"Il custode di Izu" di Christiano Cerasola


 

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Anche per oggi è finita, sono già le otto di sera.
Vado a chiudere il cancello e me ne frego dei ritardatari, cercano sempre una scusa per voler entrare.
Sarà inutile che mi facciano trovare, sull’uscio, i daifuku* ripieni di anko* per corrompermi, tanto non li farò passare. Si è diffusa, qua attorno, la notizia che vado ghiotto di quei dolcetti… ma no, stasera non funzionerà.
I dolori che avverto da giorni mi sfiancano, sono sempre stanco e l’affanno mi stringe nella sua morsa. Respiro a fatica e muovermi mi riesce difficile, ogni mio passo è troppo incollato al suolo. Meglio che chiuda in fretta stasera.
Poi speriamo non arrivino gli altri, quei balordi, quelli che nei fine settimana si divertono a scavalcare i cancelli.
Non li sopporto e mi fanno anche un po’ paura quegli stronzetti brutti e arroganti. Sono sempre vestiti di nero, puzzano di birra e sono così tanto aggressivi, chissà dove si nascondono di giorno, e dove studiano o lavorano?
Potrebbero benissimo essere dei vampiri, non mi stupirei se di giorno evaporassero alla luce del sole, per poi ritornare a vivere nelle tenebre… che gentaglia, chissà che cosa dicono i loro genitori.
Comunque devo ammettere che è calato di parecchio il flusso di gente in questi giorni, sicuramente è perché sta arrivando il freddo, non credo sia colpa di quei deficienti.
Questo era, di solito, il periodo dei ricercatori, o sedicenti tali, che arrivavano con quegli strani macchinari, e che facevano un macello che teneva svegli tutti i pesci, i gabbiani, e me.
Io stasera vorrei stare tranquillo, dimenticarmi del frastuono del mondo, leccarmi le ferite, bermi un tè sulla veranda e fumare una sigaretta, non vedo l’ora di sedermi e ammirare il mare, consapevole dell’entrambi schiavitù nei confronti degli umori della notte.
Mi piacerebbe sentire, solo, il rumore della risacca e vorrei spegnere tutte le lampade e le candele e illuminarmi della luna e delle stelle, ieri sera brillavano in maniera così ostentata. L’aria era così limpida che, in lontananza, si riusciva a distinguere le sagome delle isole al largo.
Quest’autunno inoltrato, il vento freddo, e l’odore di sabbia bagnata, renderebbero chiunque nostalgico.
Il freddo di questo cielo, azzurro scuro, l’aria pulita e il vento pungente fanno vibrare la luce delle candele, arrossare le mie guance, oramai avvizzite, e bruciare la gola. Guardo le mie mani, grosse, perennemente sporche di sabbia, assomigliano a dei tuberi, il tempo le ha indurite e non sentono più le intemperie, sembra che nemmeno il sangue ci scorra più attraverso.
Magari, anzi sicuro, mi tornerà in mente Kazue. Mi piacerebbe perdermi nei suoi pensieri, anche se so che mi faranno male.
Il mio stupido vizio di trovare consolazione nella tristezza, accidenti a me!
In fondo oramai son solo un vecchio inaridito ed eroso dal tempo. Un uomo dallo sguardo duro il cui destino è stato tracciato al cospetto di un’illusoria presunzione, che m’inganna di aver portato a termine, nel migliore dei modi, il mio cammino.
Ma Kazue, oh Kazue…
Dove sarà mai? Avrà sempre quell’ombra di tristezza sul viso, e chi avrà al fianco in quest’istante? A quest’ora sarà sul suo futon, accanto al suo amore.
Ma quanto dovrà passare ancora prima di pensare a quella donna, senza che mi si stringa il cuore? Mah…
Le giornate si stanno accorciando, la stagione è al capolinea e gli alberi hanno perso il loro vigore estivo, stanno cadendo tutte le foglie, ne ho raccolta una, è proprio bella e le sue venature viola disegnano la forma del profilo di Kazue…
Aveva un viso così delicato, i lineamenti erano così poco accentuati che, spesso, quando le batteva il sole in faccia, scomparivano e si potevano intuire solo dalle poche ombre che si creavano sul suo volto. Kazue sembrava fatta di porcellana, con quella genetica fragilità che hanno alcune donne, innata non costruita. Sempre, quando qualcuno le rivolgeva la parola, le sue guance arrossivano un po’.
Anche il suo collo era così sottile che, talvolta, quando lo stringevo avevo paura di spezzarlo e i capelli, sempre raccolti con una forcella blu, sulla nuca, odoravano di prato.
Fu una bella storia, la nostra, me ne resi conto troppo tardi però.
A mio modo l’amai, ne sono tutt’ora convinto, anche se commisi tutti gli errori possibili e immaginabili; mi abituai alla sua bellezza, ignorai i suoi malesseri e non ascoltai le sue paure.
Kazue mi aspettò e mi seguì, per tanto tempo, ma non fui in grado di ricambiare i suoi sentimenti, incapace di dimostrarle ciò che provavo. Probabilmente commisi degli errori di valutazione, me la presi un po’ troppo per quello che mi circondava, e tralasciai ciò che valeva davvero, fui il principe degli sciocchi.
La sua voce mi causava emozioni profonde, le sue parole d’amore, e la sua balbuzie, mi facevano sanguinare il cuore, avevamo raggiunto anche la sincronicita’ nei silenzi. Quando pioveva adorava fissare le pozzanghere che si formavano tra la sabbia e rimaneva per ore a osservare i cerchi provocati dalle gocce quando si scontravano con lo specchio d’acqua. Lei rimaneva lì, come ipnotizzata.
La prima volta che mi disse “ti amo..” fu proprio sulla spiaggia. Faceva freddo e le sue labbra erano screpolate e blu. Il respiro era affannoso, sotto la pioggia fine s’intravedevano i piccoli seni attraverso la sua maglietta preferita, quella bianca.
Quella maglietta, bianco sporco, mi faceva impazzire; più volte cercammo di salvarla dall’inesorabile scorrere del tempo, ne prolungammo solo l’agonia.
La sua dichiarazione d’amore, complice la conclamata balbuzie e la timidezza, la ricordo come fotogrammi di un vecchio film che scorrono al rallentatore. I pallidi colori pastello della spiaggia, la sfocatura amplificata dall’emozione e dalla pioggia, l’audio compromesso dal suo modo di parlare… Ecco, vedi che inizio a intristirmi? Ora basta, devo fare altro.
Dovrei contare gli Yen che ho guadagnato oggi, oppure controllare che cosa mi hanno lasciato nei sacchettini, spero che ci sia qualche dolcetto…
Dovrei sostituire il vuoto della malinconia con qualche altro pensiero, con qualche stratagemma.
Sono ormai quarant’anni che faccio il guardiano, sono quattro decenni che controllo la curiosità, l’irruenza e la maleducazione dei curiosi, raccogliendo pettegolezzi.
Sono il custode di uno dei più bei luoghi del Giappone ma, all’inizio, la gente veniva qui per vedere altro, non il bel panorama o gli struggenti tramonti.
L’arida quotidianità delle mie giornate, e il tempo, mi aiutarono a riconoscere i loro occhi, oramai li individuavo appena varcavano i cancelli, il loro sguardo era sempre lo stesso, ansioso, imbarazzato, avido, determinato. Gli occhi di quella gente erano diventati familiari per me. I turisti avevano tutti fretta, erano pieni di speranza, l’illusione li animava e li accecava, avevano le bocche sempre un po’ troppo aperte, alcuni mi sembravano matti.
Venivano al mattino, portavano i cestini con il pranzo, passavano la giornata in riva al mare, e ogni tanto qualcuno mi lasciava un sacchettino con del cibo, chissà poi perché?
Quelli che mi davano più sui nervi erano le famiglie che azzardavano a farsi i barbecue.
Si diffondeva nell’aria quel profumino di crostacei e frutti di mare che mi faceva venire, costantemente, l’acquolina in bocca. Passavo i pomeriggi a deglutire litri di saliva.
Accidenti a loro, con 300 Yen si garantivano un pomeriggio spensierato! Tanto io sapevo che la loro attesa sarebbe stata delusa, questa era la mia segreta vendetta. L’ottusa rivincita di chi non ha altro, l’obliqua soddisfazione del gioire della delusione altrui, la consolazione di assaporare la tristezza degli altri. Sciocco ma appagante peccato.
Quando avevo solo vent’anni ero un tipetto silenzioso e un po’ sconclusionato, né particolarmente scellerato né rabbioso. Non avevo ancora capito granché, ero perennemente in lotta con il mio groviglio di capelli e complessato dell’eccessiva gracilità del mio corpicino nervoso, speravo di raggiungere il metro e settantacinque, ma non ci riuscii. Le ragazze della zona dicevano che avevo un bel viso, anche se io mi trovavo anonimo, ordinario, indossavo spesso gli stessi pantaloni di lino neri risvoltati sui polpacci e camminavo sempre scalzo. Ero di sovente sporco di terra, pallido e appiccicaticcio. Durante gli inverni mi mettevo sempre il mio maglione preferito, quello bianco, tutto slabbrato. L’unica cosa di me che trovavo affascinante erano gli occhi, le numerose ragazze del paese asserivano fossero all’occidentale, non mancavo occasione di sfoggiare con orgoglio, e tentare di sedurle, con le mie ciglia lunghissime e folte, abbastanza atipiche per un ragazzo giapponese. Trascorrevo le giornate, a zonzo, per Shimoda, studiavo poco e, a causa della mia indolenza, facevo perdere la pazienza alle varie maestre che si avvicendarono durante gli anni. Rincorrevo i miei volubili fantasmi, tipici di ogni adolescente. Ora mi spiego come, di sovente, nel nostro passato ci siano degli episodi premonitori ai quali saremo inevitabilmente e fatalmente legati. La mia mamma, particolarmente anaffettiva, si disinteressava a me, e faceva il minimo garantito per alleviarmi dalla mia adolescenza. Preparava la colazione, e il pranzo, ma mai la cena, attorno alle quattro di pomeriggio, come se dovesse rispondere a una sorta di orologio biologico, smetteva di pensare a me. Attorno a quell’orario, io sapevo, che non potevo più contare su di lei. Qualunque cosa succedesse. Mamma era una donna, il cui precario equilibrio, l’aveva fermata a prima della nascita di suo figlio. La mia infanzia e la mia pubertà avevano solo sfiorato i suoi interessi, senza mai diventare priorità per lei. Non mi ricordo di nessuna ramanzina, o discussione o scenata. Lei occupava il suo tempo a curare i fiori e a dipingere, incomprensibili, quadri. Si nutriva per inerzia, e beveva per conciliare il sonno. Nemmeno l’ebbrezza del vino ha mai creato un sussulto in lei.
Credo che la sua vita, tutto sommato, nonostante gli inevitabili colpi del destino, trascorse in una sorta di calma piatta, più simile alla vita di un vegetale, che a quella di un mammifero pensante. Non seppi mai se si trattò dell’innocenza della mente, o ignoranza del cuore
Probabilmente, immaginavo, che le fosse mancata l’altra metà della famiglia, mio padre.
Lui se ne era andato, prima della mia nascita, senza nemmeno volermi riconoscere. Imputavo alla sua assenza questa stranezza di mia madre. Nutrii non pochi dubbi, anche, sulla capacità di amare di quella donna.
Proprio in quel periodo nel quale mi facevo tutte quelle domande, circa quaranta anni fa, tutto ebbe inizio. Fu allora che una signora di Shimoda, una certa Yuriko, indicò tra le scaglie di luce, sulle onde, il corpo di una donna che fluttuava.
Subito attorno a lei si formò un gruppetto di gente, bambini, anziani, e i numerosi artisti che trovano ispirazione, per dipingere o scrivere, nei paraggi del mare.
I più temettero si trattasse di qualcuno che stava annegando, anche se era una bella giornata d’estate e il mare era tranquillo. Gli scettici credettero di vedere un delfino, o un tonno, che guizzava fuori dall’acqua.
Un paio di signori si gettarono vestiti in mare, per dirigersi verso quella creatura, e le loro mogli corsero a chiedere soccorso ai bagnini. Nella confusione, come spesso accade, si elettrizzò l’aria lì attorno, e ci fu un parapiglia generale. La maggior parte dei bagnanti osservò la scena, come se fossero al cinema.
Il signor Eiji, il vecchio pittore, abbozzò uno schizzo su un foglio di carta, altri scattarono delle fotografie, che stranamente vennero quasi tutte un po’ sfocate. Sì, quasi, perché fu proprio una di quelle foto che creò la leggenda.
Il signor Otogawa divenne ricco dalla vendita e dallo sfruttamento di quell’immagine in bianco e nero.
Quella fu l’unica fotografia, scattata con una semplice polaroid, che testimoniò quell’avvenimento che avrebbe cambiato, e arricchito, la vita degli abitanti della penisola di Izu.
Quella fotografia, che fece il giro del mondo, raffigurava la silhouette, in controluce, di una donna che saltava fuori da un onda, in mezzo agli schizzi d’acqua e alla schiuma.
Si poteva avvertire che era una bella donna, con i capelli lunghi e il seno turgido, ma dalla vita in giù, al posto delle gambe, aveva una lunghissima coda di pesce, con le squame che brillavano al riverbero dei raggi del sole.


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