"Il teatrino letterario" di Massimo Messa


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La Libreria Popolare di via Aladino nascondeva un retrobottega ricavato da un’antica cantina. La raggiunsi dalla stazione della linea 1 del metrò in pochi minuti, tenendo in mano, ben serrati, due miei romanzi e un pamphlet di poesie.

Mi accompagnarono in un cortiletto su cui si affacciavano dei ballatoi, mi indicarono – in compagnia di un “Attenzione alla testa!” – una scaletta di gradini che scendevano verso il basso, di quelle che mi ricordavano a Milano i rifugi antiaerei. La percorsi e mi ritrovai in un paio di stanze comunicanti: pareti a volta e mattoni rossi in vista. Nel primo ambiente gli scaffali alle pareti esponevano, tra polvere e muffa, una cospicua quantità di vecchi libri, anche gloriosi, disposti senza ordine né decoro.

Lì, accanto a un tavolino, stava Manuela, una delle protagoniste dell’evento letterario che si celebrava quel giorno, che avevo conosciuto grazie a Facebook. Sebbene non l’avessi mai vista di persona prima d’allora, la riconobbi subito: una ragazza di ventisette anni, nata nel giorno di San Martino, fisionomia unica, ben marcata, viso incisivo, di quelli che, dietro qualche insicurezza ben celata, trasmette gentilezza al primo impatto scoprendo il karma di chi sa il fatto proprio. Sveglia, insomma… e dotata. Così almeno fu la mia impressione. Anche assai carina, con due occhi lampanti e una capigliatura tutta a riccioli scuri spruzzati di rosso. Ero arrivato con mezz’ora d’anticipo, ma lei era già lì, nella penombra, accucciata su una sedia essenziale come una donna che sta dicendo il rosario in chiesa.

La salutai e lei scattò in piedi mostrando un po’ di sconcerto, senza perdere però la padronanza del suo ruolo. Era una spilungona, ma davvero ben fatta.
“Ma tu ci campi con la poesia?” le chiesi.
“No, sono laureata in giurisprudenza e sono consulente del lavoro, la poesia è un’altra attività che mi stimola”.
“Giurisprudenza…Tutti esami orali!” esclamai d’impatto.
“Eh, sì…” si limitò a rispondere. Quella banale osservazione non meritava di più, infatti.
Proseguii: “Hai mantenuto la promessa, hai acquistato il mio libro L’isola dell’utopia?”.
“No” mi rispose, senza alcun cenno di scuse.
Ci avrei scommesso – mi dissi. “Allora te l’ho portato io, insieme all’ultimo romanzo che ho scritto: te li regalo. A condizione che tu li legga”.

Mi ringraziò e li prese con sé. C’erano altre due persone, lì vicino a lei. Pensai di non farla troppo lunga e le indicai che mi sarei seduto da qualche parte nella stanza della presentazione, la seconda, e mi allontanai.

La stanza era ancora deserta. Un tavolino nudo e crudo, che mi ricordava l’Ikea montalo tu, campeggiava dirimpetto a una trentina di sedie di legno disposte su otto file. Altre sedie stavano d’angolo, dalla parte dei libri. Osservai la stanza, illuminata a colori caldi, soffitto a volta, mattoni rossi in bella vista ancor più appariscenti per via della luce. Più adatta a tenerci degli scaffali con delle bottiglie di vino che un incontro letterario. Occupai la prima sedia in prima fila e attesi che quell’evento prendesse corpo. Arrivarono padre e figlia, due donne anziane, alcuni giovani poco classificabili e altri anonimi. Mi dava l’aria di un’assemblea di condominio quando l’amministratore non è ancora arrivato. Chi si conosceva iniziò un chiacchiericcio ad alta voce, tipico di chi vuole ingannare il tempo dell’attesa senza mostrare disagio. Suonava come il miagolio dei gattini quando hanno fame.

Mi era rimasto in mano un terzo libretto, quello che Manuela mi aveva spedito mesi addietro con alcune sue poesie e con qualche fotografia di taglio moderno e di soggetto non bene identificabile. Le fotografie erano esposte su un pieghevole elegante, ma non mi trasmettevano granché salvo il dedurre che piacessero essenzialmente a Manuela e all’autore degli scatti. Apparve un uomo, sui cinquanta, alto e robusto, maglietta da ragazzino e pantaloni bianchi da marinaio alla Braccio di Ferro. Sì – pensai – gli mancava solo una latta di spinaci per completare l’interpretazione del personaggio. Si mostrava molto agitato e nelle due piccole stanze riusciva a camminare avanti e indietro come chi percorre le vasche di una piscina o va su e già lungo la Ramblas di Barcellona. Appoggiò un foglio, stropicciato dai sui appunti, sul tavolo. Ma non accennava a sedersi. Si atteggiava a shamano di turno e non dava confidenza a nessuno, salvo disporre il da farsi sui chi si sarebbe seduto là o di qua, chi parlerà per primo, chi reciterà, e così via. E poi, alle diciassette e trenta, ora prevista per iniziare, si espresse ad alta voce. Con tono da narciso, bianco come i suoi pantaloni, e senza guardare in faccia a nessuno, con il carisma di un fagiolo lesso, suonò così: “Aspettiamo ancora qualche minuto, anzi anche più di qualche minuto, perché arriverà ancora gente”. A discapito delle persone puntuali, come al solito. Questa poesia l’ho già sentita recitare diverse volte. I quindici minuti accademici divennero mezz’ora ed io ero già piuttosto scocciato. Ma nella vita avevo imparato a sopportare la democrazia dei saggi.

Alla fine chi doveva esserci c’era. Circa venticinque persone tra gli auditori e quattro persone – tre donne e Braccio di Ferro – sedute, dopo una contesa sulla loro disposizione (ed erano solo in quattro), al tavolo dell’Ikea. Diedero una parvenza d’improvvisazione, ma, in questi casi, ci può anche stare ed essere interpretata come genuinità.

Nessuno dei quattro si presentò. Ma riuscii a dedurre che le poetesse fossero due: Manuela, naturalmente, e un’altra vegliarda stagionata, consapevole di non essere stata neppure da giovane carina, che si atteggiava a letterata di successo. Mentre l’altra donna era la mentore di Manuela. C’era aria da sottobosco dell’arte poetica che, tuttavia, costituiva un substrato poco ortodosso riservato a quegli eletti che, nutriti da questa cultura, si agitano nel loro mondo, soddisfatti di viverlo così.

L’uomo in calzoni bianchi, strinse in pugno il foglio con gli appunti ed esordì facendoci capire che la presentazione avrebbe dato la precedenza alla poetessa anziana, di cui il mentore era lui, per passare dopo alla poetessa più giovane, under 29, cioè Manuela, la cui mentore era una a me non nota professoressa di filosofia che si chiamava Alessandra.
Parlò della casa editrice che accomunava le due artiste, la quale risiedeva a Pasturana, alla periferia di Novi Ligure, tra la Pieve di San Martino, la scuola elementare e un birrificio locale.

Finalmente saltò fuori che l’uomo era un insegnante (lo dedussi perché fece riferimento ai propri alunni), che il suo nome era Mauro e che la sua poetessa si chiamava Maria Gabriella. Parlava in modo forbito, scandendo le parole con molta enfasi e utilizzando dei termini astrusi, dei verbi pesanti e ricercati, esponendo la presentazione come se fosse riferita ad Alda Merini. Dalle opere, dal cielo della poesia di Maria Gabriella si evince la carica di umanità ambientata in un territorio agreste, storico, tra campi, tundra e brughiere. Il suo frasario era astruso, volutamente ostico, non credo comprensibile a tutti gli astanti – un concerto di pesci in vasca a cui non doveva essere ceduta la parola – ma, d’altronde, ciò è tipico degli uomini narcisi. Non faceva alcuno sforzo per evitare parole teatrali. Ma, se non si fosse espresso in quel modo criptico che mentore sarebbe stato? I discorsi delle portinaie sulle soglie dei condominii avrebbero fatto presa su quel pubblico incolore? Un uomo cattedratico e imperiale come lui non avrebbe saputo comportarsi diversamente. Questo era il suo pregio!

La poetessa, tra l’altro scafata, si sarebbe potuta presentare da sola. Però non sarebbe stato deontologico. Senza mentori non si può essere autodidatti, come una prostituta non può battere senza un protettore. Queste sono sempre state le regole del gioco perché possa pappare dallo stesso piatto tutta la famiglia.

Infine, esaurito un buon quarto d’ora ininterrotto di salamelecchi e di enfasi sulla carica umana della poetessa (dopo aver premesso che sarebbe stato sintetico): “Lascio ora la parola a Maria Gabriella, che vi reciterà qualche sua poesia”.
Finalmente!

Ma la poetessa non si sognava di iniziare subito a dilettarci con la sua espressione artistica. Replicò, invece, la presentazione di se stessa dilungandola per un altro buon quarto d’ora. Era stata in Slovacchia e in Polonia dove la terra e il sole si contemperano, dove la tristezza appare sull’epidermide, dove il silenzio di Auschwitz è parlante e lascia un’indimenticabile presenza di peso e di oppressione. Dove, alla Messa celebrata a Katyn, davanti alla folla convenuta per ricordare le vittime del massacro sovietico di oltre settant’anni prima, c’erano le quasi cento sedie riservate alla delegazione ufficiale destituita, vuote.

La sua ricerca era finalizzata alle cose e alle parole tristi, bieche, più disumane che umane. Un’accanita, infaticabile cacciatrice di tristezza, insomma. In fondo la poesia cos’è se non l’espressione di persone tristi per lettori tristi? Una poesia allegra? Chi la leggerebbe?

Percepii un messaggio negativo carico di autostima in questa donna che vive sull’onda del proprio narcisismo. Ma il bello doveva ancora venire.

Un’altra donna, ultrasettantenne, che sedeva nella prima fila della prima stanza, fu chiamata in causa, come una badante, da Maria Gabriella che le ordinò di recitare una propria poesia. Tutto in lei era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare e apparivano indomiti. Si alzò in piedi, facendo scricchiolare le ossa, e iniziò la sua mission. Sapeva recitare, non v’era dubbio. Vi era avvezza, triste come la sua paladina. Maria Gabriella la incalzava. “Ora recita quest’altra”. Poi un’altra e poi un’altra e poi un’altra ancora. E tra l’una e l’altra un intervallo di applausi a poche mani, in sordina. Resterà ben poco spazio per Manuela, temetti, erano già le diciotto e trenta, mi parve un po’ troppo egoistico tutto ciò – pensai. Osservai Manuela. Era imperscrutabile. Dietro il viso algido ben celava la propria attesa.

La recitazione aveva un contenuto tetro e maleodorante. La badante mi dava l’aria di chi non possa a lungo avere una faccia per se stessa e un’altra per il pubblico, senza rischiare di non saper più quale sia quella vera.

Per fortuna mi affrettai a prenderne le distanze. La vita è bella. Non smetterò proprio ora di starmene dalla parte dei messaggi positivi, avvinghiato a questi, come sono, anche con le unghie dei miei piedi!

Finita la recitazione della badante, mi aspettavo che la parola sarebbe passata ad Alessandra. At last. Invece no.

Maria Gabriella disse che ci avrebbe recitato personalmente un’altra poesia e lo fece. Quel viso rugoso si serviva maldestramente del sorriso. Sono certo che nella platea molti stavano mascherando a stento la propria noia. Nel momento in cui Mauro stava per passare la parola ad Alessandra, Maria Gabriella lo interruppe. “Aspetta” gli disse “Voglio recitarvi anche questa poesia concepita in una giornata nebbiosa”. E la recitò. Era l’ultima, finalmente. Non ne aveva scritte altre, per fortuna.

Alessandra, in esordio, ci ricordò che aveva conosciuto Manuela per caso, l’aveva scoperta, apprezzandola pur non volendo mai utilizzare i superlativi. Disse che, facendo parte, con fiero orgoglio di una giuria giudicante i concorsi poetici, aveva subito dato un voto altissimo a Manuela (alla faccia del bandire i superlativi). E così assistetti a un’altra ode questa volta indirizzata alla Dea Manuela. Con la differenza che Manuela non è una ragazza che intristisce o che ricerca la tristezza. E meno male. Manuela è una ragazza solare, riservata quanto basta e, soprattutto positiva. Ci spiegò che la sua esperienza era stata irrobustita dal fatto che, per via del lavoro di suo padre, si era ritrovata a cambiar casa e scuola di frequente, pur essendo nata a Livorno – accanto alle vissute e sofferte architetture della Venezia della Toscana, vale a dire i fossi reali che attraversano questa cittadina non turistica, ma di confine per chi traghetta verso le isole – e che di nuovo ora era residente a Livorno.
Nel 2008 dichiarò di aver rivitalizzato il suo estro poetico (grazie a qualche incontro apprezzabile) e da lì di aver alimentato la propria produzione artistica superando più di un concorso, di cui ancora pendente era quello dell’Università di Salerno.

Alzandosi in piedi – niente badante per lei – Manuela recitò alcune sue poesie. Ammirai la sua figura, jeans e maglietta e un bel portamento, garbato e sobrio: le belle donne che leggono sono più sensuali di quelle che sfilano sul lungomare. Hanno l’eleganza nell’anima. Ascoltai con attenzione quanto lesse e devo dire che mi convinse molto più del contenuto il suo modo di esporre, di recitare, la sua enfasi, il suo contagioso entusiasmo. Un’autentica poetessa che crede, senza montarsi la testa e senza essere un narciso, né un papavero, nella propria produzione letteraria.

Per me si stava facendo tardi, mi alzai anzi tempo e, dato uno sguardo con un cenno di saluto a Manuela, che lo recepì, le girai le spalle e me ne andai. Uscii nel cortiletto. Si era alzato il vento e un gregge di biancheria prendeva il volo come una bandiera su una nave.

Ma più tardi, a casa le mandai questo piccolo messaggio su Facebook: Congratulazioni e buona fortuna, Manuela. Mi farebbe piacere che tu leggessi i miei romanzi e, soprattutto, avere una tua preziosa opinione in merito. Un sorriso gratis e un arrivederci al prossimo appuntamento culturale. P.S.: Ho riassunto in un paio di paginette il teatrino letterario di oggi alla libreria popolare. Se sei interessata te lo mando, ma forse non ne sarai entusiasta.

L’indomani mi rispose che era interessata, che glielo mandassi. Così feci.

Un paio di giorni più tardi vidi cancellata la mia amicizia Facebook con Manuela. “Eh sì,” pensai “Le donne, giovani o vecchie, vanno coccolate, indorate. Guai a raccontare le cose come sono andate se c’è di mezzo la difesa dell’effimero o un attacco, seppure blando, all’habitat, per non dire all’incubatrice, della propria autostima!”.

Della lettura dei miei romanzi, da parte di Manuela, naturalmente più nessuna traccia.

Ma non me la presi. Luigi Pirandello diceva: “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”.


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