“Il club delle libellule” di Cynthia Collu


Era stata la Sonia la prima ad avere l’idea. Si era data da fare, aveva cercato il locale adatto (un salone che potesse contenere “ampiamente” lei e le sue amiche) e poi, col suo solito fare petulante, naso all’insù, guance flosce, colorito giallognolo, capelli color stoppa e braccia da camionista sui fianchi, aveva fronteggiato il proprietario che, messo letteralmente al muro, aveva finito per accettare un  contratto d’affitto vantaggioso per la gentile virago.  

La Sonia era corsa trionfante a raccontare la cosa alla Santa, la quale aveva preso in mano il telefono e annunciato a tutte le amiche, urbi et orbi, Libellule, ci siamo! Abbiamo il club!

Il nome del club l’aveva scelto la Sonia subito dopo che le era venuta in mente l’idea, e ovviamente nessuna delle future libellule aveva trovato niente da ridire anche perché, personalità dirompente a parte, alla Sonia spettava il titolo di Cicciona Maxima (cento trenta chili distribuiti su un metro e cinquanta d’altezza), e in quanto tale meritava particolare considerazione da parte di tutte.

La sera che si ritrovarono al club erano eccitate come ragazzine alla prima uscita senza genitori appresso. La Sonia estrasse un papiro di carta dalla borsa di cuoio che portava regolarmente con sé senza un vero e proprio motivo (ma faceva tanto persona impegnata  – così confidò una volta alla Marietta, una biondina dalle chiappe tonde come un mappamondo che pendeva sempre dalle sue labbra), si umettò la boccuccia a cuore e con un sospiro disse, Bene, siamo pronte a redigere il regolamento.

Discussero un po’ sulle virgole sui punti e anche sul punto e virgola – che in un articolo letterario era stato dichiarato prossimo a defungere, suscitando la loro compassione – e alla fine si misero d’accordo: si sarebbero trovate ogni giovedì sera e si sarebbero pesate; chi durante la settimana fosse dimagrita di più avrebbe avuto l’onore di raccontare in dettaglio le proprie avventure amorose, descrivendo i particolari della “cosa”, “del perché” e “del come e con chi” che l’avevano fatta dimagrire. Le altre si sarebbero dovute accontentare, se avanzava tempo, a un vago accenno a quanto era loro accaduto.

Scrissero infine a caratteri cubitali la clausola di sangue: la causa del dimagrimento doveva essere una solenne scopata. Meglio se più di una, meglio ancora se con persone diverse.

Scopare a più non posso, sottolineò la Sonia, questo deve essere il nostro scopo. Quale metodo migliore per fare ginnastica, sudare, sciogliere la ciccia ed espellere tossine? E guatò con aria feroce le future silfidi. Le sue parole furono seguite da un’ovazione. Qualcuna tentò persino di fare la “ola”, e in molte l’avrebbero seguita volentieri ma la stazza impedì loro di alzarsi dalle capienti poltrone. 

Da quel giorno, ogni giovedì alle ore diciannove e trentasei in punto, le libellule si ritrovavano nel club, dove assistevano con trepida devozione al rito della pesata. Un sospiro, un mordicchiarsi le labbra, un guardare le cifre che dopo pochi istanti apparivano nette e incontrovertibili, e subito sotto un’altra. La bilancia tremava, i numeri pure, immediatamente si assestavano con un sospiro, sospirava anche la libellula e lasciava posto alla cicciona successiva. La Sonia prendeva nota diligentemente delle pesate. Alla fine veniva decretata la vincitrice. Mormorii d’invidia, risatine, altri sospiri, e poi finalmente il silenzio. La vincitrice si piazzava al centro della sala, accomodava il suo posteriore su una capiente poltrona messa di fronte a tutte le altre, e cominciava a raccontare.

Perché ti sei fermata, Sheherazade?

Non vuoi prima un cioccolatino?

Dopo.

Sicuro?

Racconta.

Ingordo. Eccoti accontentato.

La signora Nuccia quel mattino si era alzata di malumore. Si voltò a guardare il marito che dormiva rintanato sotto le lenzuola, intravide la macchia scura dei baffetti alla D’Artagnan e le venne voglia di tirarglieli con forza. Ormai quell’uomo non faceva altro che ronfare. Passava dal divano al letto senza soluzione di continuità, l’aria ebete e l’eterno telecomando in mano. Se lo portava anche a dormire, lo ficcava soddisfatto sotto il cuscino e poi si addormentava. Forse voleva cambiare canale ai suoi sogni mediocri, pensava la signora Nuccia con una risatina malevola.

Scese in fretta dal letto e andò in cucina. La caffettiera era già sui fornelli (la signora Nuccia la preparava sempre la sera prima in modo da risparmiare tempo, e il tempo era prezioso, ogni minuto lo era, soprattutto da quando si era prefissa di vincere quel giovedì al club delle Libellule.) 

Accostò l’accendino al fornello e per un po’ stette a guardare la fiamma vivida che splendeva nella penombra del locale. Quello era un momento che aveva sempre amato: il silenzio nella casa e il silenzio fuori; la città si era appena risvegliata e non la disturbava, i rumori della tangenziale arrivavano discreti sino a lei, pieni di promesse.  

Aspettò che il caffè salisse del tutto, poi spense. Aveva ancora un quarto d’ora per sé, poi avrebbe dovuto svegliare il marito. D’Artagnan era in pensione ma non voleva perdersi il talk-show del mattino, una di quelle trasmissioni in cui gli invitati si blaterano addosso e l’ascoltatore non capisce un accidenti di quello che dicono. Ma forse era proprio quello il motivo per cui i talk-show gli piacevano tanto, osservò ancora la signora Nuccia con la consueta risatina malevola. 

Andò in corridoio e si osservò allo specchio. La donna davanti a lei era niente male. Si girò di lato. La pancia era decisamente scesa e adesso, sotto il seno, si vedeva il delizioso avvallamento del ventre disteso. Una quindicina di chili in meno le aveva ridato un po’ della sua figura, quella che da anni languiva nella polvere dei ricordi. Si osservò attentamente il viso. Per fortuna il dimagrimento non le aveva reso la pelle floscia, anzi! Adesso aveva un colorito roseo delizioso. Gli occhi, in mezzo a quel candore, splendevano chiari e famelici.

E allora, che cosa non andava?

Sentì il marito rigirarsi di scatto nelle lenzuola, e seppe che cosa non andava. Lui! Lui e solo lui! Nonostante i quindici chili in meno non la degnava di uno sguardo. Come se lei fosse trasparente. Ecco, era proprio l’impressione giusta: davanti a lui si sentiva inconsistente come l’aria.

Pensò a tutti gli uomini che aveva conosciuto in quelle settimane: ore di sesso sfrenato, baci, carezze. Parole. Mani. Mani dappertutto. Si era sentita frugare in ogni angolino della sua carne generosa (alcuni le avevano fatto il solletico e lei aveva riso come una pazza e se all’inizio c’erano rimasti male poi avevano riso con lei, ridevano e la scopavano, la scopavano e ridevano, cielo, che meraviglia!); aveva imparato l’arte divina della masturbazione, mano ferma e una leggera pressione del dito alla base del pene. E loro, i maschietti, con che occhioni grati e pieni di desiderio la guardavano! Aveva imparato a succhiare in tutti i modi possibili i loro cazzi svettanti come garrule bandiere, e loro, gli uomini, con la testa arrovesciata, arrapatissimi, le dicevano parole guerriere, la strizzavano da tutte le parti e alla fine la ribaltavano e le spalancavano le cosce e lei si faceva succhiare come una caramella, una dolce caramellina tutta per te, prendila, mio caro, scioglila in bocca, sino in fondo, altrimenti non sai cosa ti perdi. E poi le cavalcate. Le discese ardite e le risalite. Una volta era stata con una donna. Molto meglio del marito, a dirla con franchezza.

E allora? Perché questo malumore? Possibile che desiderasse ancora il ridicolo omino coi baffi che si mimetizzava ogni notte nelle lenzuola del grande letto matrimoniale e che intervallava ronfi sonori con peti squillanti?

Lei, superba matrona dalle imponenti tette, desiderava davvero i baci di quell’essere rinsecchito e, diciamola tutta, anche un po’ rimbambito?

Sì. Sì. SI’. 

La signora Nuccia si asciugò con rabbia una lacrima che si era fermata all’angolo dell’occhio, incerta se scendere o tornarsene di corsa nella congiuntiva.

Sì, pensò ancora, Voglio che lui torni ad amarmi. Voglio che lui mi scopi come la prima volta. Ma anche come la seconda e come la terza (crepi l’avarizia!).

Ripensò all’incontro del giorno prima. Era stato sicuramente quel tassista a smuoverle dentro tutta la tristezza. L’aveva guardata in un modo… Come se fosse l’unica donna sulla terra, ecco! Come se fosse importante solo lei, come se… Come se per lei ci fosse ancora una possibilità.

La signora Nuccia rabbrividì. Era stata stupida a non prendere il numero del taxi. Chissà se avrebbe mai rivisto il suo bel chauffeur.

Si osservò ancora allo specchio, poi guardò il grande orologio appeso al muro. Era ora di svegliare il bell’addormentato.

Forse è meglio così, si disse mentre si recava in camera, forse è meglio che non riveda più quell’uomo. Mentre tirava le lenzuola in cui era avvolto il marito si chiese cosa avrebbe raccontato alla riunione in caso di vittoria. Solo il sesso, o anche quello che le era accaduto dentro, quella cosa meravigliosa a cui tutti anelano, e che giustifica e nobilita il desiderio? Si era innamorata? Chissà. 

Deciderò al momento, si disse ancora, e con uno strattone deciso tolse le coperte dal corpo triste del marito.

Appena entro nella stanza si solleva il brusio. Ovviamente gongolo. Vedono quanto sono dimagrita, temono che vinca anche oggi, poverette! Sonia è più colorata che mai, si è infilata in un vestitino viola a balze arancioni che le mette in mostra le ciambelle tipo omino Michelin con cui arranca verso di me. Mi sorride, ma se potesse mi metterebbe un imbuto in bocca e mi nutrirebbe a forza! 

I miei fianchi hanno ripreso una forma umana, altro che le ciambelle a cui mi ero abituata! Ci scivolo sopra con la mano, lasciva, lascio che i loro occhi ne seguano il percorso, ammirati e invidiosi; con un sospiro la mia mano raggiunge il basso ventre. Loro mi fissano in apnea. Vi sto preparando l’antipasto, carine!

Ecco che viene portata la bilancia. Cominciano a pesarsi. Sguardi, sospiri, scrollamenti di testa. Sonia prende nota. Ogni tanto qualcuna scoppia a piangere. Qualcun’altra squittisce, eccitata. Io mi peso per ultima.

Silenzio in sala, non vola neanche una mosca. Il numero 78 appare, si fa largo senza incertezze. Sono dimagrita di altri tre chili. HO VINTO! Nuccia, Nuccia! plaudono tutte.

Sonia mi indica la poltrona al centro della sala. Mi avvio con incedere regale, mi siedo e le guardo. 

Allora, hai deciso di farci soffrire ancora a lungo? Racconta! grugnisce lei.

Invece di rispondere accavallo le gambe. Osservano la mia prodezza con occhi sgranati.

Tre chili, esordisco. Mica male, vero?

Brusio di fondo. Qualcuna dice sì, qualcun’altra ha un gesto eloquente come dire, Fanculo il peso, parla, invece!

Sonia alza imperiosa un dito e zittisce lo sciame. Poi si rivolge a me con uno ringhio.

Racconta!

Beh, dico io,se proprio avete fretta… Questa volta ho incontrato un esibizionista… 

Le guardo a una a una, sono morbide e tenere, inchiodate sulle sedie in trepida attesa. Il loro silenzio ha qualcosa della venerazione. In questo momento le amo, le amo tutte da pazzi.

Sapete, continuo, uno di quelli che gode a farsi vedere mentre scopa. Si è presentato sotto casa mia in taxi, mi ha aperto la portiera e ha persino fatto un mezzo inchino. Bell’uomo, devo dire.

Tacciono. Do loro un altro sorso di nettare. 

Alto, moro, con dei muscoli così. Jeans incollati all’inguine. La forma del cazzo prorompente. Mi sono venute le lacrime agli occhi al pensiero di quello che mi avrebbe fatto, col suo arnese.

Sento una di loro deglutire. Invece… Beh, vi racconto. Salgo sul taxi. Lui si presenta, Giorgio Rizzo, mi dice. Gli stringo la mano, Patrizia Melodia, rispondo; lui ride, insomma, i soliti convenevoli per rompere il ghiaccio. Dà al tassista un indirizzo, Casa mia, mi sussurra, vedrai che alcova, tappeti morbidi così – mi tocca la coscia – e un camino acceso per non prendere freddo, a me piace girare nudo per casa, mangio persino nudo, dà un senso di libertà… E tu?

Non faccio in tempo a rispondere che la sua mano s’insinua leggera tra le mie cosce, con un colpetto mi divarica le gambe, con un dito abbassa i collant, con l’altro mi fa dei deliziosi ghirigori sul pube, poi scende, cerca la mia apertura (io ce l’ho già spalancata, ragazze!), la trova e ci introduce le due dita, le muove sulle pareti della vagina, a cerchio, con sempre maggiore intensità, io mi trattengo dal mugolare, penso, Questo è pazzo a volerlo fare in macchina, adesso il tassista lo prende a botte e ci denuncia! Guardo imbarazzata l’uomo alla guida del taxi. Lui ha notato tutto quel tramestio e mi sta osservando dallo specchietto.

Faccio una pausa. Mi stanno ascoltando nel silenzio più assoluto, gli occhi umidi e larghi di gazzelle che annusano la savana. 

Beh – proseguo – non era né a disagio né incazzato. Mi guardava come se volesse invitarmi a continuare. Vai avanti, mi diceva con gli occhi. Sei bellissima, vai avanti. Per favore. E allora mi è successa una cosa strana. 

Che cosa?, chiede Sonia con un filo di voce.

Mi sono messa a scopare con lui. Il suo sguardo mi è arrivato sino all’anima, o all’utero, se preferite. Mi sembrava che mi dicesse, Sono io il tuo uomo, quello che ti scopa davvero. Da quel momento ogni mio gesto è stato per lui. Volevo, come spiegarvi… godere insieme a lui.

Le altre si guardano perplesse. E Giorgio il Cazzuto?

Ah, lui si è abbassato con la testa all’altezza giusta, e mi ha ficcato dentro un linguino che non mi aspettavo, sembrava bruciare in punta, e tutto quel calore me lo rimestava nella figa, scusate il termine un po’ crudo. Io ho cominciato a gemere e intanto guardavo negli occhi il mio tassista. A un certo punto ho notato il gesto della sua mano, è scesa in basso, verso i pantaloni. In quel momento mi sono sentita veramente felice. Anche Giorgio se n’è accorto, gli ha detto con calma di fermare la macchina, lui ha guidato ancora un poco poi ha accostato in una stradina deserta, Giorgio intanto aveva ripreso a leccarmela, ci dava dentro perché l’altro si eccitasse di più, per aiutarmi mi ha messo un dito in vagina e l’ha mosso avanti e indietro con forza. Io gemevo e non riuscivo a staccare gli occhi dal mio tassista.

Sospiro adagio. Guardo le libellule che mi osservano con gli occhi sgranati. A giudicare da quanto sudano sono in fase di dimagrimento. Dovrei farmi pagare.

E lui? sollecita Sonia.

Lui non si è girato una volta. Si masturbava guardandomi fisso dallo specchietto. Io mi trattenevo dal venire, volevo che lo facessimo assieme. A un certo punto si è messo ad ansimare. Allora sono venuta. E’ stata una sensazione sconvolgente, mai provata così forte. 

Sospiro, poi dico: Nessuno riuscirà più a scoparmi in quel modo.

Una pausa, poi aggiungo in fretta: E a rendermi così felice.

Un sospirone collettivo commenta la mia frase.

E Giorgio?

Giorgio ha fatto proseguire la macchina sino a casa sua. Abbiamo pagato la corsa, e lui se n’è andato. Siamo saliti e abbiamo provato in tutte le posizioni possibili e immaginabili. Ma… 

Taccio. E’ difficile mettere ordine nei miei pensieri. Figuriamoci nelle mie sensazioni. 

Non so, non ha funzionato. Giorgio mi sembrava moscio, senza entusiasmo. Forse aveva bisogno di una persona che l’osservasse mentre si esibiva. O forse non funzionavo io. Mi mancava terribilmente il suo sguardo.

Taccio ancora. Ma il mio pensiero è evidente anche alle altre che approvano, in silenzio. Avverto la loro comprensione, la loro solitudine, la loro voglia di urlare al mondo, Anche noi siamo donne, non solo grassone, e di colpo, senza un motivo apparente, senza niente che me lo faccia presentire, ho voglia di piangere.

E poi? Racconta ancora, Sheherazade.

Subito? Non vuoi prima un cioccolatino?

Il grande letto matrimoniale a baldacchino occupa quasi tutta la stanza. Dalle quattro colonnine che arrivano sino al soffitto, un tripudio di raso rosso scende morbido nascondendo gli occupanti del letto alla vista di estranei.

In mezzo a questo tripudio, sulla coperta di raso color verde mela, la signora Nuccia è seduta a gambe incrociate. E’ grassissima, e completamente nuda. 

L’uomo disteso davanti a lei finge indifferenza. Se ne sta sul letto a fissarla, le mano dietro la nuca, i piccoli occhi neri puntati a spillo sulle areole della moglie, larghi petali rosa che si schiudono delicati sul candore sterminato dei seni.  

La donna è enorme. Bianca e morbida come burro. Le grosse tette solide e prorompenti offerte in avanti, verso di lui. La pancia è un cuscino di gommapiuma dove gli piacerebbe appoggiare la testa per ricevere carezze e poi scendere, scendere, verso la nicchia segreta che lei racchiude tra le gambe. 

Le cosce sono enormi, possenti nella posizione del loto. Sorride, bellissima. Muove la testa e la zazzera rossa, immobilizzata a ciocche corte nel gel, segue il movimento del capo in una fiammata di luce.

Ride. Le tette enormi traballano, il ventre prominente si scuote e un cioccolatino passa velocemente dalla sua grassa mano alla boccuccia a cuore.

Quale ti è piaciuta di più, caro?

Prende un altro cioccolatino, lo fa sparire in mezzo alla carne perlacea delle cosce.

Tutte, borbotta lui. E poi: Dammelo.

La signora Nuccia ride di nuovo.

Basta, ingordo. Altrimenti scoppi.

La mano riappare col cioccolatino sul palmo aperto. Il cioccolatino finisce veloce sulla sua linguetta rosa. Chiude la bocca. Mastica rumorosamente e poi si lecca le labbra.

Buono.

Osserva il membro del marito; il pigiama di seta bianco con elefantini rossi ne mette in evidenza la timida erezione. 

Si lecca ancora le labbra, adagio. 

Ecco, gli dice, sono pronta anch’io.

Aspetta!

Il marito ha sollevato la mano verso di lei. Una mano enorme. 

Ancora un attimo. Prima raccontami un’altra storia, mia Sheherazade.

Si è sollevato su un gomito e ansima un po’. Immenso, grasso e potente. Il cranio pelato lucido di sudore. Gli occhi porcini guizzano sul corpo di lei, senza pace. Eppure c’è qualcosa di nobile in lui, e di solenne, mentre le osserva la carne piena trattenuta dalla pelle luminosa.

Qualcosa di triste, anche.

Una statua di Buddha abbattuta da infedeli, un gigante di colpo crollato al suolo che ora, da quella posizione, osserva con infinita pazienza il mondo che continua ad agitarsi.

Mia Sheherazade.

Le sorride, tenta ancora di sollevarsi ma poi crolla sul cuscino. La guarda. Ti amo, mormora.

Anch’io.

La signora Nuccia gli sorride. Gli occhi azzurri hanno un lampo d’inquietudine. Dovresti metterti a dieta, lo sai.

Poi ride. La montagna di carne oscilla, facendo cigolare il letto. Immensa, potente. 

Ogni suo gesto racchiude un segreto. Lui conosce quel segreto, è qualcosa che sta dentro di lei, che la rende bella e vitale dietro a tutto quell’ammasso di ciccia.

Per lei ha voluto ingrassare in tutti quegli anni, sino a diventare enorme come un lottatore di sumo. A volte fatica a respirare. Ma è felice così. 

Le fa cenno verso la scatola di cioccolatini.

Lei scuote la zazzera di fuoco. Gli occhi sono più chiari dell’acqua che batte obliqua dietro i vetri della finestra.

Sta diluviando, Sheherazade, mormora lui.

Lei fa un gesto ampio con la mano, gli sorride. Dimmi, qual è la scopata che ti è piaciuta di più?

Qualcosa che possiamo riproporre noi?

No. Quella più bella e basta.

Ci pensa.

Forse quella dello snuff. Sei stata terribile.

Lei gli punta contro il dito roseo e grassoccio.

Proprio quella? Vorresti liberarti di me, tesoro?

Non sarebbe una cattiva idea.

La signora Nuccia prende un altro cioccolatino e lo tiene sollevato in aria con due dita. Lo lancia verso la bocca del marito. Con un colpo inaspettato di reni lui si solleva e riesce a prenderlo al volo.

Sei un animale, ride lei.

Sì.

Una foca.

Sì.

Disgustosamente grasso.

Sì.

Faresti tutto per me?

Tutto.

Allora domani mettiti a dieta.

Domani. Va bene.

Dici sempre così.

Prende due cioccolatini e li mette sul suo pene. Poi gli si sdraia accanto, leggera e morbida come un impasto di farina appena lievitata.

E tu, Sheherazade? Ti metterai a dieta? chiede l’uomo.

Anch’io caro. Anch’io.

E ti peserai ogni giorno come al club delle Libellule?

Scoperò come una dannata e poi mi peserò.

Con me.

Con te.

Lei svuota con cautela tutta la scatola. Gli mette un altro cioccolatino sul pene. Quello di mezzo ruzzola insofferente sulle lenzuola. Lei lo prende con due dita e lo porta alla bocca. Lo succhia con gusto, fa roteare la lingua finché vede il pene del marito diventare un po’ più turgido. Allora chiude gli occhi e ricorda. Ricorda, la signora Nuccia.

C’è stato un tempo che il marito la faceva godere ogni giorno con ardore incontenibile. Con gli anni era ingrassato, tanto, ma pareva essere sempre in buona salute. 

La signora Nuccia sapeva perché era ingrassato, anno dopo anno. L’aveva fatto per lei, perché non si sentisse mai sola. A un certo punto lei gli aveva detto basta, Basta tesoro, lo so che mi ami ma basta così, ma lui non aveva più smesso. Nonostante lei gli avesse ridotto le porzioni nel piatto. Nonostante le cure. Nonostante l’amore. Niente. Continuava ad aumentare di peso e di volume, come se volesse riempire completamente lo spazio attorno a sé, sino a inglobare anche lei.

Ricorda, la signora Nuccia. Il primo attacco di cuore. La corsa in ospedale. Un altro attacco mentre lo stavano visitando.

Il dottore era stato chiaro. Dieta sotto stretto controllo. Nel frattempo niente arrabbiature. Moto, ma senza forzare. Quanto al sesso… Aveva scosso la testa. Mi raccomando, bisogna andarci piano. 

Come, andarci piano?

Niente più scopate. Carezze, quelle sì. Un po’ di masturbazione. Ogni tanto. Stando sempre attenti a non esagerare. Mi raccomando a lei, signora.

L’aveva guardata con un misto di compatimento e di comprensione. Mi raccomando a lei, signora, aveva ripetuto.

E adesso, che restava alla signora Nuccia?

Favole, favole e poi ancora favole da raccontare al marito. Storie di amplessi furibondi, in macchina, in ascensore, per strada, con uomini, donne, oggetti, coiti sfibranti, scopate spasmodiche, orgasmi infiniti, e tutto per vedere un sorriso malinconico negli occhi di lui, un guizzo nel pene che una volta era stato insaziabile. Così arrogante. Così deciso.

Tolse i cioccolatini dal pene del marito e li mangiò. Forse un giorno sarebbe diventata grassa come lui. Allora qualcosa sarebbe successo, nel bene o nel male. Anche morire insieme sarebbe stato dolce.

Gli abbassò del tutto i pantaloni, poi glieli sfilò. Fece lo stesso con le mutande. Infine chinò la testa cercandogli il pene.

Si era ritratto ancora nel suo nascondiglio.


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