"Giorno di festa" di Massimo Fagnoni


 

Quindici gennaio, Washington, il sole entra freddo nella camera da letto di Morgan Bartlett.
La televisione, schermo piatto, 32 pollici, sta trasmettendo le previsioni del tempo.
Oggi alta pressione su Washington, Morgan sta facendo ginnastica, quarantadue anni.
Il fisico scolpito da una smisurata autodisciplina. Ha installato una sbarra al soffitto del piccolo monolocale. Si appende, i piedi lato soffitto ed il busto verso il pavimento, come un enorme pipistrello. Comincia con calma a fare gli esercizi, alza il tronco verso la sbarra, il corpo reagisce, riluttante, alla fatica.
Gli addominali fanno il loro dovere, novantacinque chili per un metro e novanta di sangue afroamericano. Campagna in Iraq, medaglia d’argento, ferito sul campo, congedato con onore, sergente Morgan Bartlett.
Aveva una famiglia prima di partire, una moglie. Pelle liscia, nera. Ricorda ancora il suo profumo. I lunghi mesi in Iraq, i compagni massacrati negli agguati. Troppi morti, soprattutto fra i civili. Rivede gli occhi dei bambini iracheni, la guerra è devastante, anche per i vivi, chi è tornato non è più la stessa persona, partita con una valigia di buoni propositi.
Morgan è tornato, sua moglie non c’era più, non ci pensa, quasi mai. Il suo corpo è ancora poderoso, la mano è ferma, quarantadue anni e non sentirli. Il corpo si flette, Morgan pensa a Richard Gere in American Gigolo, quel banale esercizio lo ha imparato guardando il film.
Gli piaceva lo gigolo americano che studiava lo svedese, mentre faceva addominali attaccato alla sbarra, disciplina del corpo, dottrina della mente.
Il film gli piace, fino a quando il protagonista non si innamora della cliente, perdendo il potere, a lui non accadrà, gli è rimasto solo il controllo, nessuna distrazione è concessa.
Quando sente un impulso animale, preferisce pagare e dimenticare subito dopo.
Per lui c’era solo lei, la sua pelle, il profumo del suo corpo e l’infinita fiducia nel loro amore. Sorride Morgan, la fiducia… parola che rotola fra pensieri sudati.
Adesso è rimasto solo, niente amici, gli amici hanno tradito, loro sapevano. Nessuno ha avuto il coraggio di prepararlo, forse temevano che si facesse saltare le cervella in Iraq, non lo conoscevano davvero, e un amico che non ti comprende che amico è?
Morgan lascia scorrere l’acqua della doccia sul corpo indolenzito dalla ginnastica, il suo fisico è scolpito nel nero ebano dei muscoli, caldi di fatica.
Si sente bene. Oggi ha un nuovo lavoro. Ha cambiato città, ancora una volta. Adesso vive a Washington, ha avuto fortuna, il posto di lavoro interinale, provvisorio e mediocre, lo ha ereditato da uno schiavo come lui, uno schiavo dalla pelle bianca.
Si chiamava John Smith, puliva gli uffici di un’enorme azienda informatica alla periferia della città. Aveva trentatré anni, l’età di Cristo, è caduto dal decimo piano, dopo avere svuotato i cestini degli uffici vuoti. Suicidio? Nessuno lo saprà mai, quel sacrificio oggi gli consente di lavorare.
Ricorda ancora il colloquio con il mellifluo responsabile del personale dell’azienda di pulizie.
“Un eroe di guerra …uh…vedo”.
Morgan, con le lunghe gambe accavallate guardava lo stronzo, capelli rossi, venticinque anni, probabilmente una laurea in comunicazione ed un’innata propensione all’eliminazione degli esseri umani.
Il giovane, capelli rossicci, pelle bianchiccia, occhialini senza montatura, ha alzato due occhi sbiaditi, li ha puntati disordinatamente sul petto del grande uomo nero.
“Signor Bartlett non è un grande incarico questo, la remunerazione è scarsa…lei ha una laurea ed un curriculum di tutto rispetto”. Morgan ha sorriso. Una fila di denti bianchi ha fatto capolino nel suo viso scuro.
“Ho bisogno di lavorare, sa…mia moglie mi ha appena lasciato, sono un po’ a terra”.
“Mi scusi, signor Bartlett, non avevo intenzione di scavare nella sua vita privata. Facciamo in questo modo. Può iniziare con questa mansione, io la terrò in considerazione, nel caso all’interno dell’azienda si aprissero migliori prospettive”.
“Non so come ringraziarla signor…”
“Mi chiami Michael e niente signore…”. Ha sorriso Michael e Morgan ha risposto al sorriso.
Come sei generoso, brutta checca, ha pensato Morgan, mentre stringendo la mano sudaticcia di Michael si apprestava a tornarsene al suo piccolo monolocale, plastica e acciaio. Oggi è il primo giorno di lavoro. La televisione annuncia il primo giorno di un’altra persona di colore, più importante di Morgan. Il neo presidente degli Stati Uniti. Domani deve giurare fedeltà al paese della libertà. Oggi andrà in visita in una scuola per aiutare altri fratelli di colore ad imbiancare d’azzurro le sue pareti. Morgan sorseggia il caffè, lungo e caldo. Sorride. Lui c’è riuscito.
È il fratello nero che ha realizzato il sogno di tutta la gente come lui.
Oggi, nell’anniversario della nascita di Martin Luther King, uno di loro, bello, nero e puro, si prepara a comandare la nazione più potente del mondo.
Morgan guida piano nel traffico del mattino. Ha noleggiato una piccola Ford per il primo giorno di lavoro. In America c’è la crisi, la crisi dei mutui, la crisi delle grandi case automobilistiche.
Ha ascoltato gli economisti in televisione, sembra che la colpa sia tutta di alcuni che hanno investito milioni di dollari che non esistevano. Lui d’economia non capisce nulla.
La giornata è splendida, sole freddo e brina su tutte le cose. Si alza, dai prati curati della capitale d’America, una leggera foschia, che rende l’inizio della giornata ancora più luminoso. È euforico Morgan, senza un motivo preciso, è tornato dalla guerra, tutto intero o quasi, è sopravvissuto all’orrore ed è ancora in grado di gioire in una giornata di sole. Parcheggia l’auto a pochi passi dal palazzo, con passo leggero si avvia verso l’ingresso. È ancora presto. Gli piace arrivare prima di tutti, gli piace prepararsi con cura, è un perfezionista, lo è sempre stato. Hanno cercato di distruggerlo in guerra, al suo ritorno sua moglie c’è quasi riuscita. Il suo passato prossimo ha deciso che da oggi non esiste più.
Entra in tuta nell’edificio, con sé ha solo la sacca con il necessario per il lavoro.
Alla guardia armata, che sta seduta e semi addormentata dietro il tavolo dell’accettazione, Morgan mostra il tesserino di riconoscimento.
“Tu sei quello che sostituisce John?”.
“Sono io”.
“Mi raccomando, vedi di non sporgerti troppo da lassù, ci sono correnti forti”.
Evidentemente trova la battuta molto esilarante perché comincia a ridere. Morgan non capisce il cinismo di quell’uomo. Scuotendo la testa si avvia verso l’ascensore. “Ehi… ci conosciamo?” Gli urla dietro la guardia, trent’anni di stomaco dilatato da troppe birre.
“Non credo” conclude laconico Morgan.
L’ascensore sale veloce. Al quindicesimo piano Morgan esce, in un’esplosione di luce.
Pensa allegramente alla guardia. Nonostante l’unico neurone funzionante, si è ricordato di lui, interessante. Non è abbastanza sobrio da ricordare che, in effetti, non è la prima volta che Morgan entra in quell’edificio. Oggi gli uffici sono vuoti, si festeggia il giorno della memoria.
Sono quasi le nove, è’ tempo di lavorare. Morgan si avvicina alla finestra, estrae dalla sacca i ferri del mestiere. Per un grande presidente un grande fucile. Morgan allestisce il mitico Barret 0.50 A 82. Non è un fucile elegante, per un presidente, è più adatto a colpire mezzi blindati in movimento. È utilizzato per fare esplodere cariche a distanza o per colpire cecchini dietro i muri, è uno strumento potente, funzionamento automatico ed effetto sensazionale.
Del resto tutto è spettacolo. Non è più tempo d’auto scoperte. Anche un omicidio deve essere credibile o incredibile. Dipende da chi si godrà lo spettacolo.
Morgan è un animo semplice e preciso, come un cecchino. Del resto era il migliore in Iraq.
Ora deve controllare il vento, preparare l’appoggio. Avvicina la scrivania dell’ufficio alla finestra a vetri. Appoggia il fucile sul bipiedi. Giornata perfetta, distanza 1000 metri.
Può concedersi la possibilità di sbagliare il primo colpo. Non il secondo.
Ha calcolato tutte le opzioni possibili di arrivo e discesa del bersaglio dal mezzo.
Adesso distende il suo lungo corpo allenato e addestrato sulla scrivania, indossa un paio d’occhiali Ray Ban, per proteggere i preziosi occhi dal sole. Questo è il momento più dolce per lui, lo è sempre stato, è il silenzio prima dell’uragano, dopo il mondo non sarà più uguale a prima, a lui non interessa, Morgan è lo strumento, obbedisce agli ordini, non sbaglia mai.
Una piccola folla comincia a raccogliersi nei pressi della scuola.
Dal quindicesimo piano sembrano formiche, da mille metri sembrano soldatini di metallo.
Morgan scrocchia le dita, comincia a concentrarsi guardando dentro il mirino.
Arriva una prima auto, scendono gli uomini della scorta, altri individui soli, essenziali, come lui, soldati. Infine arriva l’auto presidenziale, un nugolo di uomini circonda l’auto.
Il primo presidente di colore nella storia degli Stati Uniti, scende sorridente, andando incontro ad un comitato di giovani volontari, sporchi di vernice azzurra.
Morgan sorride nel sole.

“Buon compleanno Martin, e perdonami… niente di personale, sai… è l’unico lavoro che so fare”.


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