"Il negozio del fotografo" di Alberto Minnella


 

È notte fonda, fuori fa freddo e sai che prima o poi devi rientrare in casa.
Sei ancora dentro al pub, ordini la birra della staffa e cerchi di masticare meno parole possibili pur di finire il solito “grande discorso” di fine serata con l’ultimo amico rimasto (in piedi). Dieci minuti ed è tutto finito. L’unica cosa che puoi fare è alzare il bavero del cappotto, affrontare l’uscita del locale e dirigerti verso la macchina.
Hai parcheggiato a due incroci più in là e non hai fretta. Ti incammini con calma. In testa ribolle l’alcol, i piedi sembrano di cemento. Hai affondato una mano in tasca. Stretta fra le labbra l’ultima sigaretta accesa. Hai freddo e il solito vento siracusano, umido e traditore, ti fa resistenza. Primo semaforo e credi di non essere poi così ubriaco. Al Secondo, superato l’ultimo incrocio, pensi solo al freddo e rimugini su quella gran topolona sconosciuta che ti fumava di fianco, meno di un’ora fa, sull’uscio del locale.
Mancano pochi metri, ma il tuo sguardo assonnato, molto assonnato, gli occhi li hai a fessura, si corica letteralmente sulla vetrina di uno studio fotografico. Ti fermi.
Sembrano tutte uguali, ti dici. Banalmente identiche. Ma quella no. Quella è diversa. Sbirci dentro, oltre il tuo riflesso sul vetro. Noti subito la foto di due bimbi sullo scaffale della parete centrale. Poi, vedi quattro pareti intere tappezzate di ritratti giganti di spose. Ebeti sorrisi di spose, ovunque. Cerchi lo sposo. Dov’è quello stronzo, ti domandi. È là, confinato in una zona invisibile ad occhio nudo, che per trovarlo devi indossare degli occhiali speciali, costruiti dai servizi segreti russi. Per trovarlo devi leggerti le istruzioni del famoso gioco pubblicato della settimana enigmistica “Trova l’intruso”, farnetichi.
Guardi le spose e sembrano quasi tutte dei capolavori di ritrattistica. Alcune pompose, altre soddisfatte, altre, ancora, con le gote rassegante all’incipiente vecchiaia. Terzo o quarto matrimonio di sicuro, ti dici. Proprio lì, ce ne sta pure una che sorride da un solo lato della bocca. Ma come fa?
La macchina è vicinissima e da quella vetrina non ti sposti. Birra finita, sigaretta finita e fuori fa freddo: un freddo porco. Ci pensi: chissà chi fra queste donne è ancora sposata, chi ha un figlio e chi fa collezione d’amanti. Immagini che beffa sarebbe se la maggior parte di loro fosse già separata o divorziata? Eppure sono là, appese a un muro che sorridono e ostentano l’enigmatica ragione secondo la quale una donna sposata è felice. Felice. E le altre? Sì, va bene, lasciamo stare – rifletti ancora – ma lo sposo dov’è? Lo sai, lo sai bene che sei sempre stato scarso nel trovare l’intruso, ma sai per certo che se l’avessi trovato, lo sposo dico, avrebbe il tuo stesso sguardo, quello di uno che ha speso un sacco di soldi, che s’è impastato la bocca d’amore, che ad averne di secondi baci… che al terzo ti hanno cacciato e sei sparito e come lo sposo non ci sei, non sei neanche in una squallida vetrina di un fotografo di paese.
E rimastichi e rimugini e non hai pace. Guardi l’ora, è tardi. Sempre tardi. Rassegnato, quella sera la vita l’hai presa così: vivi grandi amori, gli altri ti fotografano felice e poi appendono in vetrina solo il sorriso di lei. Tu, in realtà, sei sempre stato l’intruso. Altra birra, altra corsa. Fra poco raggiungi l’ultimo pub della città, è tardi, ma non troppo tardi. Ma bisogna parlar piano, perché l’intruso beve sempre da solo e in silenzio.


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