"Il soprabito e il cammeo" di Massimo Messa


 

Avevamo allora diciotto anni ed eravamo compagni di scuola. Martino non era proprio un amico, ma era piacevole stare con lui. Ci si trovava con gli altri compagni, si giocava a carte a casa dell’uno o dell’altro, la domenica si andava allo stadio a tifare per il Milan o in qualche sala da ballo in cerca di ragazze: un compito che Martino ci facilitava, grazie al suo aspetto fisico e al suo fare disinvolto. In fondo lo ammiravo: per la riservatezza, la maturità, lo stile che lo facevano così diverso da me.

Fu proprio su un soprabito chiaro, in perfetta linea con la moda del tempo, che si imperniava la storia incredibile che un giorno mi raccontò.

Eravamo soli, in casa sua. in attesa che gli amici ci raggiungessero, quando mi narrò quell’episodio sconcertante che io subii senza trovare parole di comprensione. Mi sorprendeva, sgranando gli occhi mi svelava un immenso bisogno di confidarsi, ma tacque repentinamente quando giunsero gli altri. Non potei più interrogarlo sulla vicenda perché morì tre giorni dopo: lo sterno schiantato contro un platano all’Idroscalo. La scuola al completo partecipò ai funerali ma soltanto io potevo ricordarne le parole…eccole.

In auto, da solo, stavo rientrando a Milano. II tempo era rigido, ricordo, malgrado fosse già primavera. Mentre percorrevo la provinciale vidi una ragazza intirizzita dal freddo farmi cenno di fermare, cosa che feci volentieri. Mi chiese se potevo condurla in Viale delle Rimembranze dove abitava e si sedette accanto a me. Disse di chiamarsi Giovanna Soncini, era pallida, attraente, con due celesti occhi metallici: indossava solo un abito troppo leggero e aveva al collo un magnifico cammeo.

Durante il viaggio parlammo di cose impersonali e mi sorprese scoprirla legata a mode ormai superate. Quando m’invitò a fermare la macchina mi resi conto che mi dispiaceva lasciarla: i suoi gesti morbidi, il parlare attento e distaccato mi avevano preso. Provai un forte desiderio di rivederla e così, mentre stava per salutarmi, afferrai il mio soprabito e glielo porsi. “Indossalo – le dissi – fa molto freddo”, e, al suo cenno di rifiuto, aggiunsi: “Me Io restituirai” e infilai nella tasca un mio biglietto da visita. Mi disse solo “arrivederci”, poi, avvolta nel mio soprabito, si allontanò nella penombra della sera ormai calata. Ero contento d’aver trovato un espediente per rivederla.

Trascorsi qualche giorno nella vana speranza che mi telefonasse, poi mi decisi a rintracciarla. Recuperai dall’elenco telefonico il numero di una certa Maria Soncini che abitava in Viale delle Rimembranze e telefonai. Mi rispose la voce di una donna anziana: “Giovanna Soncini? – interrogò sorpresa – Si tratta di uno scherzo, vero? Oppure lei ha sbagliato numero”. “Non credo, signora – risposi – io cerco una ragazza bionda, di diciotto anni circa, piuttosto alta e magra”. “Guardi… avevo una figlia che corrisponde alla sua descrizione… ma è morta quindici anni fa in un incidente”. “Signora, mi creda – continuai seriamente – pochi giorni fa ho accompagnato nei pressi di Greco una ragazza che mi disse di chiamarsi Giovanna Soncini: bionda con gli occhi celesti, era vestita di rosa e portava un cammeo al collo”. “Lei mi sta facendo il ritratto della mia povera figlia; ma chi è lei, come si chiama?”. Le dissi chi ero e vincendo lo sgomento la pregai di ricevermi in casa sua. La donna, dapprima titubante, alla fine acconsentì.

Mi recai a Greco. La signora Soncini fu molto cortese. Le ripetei il racconto fattole al telefono; capì la mia morbosa curiosità di vedere almeno una fotografia della figlia e mi invitò in una piccola stanza. “Questa era la camera di mia figlia” disse poi e indicò un ritratto sulla parete. Ero sgomento: si trattava della ragazza che avevo accompagnato pochi giorni prima. Chiesi anche del cammeo, ma la donna affermò che era stato sepolto insieme con Giovanna. “Era la mia unica figlia” disse in tono pacato accennando alle lacrime e, come per fugare ogni dubbio, mi mostrò alcune fotografie ingiallite della ragazza. Le dissi allora che mi dispiaceva averle ricordato quella sciagura, che certamente mi ero sbagliato, che quella ragazza non poteva essere sua figlia, che era solo una strana inspiegabile coincidenza.

Quando mi congedai non ero affatto tranquillo, non potevo credere a uno stupido scherzo: troppo certo ero d’aver incontrato la ragazza delle fotografie. Forse la madre mi aveva mentito, pensai, considerando morta la figlia che invece era solo scappata di casa. Forse le foto non erano autentiche, ma stampate alla maniera di quelle di una volta. Decisi che avrei rintracciato i dati di Giovanna in municipio.

Poiché conoscevo la data del decesso qui non ebbero difficoltà a rilasciarmi il certificato di morte: Giovanna era effettivamente mancata quindici anni addietro. Mi sembrò d’impazzire. Qual era la verità di questa storia irreale? Non certo quella d’una sosia: troppo collimavano la struttura fisica, lo sguardo metallico, il sorriso enigmatico e quel particolarissimo cammeo con ciò che mostravano le foto. E se la signora Soncini avesse attribuito a sua figlia Giovanna, effettivamente morta quindici anni prima, le fotografie della ragazza che io avevo incontrato? Era un’ipotesi assurda e inspiegabile ma anche l’unico appiglio per non credere nell’incredibile. Dovevo rintracciare personalmente la tomba di Giovanna, se davvero ne esisteva una.

Fornii al custode del cimitero di Greco gli estremi necessari per effettuare la ricerca: la trovò e m’indicò il percorso per raggiungerla. Camminavo in fretta, torturato dalla volontà di controllare questo particolare determinante. Raggiunsi la tomba, sulla lapide, orribilmente, una foto ovale incastonata ritraeva Giovanna con il suo cammeo: un epitaffio ne rammentava la prematura scomparsa. Era lei, certamente! Il cuore mi balzò dal terrore e pensai che scoppiasse quando vidi su una croce vicina il mio soprabito chiaro… Esitai, poi lo afferrai, con angoscia vi infilai le mani nelle tasche, ne estrassi il mio biglietto da visita e lessi “Arrivederci!”.

Avevo ascoltato senza fiatare la storia di Roberto, dubbioso se credergli o no; d’altronde non ebbi più il tempo di fargli domande, ché gli amici suonavano alla porta. Prima dì aprire mi fece promettere che non avrei fatto parola con alcuno di quanto mi aveva narrato se non fossero trascorsi almeno quindici anni. Sorrisi imbarazzato a questa richiesta di cui non avevo capito il senso. lo comunque l’ho sempre rispettata e non ho mai accennato a nessuno quest’incredibile storia.

Ora, però, i quindici anni sono da tempo scaduti.


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