"Il ritorno" di Alessio Piras


A quel paese mai scordato e alla sua gente

XXI secolo – quattordicesimo anno di guerra.
I fermenti d’inizio secolo portarono ben presto alla deriva autoritaria di molti Paesi europei che decisero arbitrariamente di staccarsi dall’Unione. Le responsabilità furono attribuite alla necessità di difendersi dalla minaccia terrorista e dai flussi migratori provenienti dalla sponda meridionale del Mediterraneo. Ma l’Isis era ormai un pallido ricordo ed era chiaro a tutti che l’egoismo e la sete di potere e denaro di pochi erano alla base degli ultimi sconvolgimenti politici. I primi ad uscire dal sogno europeo furono i britannici che, dopo aver dissolto il Regno alla morte di Elisabetta II, si resero indipendenti con i vecchi territori di Inghilterra e Galles, mentre la Scozia e l’Irlanda del Nord si unirono alla Repubblica d’Irlanda e rimasero nell’Unione. Seguirono la strada della Gran Bretagna Italia e Germania. In breve, quando gli anni ’20 del XXI secolo volgevano al termine, si ricrearono quelle stesse condizioni che quasi un secolo prima portarono alla II Guerra Mondiale. Le similitudini erano sconcertanti. Le previsioni più nere degli storici di tutto il mondo si stavano avverando. La Storia si stava ripetendo.
Nel 2030 il Regno d’Inghilterra e Galles invase e occupò la vicina Repubblica d’Irlanda e Scozia: di fatto fu un attacco diretto all’Unione Europea che, disunita e senza esercito, non riuscì ad organizzare una difesa efficace. Nel 2031 la Germania e l’Italia, alleate del Regno d’Inghilterra e Galles, invasero rispettivamente l’Europa centrale e quella meridionale. Ricostituirono i vecchi partiti Nazista e Fascista. A est, fu la Russia a ristabilire l’ordine sovietico riunendo tutte le ex repubbliche socialiste in un fronte comune che appoggiava i piani egemonici di Italia, Germani e Inghilterra. Era per loro l’alba di un nuovo ordine. Ciò che rimase dell’Unione Europea si dissolse e nel 2032 iniziarono a costituirsi i primi gruppi rivoluzionari con l’obiettivo di porre fine alle occupazioni nazi-fasciste di Germania, Italia e Inghilterra, e ricostituire l’Unione sulle basi del Manifesto di Ventotene: un documento che era stato cancellato dai libri di Storia e che due ricercatori avevano casualmente riscoperto in una vecchia libreria antiquaria di Milano. I gruppi resistenti erano appoggiati militarmente dagli Stati Uniti d’America, i quali vedevano nella guerra europea una nuova opportunità per ristabilire la loro egemonia culturale al di là dell’Atlantico.
Nel 2035, dopo tre anni di guerra, la follia nazifascista sembrava un’altra volta annichilita dalla resistenza civile di una parte della popolazione che, con l’aiuto dell’esercito degli Stati Uniti, riuscì a riconquistare i territori occupati. Ancora una volta la Liguria era stata pesantemente colpita dai fatti di guerra a causa della sua strategica posizione.

Savona, 10 ottobre 2035.

-Che ore sono?
-Le quattro del mattino.
Il freno del treno strideva sulle rotaie umide. La notte languiva nelle prime ore del giorno, lasciando il suo strascico di nubi basse e maccaia. L’aria puzzava di polvere da sparo e una lieve brezza di tramontana levigava la brina sull’erba tra i binari. Alex e Mario portavano sulle spalle le fatiche di quasi tre anni di guerra. Ne venivano direttamente dal fronte, evitando posti di blocco e imboscate: tra incidenti di percorso e soste forzate, impiegarono sette giorni per coprire gli ultimi cinquanta chilometri.
Erano a Savona, parco merci Andrea Doria. Da Genova, per evitare il nemico, erano passati dall’interno, a piedi, fino a Urbe, un minuscolo paesino tra i boschi dell’entroterra ligure. Da lì un contadino li caricò su una vecchia Ape e li portò fino a Sassello. Dormirono una notte tra i castagni sull’erba fradicia e insanguinata, nutriti a formaggetta di capra e patate bollite.
Scesero fino ad Albisola a piedi, dove si fermarono due giorni per prendere fiato. Alex si sentiva a casa, l’onda lunga del mar Ligure si infrangeva sullo scoglio del Buco del Prete, dal quale, da ragazzo, si tuffava con i suoi amici e baciava la sua ragazza. Prima che il mondo si mettesse sottosopra per la terza volta in 150 anni, quando ancora il profumo di gelsomino inondava le vecchie crose che risalivano i monti. Alex perdeva il suo sguardo all’orizzonte e rimpiangeva l’epoca spensierata in cui sembrava possibile raggiungere la Corsica con un pattino da bagnino: bastava portarsi dei panini e qualcosa da bere, come andava ripetendo all’epoca il suo amico Luca durante le lunghe notti passate a pescare sulla spiaggia pietrosa del paese.
I tedeschi erano a Celle, pochi e in ritirata, ma intanto c’erano e non avrebbero fatto prigionieri. Stanchi del loro decadere verso l’inferno li avrebbero trascinati con loro. Alex e Mario avevano una unica e obbligatoria meta: Savona. Dalla città della Torretta avrebbero risalito la ferrovia fino a Santuario. Non la provinciale, visto che brulicava ancora di nazisti e fascisti pronti a vendicarsi. Dal paese Mario avrebbe proseguito sempre lungo la ferrovia verso Torino, attraversando la Val Bormida.
-Non ci posso credere.-, sospirò Alex mentre raccoglieva una foglia marcia dal suolo.
-A cosa?
-Casa, questa è aria di casa.-, inspirò profondamente l’aria fradicia cercando di carpirne il sapore e dischiudere il ricordo dell’infanzia trascorsa tra i boschi.
-Non siamo ancora arrivati e non cantare vittoria. Non mi hai detto che per arrivare a casa tua bisogna passare un ponte?
-Sì. So cosa pensi; ma guarda questa.
Alex tirò fuori dalla tasca una lettera. Era di Lara, scritta circa due mesi prima.
-Ecco, leggi.
-“Il ponte è ancora in piedi grazie alla resistenza organizzata da Lorenzo. Non sai che lavoro ha fatto e ci ha salvato la vita, a tutti noi del paese e del palazzo che dal ponte dista pochi metri.” Perciò ha retto, chi è Lorenzo?
-Un vecchio amico, dammi la lettera.
Alex rimise in tasca il foglio di carta, scritto a mano, come se il mondo fosse tornato all’altra guerra con nazisti e fascisti, quella di quasi cent’anni prima, come se tutto fosse un sogno, una storia già vista, ma in controluce: impossibile mettere a fuoco i dettagli.
Presero la via della ferrovia verso Santuario, sulla linea che da Savona porta a Torino. Era la via partigiana, l’unica abbastanza sicura da essere percorsa anche di giorno. Dovevano risalire sei chilometri nell’entroterra, di buon passo in un paio d’ore sarebbe stato a casa.
Casa. Iniziò a pensare con nostalgia a quel paese di dieci case e venti anime sulle colline savonesi. Una strada, una chiesa, due piazze e una scuola. Il fiume che lo attraversava ritorto e la Locanda che per secoli aveva accolto pellegrini da tutto il mondo e che, improvvisamente, l’inettitudine dell’uomo abbandonò, fino a quando i tedeschi ne fecero un deposito di munizioni, violentandone la natura intrinseca di luogo familiare e sicuro. Gli era andato stretto tutta la vita, il paese, e ora lo agognava, gli mancava come l’aria. Appena sbucati nel tratto di ferrovia che attraversa il quartiere di Lavagnola vide con piacere che i boschi erano intatti, le case si diradavano, la natura prendeva il posto dell’artificio. Gli odori e i colori dell’autunno lo riportarono alla sua infanzia, trascorsa a rubare albicocche all’albero del vicino e a giocare alla guerra tra i canneti. Giocare alla guerra, fino a quando la guerra non la fece davvero, sparando a perfetti sconosciuti che non avrebbero mai più accarezzato i propri figli, baciato le proprie mogli e curato i propri vecchi. Uomini che avevano lasciato l’orto a metà, a cui avevano dato un fucile, una divisa e insegnato a sparare ad altri uomini, che facevano altri orti e avevano la divisa di un colore diverso dal loro. Ma il fucile della stessa marca.
-Bei boschi.
-Sono contento ti piacciano, sono pieni di funghi. Se questo schifo finisce possiamo andarli a raccogliere un sabato mattina.
-Perché no, e cinghiali?
-Quanti ne vuoi. Rovinavano l’orto di papà ogni primavera, e daini. Fin sotto la finestra di casa.
-Mmmm…
-Che c’è?
-C’è che questa ricchezza ha nutrito i partigiani, certo, ma anche gli altri.
-Sì, anche troppo. Ma qui la via è sicura. Vedi là sotto?
Alex indicò la provinciale a valle, la ferrovia correva a mezza collina.
-Sulla strada?
-Sì, e intorno al fiume. Lì ci sono ancora un po’ di tedeschi e fascisti.
-Come fai a saperlo?
-Ti ricordi Daniele? Il tipetto piccolino che abbiamo incontrato a Genova.
-Sì sì, il tuo paesano.
-Ecco lui ha mantenuto i rapporti con Lorenzo, non so come lo senta. Fatto sta che le ultime notizie sono che la valle è completamente liberata, tranne la provinciale e il fiume fino a al ponte di Livè.
-Dov’è questo posto?
-Due chilometri prima di Santuario. Ma la strada non ha posti di blocco o un presidio organizzato. Sono cecchini scampati che i partigiani stanno cercando di catturare. Non vogliono fucilarli, ma processarli.
-Capisco, quindi a questo ponte di Livè scendiamo sulla strada.
-No. Restiamo sulla ferrovia, casa è a pochi metri dal ponte e da una galleria. Da lì prendiamo il sentiero che portava al casello, passiamo un canneto e un frutteto e ci siamo.
La stazione di Santuario era diventata un posto di blocco, la “frontiera” per entrare al paese.
-Chi siete?
-Mi chiamo Alex, sono del paese. Lui è Mario, è con me. Conosco Lorenzo.
L’uomo, che Alex non aveva mai visto, si voltò verso un altro, sconosciuto anche lui. Si parlarono in dialetto, per non farsi capire. Alex aveva imparato a mascherare il suo accento per precauzione.
Il secondo uomo entrò nella stazione e dopo pochi istanti uscì, di corsa, un ragazzo non tanto alto, moro, barba lunga e occhialini.
-Lorenzo!
-Santa miseria Alex. Mi ha chiamato Daniele pochi giorni fa, mi ha avvisato che saresti arrivato. Scusa per il controllo, anche se ormai il peggio sembra passato è bene essere prudenti.
-Non ti preoccupare, però col dialetto…nu ghe semmu.
Alex ghignò verso l’uomo che l’aveva fermato. Entrarono nel piccolo edificio rosa della stazione, mangiarono pane, formaggio e vino rosso della valle. Nel frattempo Lorenzo li aggiornò con le ultime informazioni.
-Fascisti e nazisti ne sono rimasti pochi, ma quei pochi sono pericolosi. Qui intorno ce ne sono una decina. Dal ponte di Livè fino a Cimavalle è praticamente sicuro, quelli che restano sono prima e dopo tra la provinciale e il fiume. Ne abbiamo beccati almeno una trentina nell’ultimo mese. Erano organizzati, ma ora sono singoli o in coppia e dobbiamo tenerli isolati. Noi siamo rimasti in venti, quindi capite che è una battaglia alla pari. Ma fra pochi giorni arriverà il contingente, faranno la provinciale e la rastrelleranno. Si tratta di limitare i danni e, se si riesce, prenderne qualcuno.
-Fate prigionieri?
-Certo, li mettiamo nell’ospedale che abbiamo adattato a carcere. Il Noceti, invece, dopo lo sgombero è diventato l’ospedale e la foresteria. Cosa avete intenzione di fare?
-Io mi fermo, Mario prosegue a Torino. C’è modo di aiutarlo?
-Certo, tra un paio di giorni tuo padre porta su un treno con viveri e armi. Farà la ferrovia fino a Cairo. Può andare con lui fin là e poi proseguire con chi fa la tratta fino a Torino. Parlane con lui.
-Grazie.-, disse Mario bevendo il vino.
Si alzarono e si salutarono. Percorsero l’ultima galleria parlando di calcio, erano mesi che non ne discutevano ed erano tre anni che il campionato non si giocava. Alex genoano, Mario juventino. Sbucarono sul ponte che costeggiava la casa di Alex, una palazzina verde di sei piani. Si fermarono, era a casa.
-Il mio terrazzo è sull’altro lato, al terzo piano. Quella è la finestra della mia camera. Quella che stende sul balcone è… Lara.-, Alex non trattenne la lacrima. La lasciò scivolare incurante, libera di solcare le sue guance e morire sull’angolo sinistro della sua bocca. Lara si voltò, lo vide e si portò una mano sul viso, incredula, chiuse e riaprì gli occhi tre volte. Erano tre anni che non si vedevano, da quando si sposarono. E lo fecero per non separarsi, altrimenti lei sarebbe stata costretta ad andare in Sicilia con i suoi genitori, che ripararono lì in attesa della pace. Subito dopo il matrimonio lei lasciò Genova per andare a stare a Santuario e aspettarlo lì, a casa dei genitori di Alex. Raggiunsero la galleria all’altro capo del ponte, scesero il sentiero, attraversarono il canneto e il frutteto in fiore.

Due colpi, secchi, di fucile. Silenzio. Il grido di una donna e un cane che abbaia.


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