"I cinque sensi" di Erica Arosio


i 5 sensi

LA VISTA

Sfrontata guardo il Sole, ma vinta dal suo superbo luccicare abbasso lo sguardo. E quello che vedo svela il mistero della grande sfera rossa, perché niente eguaglia l’ondeggiare del mare mentre restituisce la luce divina a noi umani. Ed è  incanto  impossibile da riprodurre, vani gli sforzi dei pittori, nient’altro che patetica arroganza  lo scatto del fotografo e l’obiettivo del cineasta. Solo l’occhio, il mio occhio  può cogliere quella poesia in movimento che è il  fiammeggiare confuso fra le onde. Come un pittore impressionista  scompongo il diamante luminoso  in mille tessere e lo trasformo in pane quotidiano  e come un animale pronto al letargo lo ripongo nel cassetto dei sogni per le infinite notti d’inverno. Guardo gli occhi dell’Uomo, persi nell’orizzonte a immaginare  orizzonti perduti. Ha occhi come mare che come acqua accolgono la luce, la frantumano e  la raccontano. Li guardo e so che sono occhi da amare,  ma anche occhi lontani che non hanno voglia di intercettare i miei. Il sole si sta tuffando oltre la linea dell’infinito oceano, verso lidi che  raccoglieranno la staffetta di un nuovo giorno. Fisso l’ultimo bagliore della palla di fuoco e mi appare  il raggio verde. Esprimo un desiderio, guardo l’Uomo, ancora perduto nelle sue illusioni di avventure senza fine. L’aria tiepida del crepuscolo è benevola con gli amanti e mi regala  i riflessi della luce negli occhi adorati,  finalmente confusi con i miei. Un altro giorno è andato, il buio si avvicina, ma i nostri occhi fusi in un unico sguardo saranno il sole delle nostre notti insonni.

 

L’OLFATTO

Ci immaginate col naso adunco, chiome scarmigliate e una verruca sul mento? Credete che il nostro incedere sia infido come quello del ragno pronto all’attacco? Oh, ingenui, non avete capito nulla, perché la maggior parte di noi ha la freschezza di una fanciulla in fiore. Io sono bella, il mio incarnato è  luminoso e il mio sorriso è simile a una collana di  perle. Gli uomini si inchinano al mio passare e desiderano la mia innocenza. Io li annuso. Questo sa di legno antico asciugato al sole, quello traspira ambra d’oriente,quell’altro profuma d’estate e di mare. Alcuni mi spaventano, con quella puzza di buio e di cantina che si portano addosso, a volte incontro uomini  che la fatica ha impregnato col sapore acre  della paura. I più giovani diffondano intorno  l’odore selvaggio della macchia mediterranea, i più scaltri mi seducono  con una nuvola di  vaniglia. E io con il mio nasino all’insù  classifico ogni diversità e tutto mi è utile  per mescolare  negli  alambicchi filtri d’amore e di disamore. Ogni uomo può essere preso al laccio con l’essenza giusta. Distillo, sperimento, tento arditi miscugli. E annuso. Ogni nuova fragranza mi fa viaggiare in storie esotiche. Cesello principi, sultani e avventurieri, disegno nel vento marinai, petrolieri e berberi del deserto.  Poi regalo alle più belle, alle più giovani, ma anche alle donne consumate dall’ingiuria degli anni  e a quelle che hanno smesso di credere nella felicità i miei profumi e la mia magia. Io sono la strega dei filtri d’amore.

 

IL TATTO

Eh, no, ti sbagli di grosso. Quelli servono solo per le impronte digitali (e poco altro). Che hanno pure una brutta fama. Le tirano regolarmente in ballo per questioni poco piacevoli, come omicidi, intromissioni e tutte quelle cose lì. Certo, i polpastrelli hanno una loro ragion d’esistere, sono sensibili, attenti nel percorrere il profilo dell’amato,  precisi nell’afferrare gli oggetti più delicati, sanno tenere  la matita, fanno scorrere con la giusta pressione il pennino sulla pergamena. Ma chi lo fa più? Insomma, poca cosa, a pensarci bene, i polpastrelli per conoscere il mondo, perché c’è di meglio: la pelle, è lei davvero la terra di confine fra noi e il resto dell’universo. Solo chi  oltrepassa quella frontiera può essere accolto nella tua intimità. E’ la pelle che sente. Non solo nella battaglie d’amore, quando si sofferma su ogni cellula dell’altro, quando ha voglia di posargli un bacio sull’ombelico, ma dall’interno.  La pelle capisce anche se non la sfiori, basta essere nei dintorni. Vibra per la brezza leggera mentre passeggi in riva al mare, i piedi bagnati godono al sollievo dell’onda, il naso si arrossa  al gelo pungente del fiocco di neve e si arriccia come il nasino di un gatto. La pelle si difende e a volte si incuriosisce per le  folate di umanità mentre assieme si corre per salire sul treno, intuisce l’umore dello sconosciuto che ti siede a fianco sul tram. La pelle ringrazia per il fresco dell’abito di seta che ti scivola addosso ed è grata all’olio profumato che il massaggiatore ti fa gocciolare sulla schiena.  Il tatto è quanto di più vicino ci sia al sesto senso, sfiori l’altro e lo capisci subito se è lui l’amore.  Ma me lo dici come fai a vivere e amare senza il tatto?

 

L’UDITO

Il più poetico è stato un anziano dottore coi capelli arruffati che assomigliava a Einstein: infarto della chiocciola, era stata la sua diagnosi. E non si riferiva al simpatico gasteropode che quando striscia lascia una scia di bava secca, no, pensava a quell’intreccio di ossicini simili a un guscio nascosti nel profondo dell’orecchio che erano collassati per un imprecisato motivo. Un altro, un impeccabile, algido professionista dal camice inamidato, senza neppure guardarmi in faccia ha compilato il foglio con un altro responso: “Manager’s diseases”. In altre parole, tutto e niente, secondo lui si trattava di uno di quei malanni psicosomatici provocati dallo stress. Poteva passare presto (e avrebbe potuto durare anche solo poche ore) o poteva  restare per sempre. Non sono più andata da nessun’altro e mi sono tenuta il mio silenzio. Ora vivo avvolta in una colonna sonora ovattata, sento solo tonfi, echi lontani, qualche fischio doloroso e mi sembra di essere un cane ipersensibile agli ultrasuoni. A volte mi arriva un boato muto, un suono orribile che sembra provenire direttamente dagli inferi. La gente non lo sa, ma noi sordi sentiamo un sacco di rumori che non c’entrano nulla con quello che avviene realmente intorno. E’ come se il nostro corpo mutilato cercasse di sopperire a quel che non ha, inventandosi una sinfonia stonata composta da un musicista senza talento. Non potevo rassegnarmi, qualche strategia di sopravvivenza dovevo pur trovarla. Mi sono impegnata. Se guardo fisso il volto di chi parla, le labbra si sciolgono come in un fumetto, disegnando  nell’aria collane di  parole. Capisco tutto e quel che non capisco intuisco. In strada mi affido alla pelle che mi restituisce ogni vibrazione, i rumori del traffico, il sibilo della sirena dell’ambulanza, un portone che sbatte, il rombo di una moto. Le risate dei bambini le riconosco subito perché mi fanno il solletico. Quello che mi manca davvero  è non potere  sentire la voce  del mio amore. Lui si industria, si muove  come un mimo per farmi capire tutto e a volte basta un suo sorriso per comunicarmi il mondo intero. Scrive per me su mille post-it, alza lavagne e cartelli, riempie manifesti e si trasforma in un rivoluzionario che prepara taze- bao  per raccontarmi la sua giornata. Io lo capisco, il mio amore. Io ho imparato. Mi avvicino a lui e gli poso il palmo aperto alla base del collo, lui parla e ogni vibrazione si trasferisce nella mia pelle trasformandosi in parole dolci che io ripeto balbettando e aspettando il suo cenno d’assenso. Non ho perso la speranza, forse un giorno potrò ancora sentire la sua voce o forse sarà ostaggio del silenzio per tutta l’eternità.

 

IL GUSTO

La benda color rubino non è legata troppo stretta. Prova ad aprire gli occhi e le piace la luce rossastra che filtra dal tessuto. Li richiude e apre la bocca. “Di più”, dice lui mentre le infila fra le labbra una fragola rossa e una goccia di liquido dolce le va a macchiare la camicia slacciata, che lascia intravvedere due seni candidi e pieni. “Facile”, pensa lei, mentre morde il frutto maturo. “E adesso?”, sussurra lui mettendole fra le labbra socchiuse un quadratino di roquefort. Il contrasto dei sapori è piacevole. E conosciuto. Lei aspetta la sorpresa. Che arriva quando lui le passa, labbra a labbra, un pezzo di papaya e ne approfitta per morderle, ma piano, davvero piano, il labbro. Sapori forti, sapori dolci e morsi d’amore, si dice lei, felice di continuare il gioco. E questo cos’è? Una noce? No, è più grande e più morbida, un anacardo. Forse, ma ha un sapore speziato. Un frutto tropicale sconosciuto… Intanto la musica le accarezza le  orecchie. Musica ignota, bella e misteriosa, non c’è un solo brano a cui lei sappia dare un nome, un titolo. Come per il cibo che lui adesso le offre, sempre più lentamente, in un crescendo di gusti esotici, intensi e mai assaporati prima, un girotondo di delizie da mercato assolato, con il battito ritmico dei tamburi, che si perde nella foresta. Lui è sempre più vicino, lei sente il calore del suo corpo. Quando lui si avvicina, lei si sente sciogliere dentro e adesso lo sa, ne è sicura. Sa quello che avrà fra le labbra e quanta voglia… Sta aspettando e sta cercando coi polpastrelli sensibili della memoria il suo odore. I suoi odori. Lui arriva e spezie, frutta amori e umori si confondono  nella luce infuocata della benda che lui finalmente le toglierà.

 


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