"Il faro" di Fabio Mundadori


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Il mare si agitava inquieto, non era burrasca.
Non ancora.
Dalla balaustra che girava attorno alla sommità della costruzione alta, slanciata e al contempo massiccia, quasi si poteva avvertire il fascio della lanterna passare sulla propria testa, si poteva osservare la lama di luce sezionare un buio privo di stelle da tempo immemorabile, fino a conficcarsi sulla superficie di quel mare nero, silenzioso e in perenne attesa di tempesta.
E le tempeste arrivavano. Oh sì!!
Tempeste terribili, muraglie di mare che si inerpicavano ad altezze inimmaginabili per una massa d’acqua, inimmaginabili per come sfidassero la forza di gravità.
Il Faro si ergeva su un isola che era poco più di uno scoglio delle dimensioni di una collinetta: rocce terriccio e sterpaglie ammassati quanto bastava per permettere a un ciclope immaginario di piantarlo, lì in mezzo al mare.
L’acqua non toccava mai il Faro, poteva superarlo in altezza con onde spaventose, ma queste ricadevano un attimo prima di ghermirlo come invece ci si sarebbe aspettati, come se uno scudo invisibile fosse lì a protezione.
E lui, il guardiano: da quanto tempo era lì?
Un giorno?
Un anno?
Una vita?
Non ricordava.
I giorni e le notti non esistevano quel luogo, solo un cielo buio che per qualche ora poteva assumere il colore del crepuscolo per ripiombare immediatamente nel nero più assoluto.
Unica fonte di luce, la lanterna.
E le folgori che preannunciavano la tempesta.
Come ora.
Gocce grosse e pesanti cominciarono a rimbalzare sulla visiera del cappello, sempre più numerose, più insistenti fino a infittirsi e diventare un unico scroscio di pioggia.
Di sotto, come una bolla di magma, la prima onda esplose dalla superficie: un muro d’acqua nera e densa che pareva innalzarsi all’infinito; levando gli occhi al cielo in quel momento, si poteva godere dello spettacolo di un’oscurità oscurata da una coltre ancora più densa e buia. Altri e più alti marosi si susseguirono muovendosi come in una forsennata danza pellerossa attorno a quel totem, e tutt’attorno non un rumore, non un filo di vento, solo il ronzio del motore della lanterna e il ticchettare nervoso del suo orologio da taschino.
Come era finito lì?
Perché era lì?
Tutto era iniziato quel giorno.

Ricordava quel giorno, era d’autunno.
Cielo grigio, vento, foglie gialle e tutto quanto il resto; “tutto quanto il resto” comprendeva, tra le altre cose, un amore interrotto tanto tempo prima, giornate vissute in un’angosciante solitudine nell’attesa che qualcuno ricordasse della sua esistenza, anche solo per un caffè, una pizza.
Ricordava di quel giorno la disamina quasi analitica che aveva fatto della propria vita.
La ricordava perfettamente, così ineluttabile, così inattaccabile, inevitabile, impossibile da scongiurare: se avesse avuto una seconda chance avrebbe imboccato gli stessi bivi sbagliati, commesso gli stessi errori, subito gli stessi insostenibili torti, provato lo stesso incredibile dolore.
Ne era certo.
Oltre a tutto questo, ormai da quasi due anni non lavorava più e la sua liquidazione da dirigente incassata quando aveva dato le dimissioni, cominciava ad assottigliarsi.
Due anni.
Solo due anni prima poteva definirsi un uomo felice, certo con alle spalle un matrimonio finito, ma aveva Sonia la donna che lo sapeva capire, la sola donna che avrebbe mai potuto amare, la donna con la quale vivere, la donna con la quale ridere.
Aveva un lavoro che gli piaceva, ben remunerato con grandi prospettive: era il dirigente più giovane dell’establishment aziendale.
Nel ricordo rivide l’ uniforme che suonò alla porta
– Signore… è irriconoscibile… sono …vvero spiacente … seguirci … …bitorio… – l’udito si rifiuta di sentire, il cervello di capire, le gambe di sorreggere – …dizione!…Mancuso! …chiama …mbulanz… –
Si risparmiò il ricordo del corpo (corpo?) di Sonia fatto a brani dalle lamiere.
Alcune parti triturate all’interno della carrozzeria non era stato possibile estrarle: l’autotreno guidato dall’autista ubriaco era passato sopra all’auto mentre si ribaltava sul fianco.

Dopo la morte di Sonia niente fu più lo stesso.
Il mondo intorno a lui crollò in modo repentino, quasi banale.
In breve si trovò solo e senza alcun desiderio di fare alcunché, rassegnò le dimissioni e intascò la liquidazione.
Un giorno dopo l’altro la sua vita si ridusse gradualmente a un encefalogramma piatto.
Ricordava quel giorno.
Seduto al tavolo della cucina, aveva davanti a sé il giornale aperto sulla pagina delle offerte d’impiego, tra le mani il foglietto delle controindicazioni di un potente tranquillante: “superare le dosi raccomandate potrebbe causare il decesso”, la morte che cercava era davvero facile da ottenere. Bastava solo ingurgitare quelle pillole colorate in quantità massiccia e avrebbe ottenuto ciò che ormai da mesi non aveva il coraggio di fare. Togliersi la vita.
Poi lo sguardo cadde sulla pagina del giornale, un piccolo riquadro contenente uno degli annunci aveva attirato la sua attenzione:
Cercasi persona fidata alla quale affidare le mansioni di Custode.
Inviare il proprio curriculum professionale al seguente indirizzo di posta elettronica… bla bla bla.

Lo scroscio della pioggia che si trasformava di nuovo in ticchettio e quindi in silenzio lo strappò al ricordo.
La tempesta stava scemando, le onde titaniche si stavano ritirando, risucchiate dal mare che le aveva generate, ripiegate dentro le profondità degli abissi come stracci usati.
Doveva muoversi presto sarebbero arrivati i nuovi detenuti.
Era una delle regole di quel luogo, ogni tempesta precedeva l’arrivo di nuovi ospiti al Faro prigione per il quale era stato prescelto come guardiano e unico signore incontrastato.

Ricordava il colloquio di selezione. Sempre quel mattino ripiegò il foglietto del tranquillante riponendolo poi accuratamente nella scatola azzurrina: lo stesso colore delle pillole.
Accese il pc portatile e inviò il proprio curriculum all’indirizzo di posta elettronica indicato nell’annuncio
La risposta arrivò in pochi minuti.
Ci pregiamo di comunicarLe che il suo profilo è risultato idoneo per l’incarico oggetto della selezione. Se ancora interessato La attendiamo alle ore 17.00 presso i nostri uffici dove un nostro incaricato le illustrerà i dettagli delle nuove mansioni qualora vorrà accettare… bla bla bla.
Seguivano l’indirizzo dell’ufficio, le indicazioni per raggiungerlo e la firma scansionata del responsabile delle risorse umane.
Certo che era interessato! Come poteva aver cambiato idea in meno di mezz’ora.
– Che gente! – si disse.
Non immaginava ancora che sarebbe stata la cosa meno strana alla quale avrebbe assistito dal quel momento in poi.

Un primo suono di sirena lo avvisò che la barca con i detenuti era in avvicinamento, poteva vedere infatti attraverso la nebbiolina di gocce sospese residuo della tempesta, la luce di prua sempre meno fioca.
Era giunto il momento di prepararsi ad accogliere i nuovi venuti. Attraversò la porta che dava sulla balaustra ed entrò nel corpo del faro.
La costruzione, così come all’esterno, anche all’interno lasciava a vista i grossi mattoni di pietra che la componevano. Il colore dei muri era di un grigio chiaro, leggermente più rassicurante del nero cupo delle pareti esterne.
Tra i vari misteri che aveva accettato uno era quello che riguardava le dimensioni del faro. Se dall’esterno poteva sembrare alto poco meno di 80/90 metri con un diametro di una decina affacciandosi all’interno sembrava essere alto almeno un km, tanto che non era possibile vedere la fine della scala a chiocciola che si snodava per innumerevoli livelli. Si poteva tranquillamente pensare che proseguisse scendendo nelle viscere della terra, ma non era così; inoltre lungo tutto il percorso della scala a chiocciola, riuscivano a trovare spazio anche le celle: era come se lo spazio all’interno della costruzione subisse una dilatazione dimensionale.
Spesso si era trovato ad associare quel luogo all’inferno dantesco, l’unica differenza era che non c’erano gradi di punizione in quel carcere.
Di più: non c’erano punizioni, lo sapeva.
Anche se non avevano spiegato tutto, quel pomeriggio nel corso del colloquio di selezione.

Quel pomeriggio si era presentato puntuale nell’ufficio della società di selezione, quando suonò il campanello il tipico rumore di un apriporta automatico fece scattare la serratura, lasciando che la porta si aprisse.
– Venga, si accomodi! Da questa parte! – la voce che lo invitava a entrare veniva da dietro un’altra porta semiaperta.
Il locale d’ingresso come spesso capitava negli uffici, era adibito a reception, anche se nessuna segretaria occupava al momento il posto dietro il bancone, alcune riviste scientifiche appoggiate su di un tavolino posto tra due poltrone erano l’unica nota di colore in quell’ambiente, che per scarsa illuminazione, colore delle pareti e dell’arredamento ammanniva gli occhi con il suo bianco sporco.
– Prego! Di qua! Non si preoccupi venga pure! – lo incalzò la voce.
Attraversò la reception e percorse i pochi metri per giungere alla stanza da dove proveniva l’invito.
Scostò la porta tanto da aprirla completamente.
L’ufficio, che manteneva lo stesso bianco sporco alle pareti, non aveva finestre e gli unici oggetti di arredamento consistevano in una scaffalatura di filo d’acciaio cromato sulla quale erano orinati dei libri, un quadro con il logo della compagnia e una scrivania di cristallo.
– Buona sera! La prego di scusarmi se nessuno l’ha accolta ma la nostra segretaria ha avuto un impegno urgente e io… io, non posso, capisce?
Non posso lasciare questa stanza devo… devo… ma non voglio tediarla con l’elenco dei miei obblighi, la prego!
La prego si accomodi. – lo invitò con tono affabile indicando una poltroncina munita di ruote posta di fronte il tavolo di cristallo.
L’uomo dietro la scrivania non doveva avere più di 50 anni, aveva un viso regolare, pelle rasata capelli folti pettinati accuratamente, di un bianco candido quasi abbacinante. Vestiva una camicia bianca con giacca, pantaloni e cravatta completamente azzurrini.
Rammentò come non potè fare a meno di notare come fossero della stessa tonalità della scatola del tranquillante. Gli occhi, anch’essi azzurri, trasmettevano fiducia lo guardavani da dietro un paio di occhiali dalle lenti rotonde con la montura in argento.
– Eccoci qua dunque! – disse l’uomo sfoderando un sorriso smagliante – la ringrazio per essere venuto.
La prima parte del colloquio si mosse su di un binario più o meno standard, esperienze precedenti, obbiettivi: le solite cose.
Poi l’uomo passò alla seconda fase.
– Ottimo, signor… signor… Ah ecco qua il suo nome sul curriculum! Sì… sì… dicevo, ottime referenze, ottima professionalità; come del resto si evinceva da questo! – agitando il foglio sul quale aveva stampato il curriculum.
– Ora però – sogghignò – tocca a me!
Come avrà letto stiamo cercando una – si fece serio in viso, abbassò la voce e si avvicinò in modo che potesse essere udito – una persona di fiducia!
Riprese posizione e volume della voce normali e proseguì – Vede la nostra società – sottolineò quest’ultima parola con un tono pomposo – è entrata in un progetto sperimentale del ministero di grazia e giustizia per la conversione di alcuni fari in istituti di pena. Capisce che la delicatezza e l’originalità dell’operazione ne impediscono l’ufficializzazione, la divulgazione senza che prima sia stato eseguito un adeguato test!
Ed è qui che entra in gioco lei signor… signor… ah ecco qua il suo nome sul curriculum! Sì… sì… un test! Una sede pilota, quella che lei dovrebbe prendere in gestione. Sempre che sia ancora interessato ovviamente! Ah devo avvertirla che se non dovesse essere invece più interessato, data la segretezza del progetto sarei purtroppo autorizzato a – fece una pausa –sopprimerla – l’ultima parola uscì dalle labbra dell’uomo contemporaneamente a una Luger in acciaio brunito da un cassetto della scrivania.
Guardò l’arma quasi avidamente, come una fonte di possibile libertà da quella vita che viveva oramai come una prigione. Qualunque cosa sarebbe stato meglio. – Metta via quell’arnese, non serve. –rispose invece – Accetto il posto.
– Ma è semplicemente magnifico! Ah Ah! Dobbiamo festeggiare! – come dal nulla fece comparire una bottiglia di champagne e due flûte poi assunse un aria complice – Devo confessarle una cosa – si avvicinò e come prima abbassò la voce – la Luger, sì, la pistola… è scarica! – scoppiò in una fragorosa risata stravaccandosi sulla poltrona.
– Sa, serve solo a verificare le reali motivazioni dei candidati – proseguì con le lacrime agli occhi.
Versò il vino nei bicchieri
– Allora, cin! Signor… signor… ah ecco qua il suo nome sul curriculum! Sì… sì.. benvenuto a bordo! Alla salute!
– E – bevve un sorso – il mio compenso? Quando comincio? – ingollò il resto del bicchiere.
– Ah, certo! Il suo compenso sarà ottimo: svariate migliaia di…– rispose l’uomo in azzurro – ma credo che la ritirerà tutta alla fine del test. Ecco vede, ho scordato di dirle che data la segretezza del progetto è previsto che una volta al faro lei non lo abbandonerà più fino alla fine del periodo di prova .
– Ma, quanto dura il periodo di prova?– si sentiva stordito: era parecchio che non beveva, ma da sempre reggeva l’alcool egregiamente.
– Ah! Non lo sappiamo! Un mese! Un anno! A discrezione! E, ovviamente si comincia subito!
O almeno da quando il sedativo che ho messo nel suo bicchiere cesserà l’effetto.
Mi deve scusare, ma la segretezza del luogo impone che lei non assista al trasferimento: si sveglierà là, pronto per cominciare e là troverà tutte le istruzioni, non è fantastico? – poi aggiunse con un tono che pareva volutamente intristito – D’altra parte lei non ha più nessuno da avvisare vero? Signor… signor…
Poi fu il buio.
Il secondo suono della sirena lo riportò ancora una volta al proprio dovere.
La barca stava per attraccare e per nessun motivo poteva non trovarsi al molo quando sarebbe approdata.
Un montacarichi installato lungo l’asse centrale del faro gli consentiva di spostarsi abbastanza rapidamente da un piano all’altro senza costringerlo a percorrere l’interminabile scala a chiocciola.
Il montacarichi era in un ampia gabbia in legno sorretta da uno spesso cavo in acciaio mosso da un argano a motore.
Premette un grosso bottone verde e iniziò la discesa. Lungo il tragitto che lo portava al piano terra si presentò ai suoi occhi, come ogni volta, lo spettacolo della sequenza delle celle; queste erano disposte una di seguito all’altra lungo la scala a chiocciola sviluppandosi in profondità all’interno delle mura del faro.
Chiamarle celle era decisamente riduttivo.
Ognuna di esse era in realtà un piccolo micro mondo all’interno dei quali i detenuti sembravano svolgere una propria vita autonoma: alcune erano semplici stanze completamente arredate, altre vere e proprie schegge di mondo strappate alla realtà e incastonate nelle mura della costruzione.
Ancora una volta vide passare davanti agli occhi la cella del “pianista”: l’uomo al suo interno passava intere giornate suonando al pianoforte posto al centro del palco di un teatro lirico in stile barocco, completo di sipario, platea e loggioni.
Le sue interpretazioni coprivano un repertorio vastissimo, suonate con intensa passione, velate di una malinconia latente che trasmetteva la sensazione di una profonda solitudine interiore. Non ricordava di averlo mai visto dormire, o anche solo riposare. La musica si interrompeva occasionalmente quando si alzava per inchinarsi agli applausi silenziosi di un pubblico che probabilmente solo lui vedeva, ringraziava allargando le braccia sorridendo, a volte commosso altre raggiante, beveva un sorso d’acqua si tergeva il sudore e ricominciava l’interminabile sinfonia.
L’inno alla gioia più malinconico che avesse mai udito sfumò mentre il montacarichi oltrepassava la cella di quella che aveva soprannominato “sunshine happy family” prendendo il nome da una serie di pupazzi snodabili in commercio quando era ancora ragazzo.
La cella in quel caso si riduceva a una sala molto grande arredata in stile moderno, sulla quale dava la cucina così come aveva visto in tv in numerose sitcom americane: gli occupanti, madre padre, figlio e sorellina, così come i giocattoli che ricordava, erano sempre sorridenti, qualunque cosa facessero o dicessero. Quando erano insieme conducevano una vita domestica assolutamente normale: cenavano, guardavano la tv, parlavano scherzavano. Mai uno screzio mai un litigio. La notte il padre e la madre avevano persino una loro vita coniugale. Poi il mattino, sempre sorridente e allegro, il padre salutava tutti per andare al lavoro. Nel preciso istante in cui chiudeva la porta la vita nella cella si fermava, le luci si abbassavano e il resto della famiglia rimaneva bloccato nella posizione nella quale si trovava fino a quando il padre non faceva ritorno a casa e la vita ricominciava.
Qualche spira più in basso nella sequenza avrebbe dovuto incontrare la cella del “fuoriclasse”: uno stadio da calcio completo di spalti ovviamente perennemente deserti, in campo l’occupante che si batteva da solo contro una squadra completa di 11 giocatori senza volto. Il fuoriclasse giocava una partita interminabile, senza intervalli né sostituzioni, sistematicamente dribblava tutti gli avversari arrivando inevitabilmente da solo davanti alla rete ma qui, altrettanto inevitabilmente, mancava il bersaglio sempre per un nonnulla mentre il portiere rimaneva immobile al centro della porta come una pedina del Subbuteo.
Quel giorno dove avrebbe dovuto trovarsi la cella del fuoriclasse c’era solo una voragine nera.
A volte succedeva, lui se lo era spiegato con l’estinzione della pena; tante, troppe erano le cose che doveva spiegarsi in quel luogo e spesso finiva semplicemente con l’accettarle.
In fondo aveva ciò che voleva: qualcosa che gli impedisse di implodere, che gli riempisse il vuoto di interminabili giornate. Poco gli importava di quel contorno che era eufemistico definire surreale, semplicemente vi interagiva.
Il sobbalzo del montacarichi lo avvisò che era giunto al piano terra, uscendo quasi automaticamente alzò gli occhi verso l’alto e vide il riverbero della lanterna come la luce fioca di una stella a migliaia di chilometri, per quanto surreale quel luogo rispettava quantomeno una propria logica.
Attraversò il breve corridoio che dal cavedio centrale portava all’ingresso. Lo stanzone che fungeva da atrio riproduceva il ponte di comando di un antico veliero, al centro trovava posto un timone, assolutamente da non toccare, così come recitava la sorta di manuale di istruzioni che aveva trovato risvegliandosi all’interno del faro, peccato che una targa in ottone semi ossidato fissata sulla colonna in legno che faceva da supporto al timone recitasse “Ruotare!”. Quante volte era stato sul punto di cedere, afferrare le razze del timone e girarlo velocemente atteggiandosi a lupo di mare infischiandosene delle istruzioni, ma si era sempre controllato: là dentro rappresentava l’ordine, non poteva.
No, non poteva proprio.
Alle pareti dell’atrio erano appese delle piccole bacheche con vari esempi di nodi alla marinara che si alternavano a enormi mappe nautiche riferite a coste a lui sconosciute; non che la geografia fosse mai stata il suo forte, ma non riusciva a ricordare nessun continente al quale potessero appartenere quelle insenature, scogli e spiagge.
Avanzò oltrepassando la colonna del timone dirigendosi verso la porta, con un moto incondizionato si guardò alle spalle e vide dalla parte opposta dello stanzone la massiccia libreria contenente centinaia e centinaia di volumi, tutti senza titolo, tuttavia ogni volta che ne aveva aperto uno si era trovato tra le mani esattamente il libro che stava cercando.
A lato della libreria, la cassaforte contenente le istruzioni per l’uso del faro con copia del regolamento per il guardiano, e il giornale che era tenuto a compilare quotidianamente.
La combinazione di quella cassaforte cambiava ogni giorno. Ma lui, ogni giorno, la conosceva senza che nessuno gliela comunicasse.
Sul lato della colonna rivolto al portone d’ingresso era affisso il regolamento per i detenuti. Quel testo incorniciato rappresentava un altro enigma, la cui soluzione peraltro non lo angustiava più di tanto, il regolamento era scritto in una lingua per lui incomprensibile ma che i detenuti leggevano senza apparenti difficoltà.
La porta di accesso al pontile, di fatto l’unica via di comunicazione con l’esterno, sembrava prelevata di forza dal set di un film di fantascienza: di un bianco lattiginoso all’altezza degli occhi aveva una fessura che se a una prima occhiata poteva ricordare una feritoia, era in realtà un sofisticato scanner per la rètina.
Avvicinò il viso alla feritoia e sopportò per qualche istante il bagliore azzurro che gli scandagliava l’occhio. Una volta riconosciutolo la porta si aprì scomparendo con uno scatto all’ interno delle mura del faro.
La barca con i nuovi prigionieri stava attraccando silenziosamente proprio in quell’istante.
Anche se ci si sarebbe aspettati tranquillamente di trovarvi Caronte al timone, nessun nocchiero la guidava e né remi né motori la muovevano: avanzava e basta. I nuovi arrivati non erano moltissimi, forse meno di una decina. Come obbedendo a un ordine muto, non appena la barca si arrestò completamente, cominciarono scendere dal legno dirigendosi verso l’interno del faro. Tutti erano ormai a terra e, come prevedeva il rituale, l’imbarcazione avrebbe dovuto riprendere subito il mare, ma nulla si mosse.
Offuscata dalla foschia una sagoma sembrava spuntare di un nulla dal bordo della barca. Si avvicinò per vedere meglio.
Su una delle assi che fungevano da panche per i passeggeri sedeva una bambina.
– Siamo arrivati? – la piccola aveva gli occhi grandi di un castano profondo che contrastava piacevolmente con quello chiaro dei capelli lisci che le incorniciavano il viso, ricadendo poi appena sulle spalle. Il naso leggermente schiacciato dava un aria simpatica a quel visino decisamente bello.
– Siamo arrivati? – chiese nuovamente la bimba guardandolo da sotto la frangetta.
Doveva sicuramente esserci un errore, ma di una cosa era certo, la barca non si sarebbe mossa da lì fino a quando l’ultimo occupante non avesse messo piede sul pontile. Tese la mano per aiutarla a scendere e rispose – Sì, suppongo di sì – la bambina si alzò e senza afferrare la mano protesa verso di lei scavalcò agilmente il bordo dell’imbarcazione. Alcuni istanti dopo il piccolo vascello mollò gli ormeggi inghiottito dalla nebbia che circondava il faro.
La porta si chiuse con uno scatto alle loro spalle emergendo nuovamente dall’interno del muro.
Trovarono i detenuti disposti in semicerchio attorno alla cornice con il regolamento.
– Che fanno? – chiese la piccola
– Su quel foglio sono scritte le regole su come comportarsi qua dentro – la osservò, dimostrava un’età indefinita tra i dieci e i dodici anni – anche tu dovresti leggerle sai? – incalzò.
– Ma non posso! – rispose lei
– Come no! Ormai dovresti saper leggere e scrivere da un pezzo!
– Ma non lo vedi che sono scarabocchi incomprensibili! – lo schernì la bimba.
– Sì, certo… – restò perplesso, era la prima volta che accadeva: tutti, a parte lui erano stati in grado di leggere quel foglio.
– E poi, come puoi dirlo – aggiunse lei – magari neppure loro ci capiscono nulla. Hai mai parlato con uno di loro?
In effetti no, lo sapeva perché stava scritto sul libro con le istruzioni per il guardiano, ma rispose – Certo! Certo che ci ho parlato! È come ti dico credimi!
– Mah! Sarà… non mi sembri molto convinto.
Nel frattempo i nuovi arrivati avevano già terminato la lettura e si erano incamminati lungo la scala a chiocciola. Come di consueto sapevano già con precisione quale cella ognuno di loro avrebbe dovuto occupare, e in pochi minuti ogni ospite si sarebbe trovato al proprio posto. La bambina non si mosse da accanto a lui.
– Tu non hai un posto dove andare? – le chiese.
– Non sei tu che comandi qui? – lo schernì lei – E comunque sì il mio posto è qui con te. Sarò la tua assistente – aggiunse facendo una faccetta buffa.
– Certo – alzò gli occhi al cielo – la mia assistente. Ok. – sospirò – Ma dimmi, qual è il tuo nome?
– Mi chiamo Vale, piacere! – altro sorriso buffo.
– Vale e poi?
– Nulla, Vale e basta! E tu come ti chiami?
Silenzio.
Respiro profondo.
Silenzio.
– Non hai un nome? Come ti chiamano qua? Il capo? Il guardiano? Il superdirettoremegagalattico?
Lui alzò nuovamente gli occhi e nuovamente respirò profondamente.
– Ok. Ti chiamerò Respiro! – sorrise raggiante, poi soggiunse guardandolo dal basso – Respy può andar bene lo stesso? Sai per accorciare!
Lui la guardò di traverso.
– Va bene, va bene. Niente soprannomi! Che robe! Non si può vivere così! – protestò allargando le braccia.
Dopo l’arrivo di Vale le giornate sembrarono meno pesanti, lei lo tempestava di domande, ma questo lo faceva in qualche modo sentire meglio, come se prestare attenzione alla piccola rendesse il suo compito di guardiano più leggero, come se tutte le assurdità che da sempre popolavano il Faro, d’improvviso assumessero un’importanza secondaria.
La sera era dedicata alla compilazione quotidiana del giornale, nulla di laborioso visto quello che succedeva, o forse era più corretto dire “non succedeva”, in quel posto. Basti dire che l’ultima nota degna di attenzione riguardava proprio l’arrivo di Vale una settimana prima, unica ospite del faro oltre a lui a non vivere da prigioniera in una cella.
Quella sera la bambina come di consueto era in ginocchio sullo sgabello accanto al suo e attendeva che lui finisse di scrivere le ultime righe per poi andare a dormire.
– Respiro, – disse toccandolo appena sulla spalle – ma secondo te come mai il pianista suona davanti a nessuno?
– Non so, Vale, il mio compito non è farmi queste domande, io devo sorvegliare questo luogo e provvedere ai bisogni dei detenuti, la “punizione” l’ha stabilita qualche giudice. Non spetta a me considerare le motivazioni.
– Capisco. – disse la piccola – Peccato speravo potessi dirmi perché io sto qui – guardò il soffitto un istante poi aggiunse – certo strano giudice non trovi?
Lui la guardò perplesso.
– Beh! In fondo qua tutti fanno qualcosa senza mai portarla a termine. Che razza di pena è quella che non sai mai come andrà a finire.
– Che intendi? – la incalzò lui.
– Sì, non lo vedi? Il pianista, il padre di famiglia, il calciatore del quale mi hai raccontato… e anche tu!
– Io?
– Certo! Tutti voi avete il mezzo per porre fine alla vostra pena ma non lo fate.
– Bene, sto al gioco! – disse Respiro – Il pianista potrebbe finalmente cercarsi un pubblico vero, ma il padre di famiglia che dovrebbe fare? Ma soprattutto io che dovrei fare?
Gli occhi di Vale si illuminarono di una insospettabile saggezza – Sbagliato: la realtà è che il pianista dovrebbe smettere di rinunciare a suonare musica veramente, il padre dovrebbe smettere di rinunciare alla propria famiglia, anche il mio papà ha rinunciato a me per inseguire il denaro, il successo, il proprio lavoro; diceva di farlo per me per il mio futuro, non capiva che così mi privava del presente e io poco a poco ho cominciato a rinunciare a lui.
E tu, Respiro, a cosa stai rinunciando?
E allora lui capì.
Capì che quella non era una prigione vera.
Il Faro era solo il luogo dove gli uomini diventavano prigionieri delle proprie rinunce e solo chi aveva rinunciato al bene più prezioso poteva fregiarsi del titolo di guardiano.
Fu allora che si rese conto che da tempo, ancora prima di morire, aveva rinunciato a vivere la propria vita.
– A cosa stai rinunciando, Respiro? – chiese nuovamente la bambina.
Improvvisamente non riusciva più a parlare, aveva la fronte imperlata di sudore e si reggeva con le braccia puntellate sul tavolo, gli occhi sbarrati. Con la bocca aperta ansimava nel tentativo di proferire un qualche suono. Tutto stava finendo.
Sentì le gambe cedere e mentre tutto girava franò a terra. La voce della piccola sembrava arrivare ora da chilometri di distanza
– No! No! Ti prego, Respiro, Alzati! Scusami!– sentiva battere i pugni della bambina sul suo petto.
– Scusami tu Vale… – rantolò aggrappandosi a uno degli ultimi battiti del proprio cuore – …scusami.
– No! Respiro! Alzati, non lasciarmi, ti prego, Respiro! Respiro…
– …respiro! uno due respiro! Forza ragazzi l’abbiamo ripreso! Un’altra serie, pronti con il defibrillatore, uno, due … respiro! – i guizzi del raggio elettrico sul monitor erano diventati regolari – Il battito cardiaco adesso è a posto, teniamolo in osservazione tutta la notte – poi rivolta al paziente la giovane dottoressa disse – Ci ha fatto prendere un bello spavento Sig. Breath.
– Spavento? C… che è successo, che cosa sono questi fili? Dove sono?
– In una corsia di ospedale. Ha, diciamo così, esagerato con i tranquillanti: quei confetti azzurrini non sono esattamente delle caramelle, e ringrazi la segretaria della ditta con la quale aveva appuntamento per quel colloquio di lavoro. Quando non l’ha vista arrivare si è preoccupata, e ancora di più quando non ha risposto al cellulare, ma ora si riposi.
– Sì – sorrise leggendo il cartellino appeso al camice della donna – mi riposerò, dott.ssa Lighthouse, devo rimettermi in sesto se voglio tornare a vivere.
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