il sacerdote, impavido nel continuare a tenere alzata sopra la testa l’immagine di San Carlo Borromeo.
«Non abbiate timore! Siamo sotto la protezione di San Carlo!»
«Torniamo indietro!» fece una voce femminile, tremante di paura.
«Scellerata!» la redarguì il parroco «Non capisci che proprio questo vuole il demonio? Ma noi» aggiunse, ruotando su se stesso per mostrare a tutti l’effige «proseguiremo nel pellegrinaggio, incuranti degli artifici satanici! Sia lodato San Carlo Borromeo!» Vedendo la folla ancora titubante, la spronò: «Uomini di poca fede! Scrollatevi di dosso i dubbi e rispondete con me: sempre sia lodato il paladino degl’infermi!»
Dopo un attimo di esitazione la folla, in coro, a bassa voce, raccolse l’invito.
«Più forte!» li incitò il parroco e, riprendendo il cammino alla testa del gruppo lungo il sentiero sdoppiato, invocò ancora: «Sia lodato San Carlo Borromeo!»
Ripetendo a gran voce la formula, tutti si mossero per seguirlo.
Nonostante fosse preparato a nuovi inganni del Demonio, la risolutezza del parroco vacillò alla ripresa del terremoto. Le martellanti scosse aprivano e allargavano tra le due immagini del bosco una fessura tenebrosa. Era forse la porta dell’Inferno che si spalancava per inghiottirli? A stento si trattenne dal gettarsi in ginocchio invocando perdono al Signore.
La sua incertezza stava per diffondere il panico tra i fedeli, quando si avvide che lo squarcio stava prendendo la forma di una terza immagine del bosco, di notte e sotto un’abbondante nevicata.
In quanti spicchi il Maligno avrebbe frantumato la realtà, per far loro perdere la retta via? Cento, mille? Non importava, sarebbero andati avanti continuando a innalzare lodi al loro Protettore.
E riprese il cammino con maggior determinazione, trascinando la folla dei fedeli dentro l’assurdo mondo a tre facce.
La marcia, scandita dal ritmato salmodiare, sembrava inarrestabile.
Invece la trance collettiva si ruppe. Là davanti rimbombò un urlo proveniente dal nulla: «ANDATE VIA! »
Istintivamente, bloccarono il passo. «C’è qualcosa che si muove!» si levò una voce colma di terrore.
Anche il parroco aveva intravisto una parvenza tremolare in tutti e tre i boschi. Satana stava per manifestarsi, sottoponendoli alla più dura prova?
Malgrado l’istinto di scappare, si volse innalzando la sacra effige: «Qualunque cosa accada non temete! La misericordia di San Carlo è con noi!»
Si levarono urla di raccapriccio. «Le braccia, reverendo! Le vostre braccia!» esclamarono i più vicini indietreggiando.
Il sacerdote se le guardò.
Travolto dal ribrezzo si lasciò sfuggire l’effige che in un gioco di perfida magia atterrò una volta sulla neve e due sull’asciutto, due volte nella luce e una nel buio.


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