“Ciao, Guido.” di Laura Veroni


 

 

Quinto piano, una rampa di scale infinita, poi ecco la stanza. Silvia si sofferma un istante, prima di entrare, e prende fiato: l’aria è calda e pesante, si respira odore di medicinali, di disinfettante, di chiuso, di corpi malati. Tre letti: al centro lo zio. Entra.
C’è Giorgio, l’amico di famiglia, da sempre vicino nei momenti importanti. Se ne sta seduto su una sedia di plastica grigia, lo sguardo fisso sul suo amico, che dorme. La madre di Silvia la segue silenziosa: la ragazza non osa nemmeno immaginare quali siano i suoi pensieri, quali i ricordi che riaffiorano alla sua mente. Probabilmente sono gli stessi che ha lei. Di colpo catapultate indietro nel tempo di alcuni anni: altra stanza, altro ospedale. Silvia non può fare a meno di frenare le lacrime, che affiorano contro la sua volontà, mentre le supplica di rimanere lì, tremolanti sul bordo dell’occhio. “Tornate indietro, per favore”. Ma il nodo alla gola si fa sempre più stretto e quasi le toglie il respiro. E quello, no, non ce la fa a fermarlo. Deglutisce a fatica e con dolore. Finalmente le escono le parole: <<Ciao, Giorgio!>>. Si avvicina all’amico, che si alza e le si fa incontro. Lo abbraccia e lo bacia sulla guancia.
<<Ciao, stellina>>. Le fa una carezza, amorevole come un padre. L’ultima volta che lo ha visto era il giorno del funerale del suo di padre. Giorgio lo aveva assistito fino all’ultimo istante, presente ogni giorno. Per Silvia era molto più di un amico: era uno di famiglia. Lo ricordava ancora  quando si recava  a cena a casa sua. Era soltanto una bimba, allora.  La accompagnava a letto, prima di andarsene, la faceva ridere con le sue battute e le diceva che era una bambina bellissima, che da grande avrebbe avuto tanti mosconi attorno e lei chiedeva perché tante mosche.
I mosconi… anche lo zio glielo diceva.
Silvia si accosta al letto. <<Zio… zio, mi senti?>>. Lo guarda.
<<E’ incosciente>>, dice Giorgio. <<Non può sentirti>>.
Si fa ancora più vicina e gli prende una mano, la destra. La sinistra è paralizzata, come tutta quella parte del corpo. <<Ciao, zio, sono Silvia>>.
Lui stringe le dita e fa una leggera smorfia con la bocca. “Mi sente! Allora mi sente!”  .
<<Zio, c’è anche la mamma con me>>.
Stessa smorfia. Lo zio è cosciente, capisce, può sentire. Silvia lo bacia sulla fronte. Lui si sforza di muovere le labbra: vuole dire qualcosa.
<<Che c’è? Cosa vuoi dirmi? Sono qui>>.
Uno sbuffo, uno sforzo disumano e un suono gli esce dalla bocca, incomprensibile.
<<Non ho capito>>,  gli dice. Guarda sua madre, in cerca di aiuto. <<Non riesco a capire>>.
Lui ci riprova e sbuffa di nuovo: lo stesso suono, adesso un po’ più chiaro, ma Silvia comprende solo a metà.
Lui tenta ancora: deve dirlo. Questa volta ce la fa. <<Parlami di vita>>, le dice. <<Parlami di vita>>, ripete.
Una lacrima rotola e si appoggia sul lenzuolo, timida, discreta. Sembra quasi volerle chiedere scusa per essere scappata. Silvia vorrebbe tanto parlargli di vita, ma non le viene niente da dire. Si sente in colpa. Non ha parole di vita per lui, in questo  momento. Solo silenzio e un dialogo muto. Gli tiene la mano: non riesce a fare nient’altro. Poi di nuovo il silenzio, di nuovo quel suo respiro affannoso e l’immobilità del suo corpo.
<<Dorme>>, dice Giorgio. <<E’ da ieri sera che non apre più gli occhi>>.

Lo sguardo di Silvia cade sull’uomo nel letto accanto: quanti anni avrà? A occhio e croce una novantina, forse qualcuno meno. E’ solo: nessun parente in visita. E’ agitato. Rotola lo sguardo a destra e a sinistra, agita le gambe, seminude, scoperte, fuori dal lenzuolo. Sono magrissime e la pelle è bianco latte. Gli occhi cerulei sono velati, lo sguardo torbido, come acqua di uno stagno melmoso. E’ rosso in viso.
Qualcosa la spinge ad avvicinasi al letto. Sua madre è intenta a parlare con Giorgio e lei si allontana inosservata. Si avvicina all’uomo e lo guarda negli occhi. Anche lui la fissa. Si chiederà chi sia quella giovane donna: non un’infermiera (non indossa il camice), non una parente (non l’ha mai vista). Si starà chiedendo perché sia lì, che cosa voglia da lui. La fissa in silenzio e Silvia lo fissa nello stesso modo. Poi l’uomo riprende ad agitarsi.
<<Ha bisogno di qualcosa?>>, gli domanda.
Il vecchio farfuglia sillabe incomprensibili.
Fa un caldo infernale in quella stanza. L’uomo è proprio sotto la finestra, dove batte il sole. La luce e il calore devono infastidirlo. Silvia abbassa la tapparella, finché il corpo nel letto non resta in ombra. Gli tocca la fronte e il viso: sono caldi e sudati. Lui la guarda. Lei lo tocca. Lo accarezza sul volto, sulle braccia scoperte. Gli prende la mano. Legge il suo  nome sulla cartella appesa al letto: Guido. Guido e basta. Al posto del cognome c’è scritto FRULLATO.
Guido ha i polsi legati alla sponda del letto. E’ pieno di tubicini, canne e cannette, nel naso, nel collo, nelle braccia. “Che cosa provi, Guido? Come stai? Come ti senti, qui, solo, in un letto d’ospedale, senza nessuno che parli con te, che ti consideri, che ti rivolga un pensiero? Che cosa desideri? Cosa pensi della tua vita in questo momento? Chi sei? Perché sei qui? Chi sei stato prima di arrivare in questo posto? Quante persone ti hanno amato e quante soffrono per te? Hai paura? Cosa aspetti? Forse la morte? Di che cosa hai bisogno? Cosa vorresti dire, esprimere, quali sono i tuoi sentimenti, i tuoi pensieri, le tue paure? Cosa posso fare io adesso, in questo momento, per te?”. Amore. E’ tutto quello che Silvia vorrebbe in un momento simile. Amore e presenza. Amore e sentire che c’è qualcuno, che non è sola, che può aggrapparsi alla vita, aggrappandosi a quella di un’altra persona. Aiuto, appoggio, sostegno, comprensione. Tutto questo vorrebbe. Tutto questo, pensa, vorrebbe qualsiasi essere umano. E vorrebbe essere trattata come persona, non come numero, come letto, come oggetto, come un essere qualunque, come un frullato.
Guido ha un’anima che urla, che grida qualcosa alla vita che fugge, che urla agli altri che non lo stanno a sentire, perché non può, non riesce a parlare, ma urla, urla, urla. Ascoltatemi, vi prego! Ascoltatemi, anche se non ho parole, aiutatemi a vivere, ho paura di morire. Non lasciatemi andare da solo!
“E’ questo che gridi di dentro, Guido?”, si domanda Silvia. “Io te lo leggo negli occhi”.
Lo accarezza a lungo sulla fronte. Bagna una garza, che ruba dal suo cassetto, e gliel’appoggia sulle labbra. Guido succhia avido. Anche suo padre faceva così. Aveva la bocca arsa e pure Guido ce l’ha. Silvia bagna un’altra garza e gliela passa sul viso e sul collo. <<Ha caldo?>>, gli domanda. Guido fa cenno di sì. Silvia gli scosta il lenzuolo. Guido con le mani legate cerca di denudarsi, afferrando il lembo del camice che ha addosso. Resta a torso nudo. Silvia non fa nulla per coprirlo. Lo accarezza sul petto. L’uomo ha lunghi peli bianchi che lo ricoprono. Ha le unghie lunghe, nelle mani e nei piedi. Potrebbe graffiarsi. Perché nessuno gliele taglia? La pelle è secca e screpolata, al limite della spaccatura: avrebbe bisogno di crema. E’ disidratato. Silvia continua ad accarezzarlo. Adesso Guido la guarda con occhi più sereni: non si chiede più chi sia, si affida a lei. E lei lo coccola come fosse un bambino, come fosse suo figlio. Gli sorride e lo accarezza, finché Guido si addormenta. Poi si allontana da lui. Ha addosso gli occhi di sua madre che piange e quelli di Giorgio.
<<Ti ricorda tuo padre?>>, le domanda l’amico.
No. Non le ricorda nessuno: solo un uomo che soffre e ha bisogno di amore.
Torna vicino allo zio, ma ormai è sprofondato nel sonno profondo, nello stato di incoscienza.
Si è fatto tardi: è ora di tornare  casa.
Guido si sveglia, apre gli occhi e la cerca. Riprende ad agitarsi.
Silvia torna da lui, gli fa una carezza. <<Devo andare>>, bisbiglia. <<Ciao, Guido!>>.
Silvia esce dalla stanza, coi suoi occhi che la seguono, finché sparisce oltre la porta.

 


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