“Il caffè al Bar Piccardo” di Roberto Negro


 

 

19 marzo 1946

Di martedì non si sarebbe mai dovuto partire, ma il diciannove marzo, festa di San Giuseppe, quell’anno cadeva proprio di martedì.
In ogni caso ai centoquindici ciclisti non era venuto di sicuro in mente l’antico adagio che sconsigliava gli spostamenti in quel giorno della settimana.
L’Italia era appena uscita dall’incubo della guerra ed i suoi abitanti, compresi molti degli atleti ammassati dietro la linea di partenza, avevano voglia di dimenticare in fretta.
Scordare il fragore delle bombe, scacciare il terrore del conflitto nel quale erano stati un po’ aggressori, un po’ occupati ed infine liberati.
Per gli atleti ed i loro tifosi ripartire da Milano con destinazione Sanremo era come rinascere, intraprendendo un nuovo cammino verso il futuro.
Sul loro volto il nervosismo era palpabile come l’umidità che alle sette del mattino gravava sulla spianata della Chiesa Rossa, luogo del raduno.
Erano certi che quella corsa contasse molto.
Individualmente sognavano la gloria, magari una fuga solitaria che rappresentasse la resurrezione ed una vittoria a braccia alzate in Viale Matteotti, nella Città dei Fiori, levando al cielo il proprio grido di Liberazione.
Bartali gettò uno sguardo, apparentemente distratto, al suo rivale, che per la prima volta indossava una casacca di colore diverso dalla sua.
Coppi aveva scelto di lasciare la “Legnano” per approdare alla “Bianchi”: troppo piccolo lo spazio nella stessa squadra per due campioni.
Non si sfidavano da prima della guerra.
Ginaccio l’aveva stramaledetta la guerra, perché era giunta nel periodo migliore della sua carriera, privandolo così della consacrazione definitiva ed ora, alla ripresa dell’agonismo ufficiale, aveva l’occasione di ricominciare da dove il suo percorso era stato bloccato.
Nei lunghi anni di sospensione forzata, lui non aveva mai smesso di allenarsi, godendo del privilegio di essere stato assegnato, quale militare richiamato, ai servizi sedentari.
Sapeva che Fausto poteva rappresentare un ostacolo tra lui e la gloria, ma confidava in un suo scarso stato di forma.
Coppi infatti, durante il conflitto, non aveva avuto lo stesso trattamento di favore e si era allenato poco e male.
Nonostante ciò, nel 1942 era riuscito nell’impresa di battere il record dell’ora portandolo a 45,871 chilometri, guadagnando 31 metri rispetto al detentore precedente, il francese Maurice Archambaud.
“E i francesi s’incazzano” avrebbe cantato, molti anni dopo, Paolo Conte.
E così fu!
L’omologazione della nuova misura venne osteggiata in tutti i modi dai transalpini, che sollevavano dubbi sulla regolarità della prova.
Nonostante la sua stella fosse in ascesa, Coppi venne spedito al fronte e nel marzo del 1943 fu trasferito in Tunisia, dove poi cadde prigioniero delle truppe inglesi.
Solo nel 1945 rientrò in Italia per fare l’autista a Mister Towell, tenente della RAF.

Allora sì che potè allenarsi, prima con una bici militare dalle gomme piene e poi con un velocipede da corsa, gentile omaggio di un falegname.
L’ultima competizione, degna di quel nome, a cui aveva partecipato era stata però quella per il record dell’ora e questo Bartali lo sapeva bene.
Il grande Gino aveva l’umore alle stelle ed i muscoli delle gambe pronti a scaricare sui pedali tutta la potenza di cui era capace.
In quella mattina di marzo il cielo era limpido e presto il sole avrebbe scaldato le schiene, ricurve sui telai.
“Il giorno giusto per ricominciare a vincere.” Pensò Bartali.
Coppi celava la propria tensione dietro l’inespressività del volto.
Pareva una sfinge, infilata nella maglietta bianca e celeste della “Bianchi”.
Sentiva su di sé lo sguardo felino di Ginaccio, lo stesso di una tigre che punta la sua preda.
Non era quello che lo turbava, ma il sorriso spavaldo che lui ostentava ogni volta che i loro occhi si incrociavano.
Sapeva che i 293 chilometri di strada che separavano Milano da Sanremo sarebbero stati il palcoscenico sul quale si sarebbe giocato l’azzardo di tornare alle gare nonostante una preparazione insufficiente.
Era conscio che quella prova poteva condannarlo alla gogna o donargli la fama eterna.
Aveva pensato spesso a ciò che lo attendeva, lo aveva fatto ogni volta che era salito sulla sella e con l’immaginazione aveva percorso il tracciato di quella mitica competizione, accarezzandone ogni curva, arrampicandosi su ogni erta e sfrecciando come il vento lungo tutte le discese.
Giorno dopo giorno quel pensiero si era trasformato quasi in un’ossessione: finalmente il momento di partire era adesso arrivato.
Non aveva preparato una tattica vera e propria, si era semplicemente ripromesso che la gara l’avrebbe corsa tutta all’attacco, sin quando una sola briciola di energia fosse rimasta nel suo corpo.
Alle 07:30 in punto il gruppo si mosse.
Nemmeno il tempo di scaldare i muscoli, che cinque dei centoquindici scapparono.
Cinque incoscienti votati al sacrificio, con l’unica aspirazione di guadagnare qualche lira nei traguardi volanti che precedevano il Turchino.
Cinque aspiranti suicidi, pensarono gli altri atleti.
“Lasciateli andare…li prenderemo prima di Genova!” Urlò Bartali.
Formavano il drappello dei fuggitivi Lucien Teissiere – numero 102, francese, Giacomo Bardelli – numero 119, ancora francese ed i tre italiani Tolmino Casellato – numero 68, Luigi Mutti – numero 36 e Fausto Coppi – numero 13.
Teissiere era un ottimo corridore, fresco vincitore della Parigi – Tours, Bardelli, Casellato e Mutti erano delle semplici comparse e Coppi…. bè era Coppi.
Il francese sapeva che Fausto era il compagno di fuga che avrebbe voluto evitare ma sperava di trovarlo poco allenato.
Fu Teissiere che da subito impose un ritmo forsennato, alternandosi in testa agli attaccanti con il compagno di squadra Casellato.
Dietro, gli inseguitori non esistevano, quasi li snobbassero, così come aveva suggerito Bartali.
Tutti, nel gruppo, confidavano nella sentenza che il più prestigioso e talentuso corridore della Legnano aveva emesso. “Tranquilli ragazzi, la corsa inizia ai piedi del Turchino.”
A Binasco chi fuggiva aveva pochi secondi di vantaggio, a Pavia i secondi si trasformarono in tre minuti, a Portocurone salirono a sei minuti.
Quelli che inseguivano erano praticamente in gita.
Il percorso attraversava Tortona e, prima di raggiungere Novi, i corridori dovevano attraversare lo Scrivia, ma il ponte non esisteva più perché la guerra se lo era portato via.

Gli organizzatori, per agevolarne il guado, avevano piazzato una passerella di legno che costringeva gli atleti ad equilibrismi da funanbolo: c’era chi la percorreva a piedi e chi ostinatamente rimaneva in sella e finiva in acqua.
“Il vantaggio è salito a otto minuti!” Urlò nel microfono radiofonico Nicolò Carosio, diffondendo nell’etere la cronaca di una gara che accomunava nelle strade e nei bar appassionati di ogni età e sesso.
Lo sport aveva il potere di scacciare i demoni degli anni bui appena passati, una bicicletta quello di dare respiro ai sogni mai cancellati.
A Ovada, Casellato sbuffava come una locomotiva mentre sui volti di Bardelli e Mutti apparivano i segni della fatica e della resa.
Teissiere diede un’occhiata all’espressione di Coppi, cercando di carpirne invano lo stato fisico.
Fu proprio in quel momento che il francese si alzò sui pedali, scattando rabbiosamente in un gesto atletico pregno di classe e potenza.
Le tre comparse cedettero di schianto, mortificate dall’allungo, mentre Coppi rispose piazzandosi in scia dietro la ruota del transalpino, il quale, dopo un attimo di pausa in cui rallentò vistosamente, riattaccò, sperando di veder cedere lo scomodo compagno d’avventura.
E i francesi s’incazzano.
Il Turchino si materializzò di lì a poco.
Sulla prima rampa, Fausto affiancò Teissiere e, senza guardarlo in faccia, lo superò con la stessa apparente leggerezza di una farfalla che lasciava la corolla di un fiore per approdare su un’altra.
L’erta era dura, ma Coppi sembrava non accorgersene, continuando in una progressione costante e devastante per l’avversario, che non era riuscito a reagire all’attacco.
All’ingresso della galleria che rappresentava il culmine della salita, i due contendenti erano separati da trenta secondi.
L’italiano s’infilò nel tunnel, serrando le mani sul manubrio ed incurvando ancora di più la schiena, nel timore che il buio dell’interno potesse ghermirlo.
Sapeva che il francese non avrebbe mollato tanto facilmente e che nella discesa verso il mare si sarebbe potuto riavvicinare.
Quindi, invece di rifiatare, spinse ancora di più sui pedali.
Percepì il profumo del mare nell’esatto istante in cui sbucò nuovamente al sole.
Aveva il sapore dolce di una primavera anticipata e la sapidità del libeccio che spirava lieve.
La strada era dissestata e sassosa, ma Coppi pareva non curarsene, pennellando ogni curva come fosse un pittore.
A Voltri, quando il percoso spianò, venne accolto da due ali di folla impazzita.
C’era chi urlava il suo nome incitandolo, chi imprecava perchè quel fuggitivo non era Bartali.
I minuti di vantaggio su Teissiere erano diventati quattro: Fausto volava.
Mancava ancora molto al traguardo e cento chilometri erano tanti, forse troppi per un un uomo in fuga solitaria.
Il rischio in cui poteva incappare era quello di non razionalizzare le energie che invece avrebbe dovuto distribuire equamente sui vari capi ancora da affrontare.
La Liguria gli sembrava una terra strana, aspra, compressa tra il mare e i monti, con un’infinità di promontori che come le dita di una mano si allungavano sul Mediterraneo, quel giorno immobile.
Pareva uno spettatore assorto che tratteneva il fiato mentre Coppi pedalava, lasciandosi alle spalle Genova e la sua Lanterna.
“Potrebbe essere una giornata memorabile per l’atleta della Bianchi che a Varazze ha distanziato il francese Teissiere di ben sette minuti ed il gruppo di Bartali di undici.” Commentò Carosio in radiocronaca.

Nei bar di tutta Italia l’euforia esplose e ci fu chi uscì per strada a sventolare il tricolore sabaudo, inconsapevole del fatto che il giorno precedente il Re Vittorio Emanuele III aveva firmato il documento per abdicare.
Capo Mele, dopo Laigueglia, lo affrontò di slancio, spinto dal calore dei tifosi, uno dei quali gli urlò che il distacco sul secondo era ormai di quasi dieci minuti.
Anche per Fausto il divario parve un’enormità, pur conscio che bastasse un niente per annullarlo: una foratura, una caduta, un guasto meccanico avrebbero potuto vanificare tutto lo sforzo fatto sino a quel momento.
Capo Berta si presentò all’uscita di Diano Marina con l’arroganza e la presunzione di chi sa di essere bello.
La strada s’impennava tra olivi, mimose e pini marittimi distesi al sole, con le fronde che parevano inchinarsi al passaggio del corridore.
Era una salita breve ma aspra, come il carattere della gente di quelle parti, apparentemente impermeabile ad emozioni di sorta, ma abituata a trarre dal territorio avaro risorse impensabili.
Come i liguri, anche il Berta, superato il culmine, sapeva regalare il giusto tributo a chi lo aveva rispettato.
La discesa verso Imperia si rivelò sinuosa come la danza di una ballerina bella e seducente.
Fu piacevole per l’italiano lasciarsi trasportare dalla bicicletta lungo il pendio, smettendo di pedalare e per la prima volta concedersi il lusso di rilassare i muscoli della schiena.
Imperia Oneglia lo accolse con l’onore riservato solo ai grandi.
La folla che si assiepava lungo il corso principale era immensa.
Anche i contadini avevano lasciato le fasce tanto amate ed odiate, per rendere omaggio ad un uomo che in quel momento incarnava la prima vera espressione di libertà.
Un giovane italiano in fuga, con dieci minuti di vantaggio su un francese era una sorta di riscatto da parte di chi, nella travagliata fase della guerra, aveva patito l’onta della sconfitta ed il disprezzo dei vicini transalpini.
L’urlo dei tifosi era un’onda fragorosa che si frammentava tra le pareti austere dei palazzi che precedevano la piazza.
Coppi si sentì travolto e lusingato da tanto entusiasmo al punto che…. rallentò e si fermò al limite del corso.
Fissò con gratitudine i volti di quegli uomini che lo incitavano a ripartire, avrebbe voluto fermare il tempo per condividere con loro quel momento di fierezza italica.
Per la prima volta, dopo tanto buio, sentiva di nuovo il senso di appartenenza ad una Nazione, che era formata soprattutto da persone come quelle.
Si guardò intorno ed infine scese dalla bicicletta.
“Tienila un attimo.” Disse ad un ragazzino dai calzoni e dalle scarpe troppo grandi per i suoi dodici anni. Aveva il viso scarno, sporco di fuliggine ed i capelli rossi e ribelli.
Si voltò dirigendosi verso i portici.
La folla si aprì al campione come le acque del Mar Rosso avevano fatto con Mosè.
Nessuno osava sfiorarlo per paura di spezzare quello che sembrava essere un incantesimo.
Fausto aveva individuato un bar, sentendo improvvisamente l’esigenza di bere un caffè.
“Bar Piccardo” recitava l’insegna all’ingresso del locale.
La boiserie ricopriva le pareti candide, rendendo l’ambiente elegante.
Quando Coppi varcò la soglia, tutti i presenti e i lavoranti smisero immediatamente di parlare e nel silenzio assoluto si sentì solo la voce di Nicolò Carosio che gracchiava dalla radio, magnificando l’impresa che un italiano stava compiendo sul percorso della Milano – Sanremo.
Nessuno ebbe il coraggio di muoversi dal proprio posto.
“Potrei avere un caffè, per favore?” Chiese il corridore.

Il barista, rimasto imbalsamato di fronte alla richiesta, venne scosso dalla voce del titolare, che per primo riuscì a muoversi.
“Fai un caffè al signor Coppi…sbrigati…sbrigati…che ha fretta!”
Fausto lo sorseggiò con la dovuta calma, lasciando che l’aroma della bevanda gli gratificasse la bocca e lo stomaco.
Nessuno osava fiatare ed anche la folla che si era assiepata all’esterno, lungo le ampie vetrate, era ammutolita.
“Grazie.” Infine disse.
“Passerò domani a pagarglielo, se per lei non è un problema.” Aggiunse.
“Non si preoccupi, il caffè è offerto da me, se mi permette.” Replicò il proprietario.
“Grazie.” Disse il ciclista congedandosi.
Il ragazzo che aveva in custodia la bicicletta era ancora lì dove Coppi lo aveva lasciato.
Intorno a lui si era creata una sorta di cerchio di tifosi, i cui occhi brillavano di gioia solo per il fatto di essere stati così vicino ad un mezzo unico.
Si scansarono quando il corridore si avvicinò.
“Grazie ragazzo.” Disse semplicemente prima di salire in sella e ripartire.
L’urlo della folla prese nuovamente vigore come per manifestare la gratitudine di quel gesto imprevisto e profondamente significativo.
Lo videro sparire in fondo al corso prima che superasse il ponte sull’Impero.
Il caffè aveva rigenerato il fuggitivo, che pareva animato da nuove energie.
Quando, dieci minuti dopo, Teissiere transitò per Imperia, la folla lo ignorò come sanno fare i liguri nei confronti di chi non sarà mai capace di regalare loro un’emozione.
E i francesi s’incazzano.
Il Viale Matteotti a Sanremo era gremito all’inverosimile e tra tutti i presenti si era sparsa la voce del caffè preso da Coppi al Bar Piccardo.
Come in tutte le buone società, c’era chi lo accusava di arroganza, di presunzione, di scherno verso gli avversari e chi invece lo esaltava per la semplicità del gesto con cui, a fronte dell’esigenza di un caffè, l’atleta si era fermato ad un bar e, da normale avventore, lo aveva consumato.
Quando la sagoma del ciclista apparve in fondo al rettilineo, ognuno dei presenti accantonò la propria opinione al proposito, preferendo tributare l’ovazione a colui che stava scrivendo una pagina memorabile nella storia del ciclismo.
Teissiere arrivò secondo con quattordici minuti di distacco e Bartali quarto, diciotto minuti e trenta secondi dopo Coppi.
Nicolò Carosio, subito dopo il taglio del traguardo da parte del vincitore, aveva commentato così : “Primo Fausto Coppi…e in attesa degli altri concorrenti, trasmettiamo musica da ballo.”
Ad Imperia nel Bar Piccardo nessuno degli avventori si era allontanato dal locale, per seguire in religioso silenzio la radiocronca.
All’annuncio del commentatore tutti esplosero di gioia ed il proprietario offrì un giro di bevute gratis, ma solo dopo aver riposto in un cassetto la preziosa tazzina utilizzata da Coppi.
Qualcuno, ironicamente, si chiese quanti caffè avessero preso gli avversari lungo la strada per accumulare un simile ritardo.

 


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