“Il tempo fragile” di Roberta Marinucci


 

Il professore sorrise all’addetta che gli aveva gentilmente portato il bicchier d’acqua richiesto. Mancavano ancora una trentina di minuti prima che andassero in onda, ma lui era già piuttosto nervoso: non si abituava mai alle telecamere, alle luci, al via vai concitato, al disagio di doversi poi rivedere. Tuttavia una volta all’anno gli toccava, di presiedere a quella cerimonia in diretta TV. Lui, lo scienziato che ormai era diventato un’istituzione dopo la scoperta del millennio, assegnava ogni anno un riconoscimento a un giovane ricercatore, che si fosse distinto per la propria dedizione e le proprie brillanti intuizioni. La Fondazione ne aveva premiati ormai diciannove, tanti come gli anni trascorsi da quando lui e i suoi collaboratori avevano lanciato la proposta, e da allora l’interesse per il premio, lungi dallo scemare, era andato via via aumentando: da tutto il mondo ormai arrivavano le pubblicazioni dei candidati e la giuria si trovava spesso in difficoltà. Dopo una snervante valutazione venivano selezionati dieci finalisti, e la sera della cerimonia venivano presentati al pubblico, insigniti dei riconoscimenti minori, e infine assistevano, pietrificati sul palco, all’apertura della busta sigillata col nome del vincitore. Il professore trovava sempre un po’ triste quel momento. Non solo per la palpabile e spesso devastante delusione dei nove esclusi, ma soprattutto perché inevitabilmente, nel momento in cui le sue dita laceravano il sigillo e la pesante carta azzurrina, gli tornava in mente lei, Samantha. Perché alla fine doveva tutto a lei. Al suo amore, al suo sorriso, alla sua gioia. Alla sua scomparsa, sì. Doveva tutto il suo dannato successo al fatto che lei non ci fosse più. Non morta, da avere almeno un posto in cui saperla al sicuro, custodita dalla terra. No, scomparsa proprio, non si era mai saputo dove. Aveva solo ventisette anni, era bella e indomita ed era l’unica a credere in lui, nel giovane scienziato visionario, quando ancora tutto il mondo accademico rideva delle sue bizzarre teorie. Quella notte lo aveva raggiunto nella sua anonima camera, gli aveva strappato di mano i suoi appunti deliranti e li aveva sparsi sul letto. Aveva bloccato ridendo il moto di stizza di lui.“ Che bello, mi piace fare l’amore in mezzo alle tue teorie strampalate”. E davvero lo avevano fatto, un amore bello e smanioso tra le pagine spiegazzate sulle lenzuola. La mattina lei aveva raccattato gli appunti, li aveva impilati alla meglio sul comodino e lo aveva baciato golosamente prima di andarsene, lasciandolo a stiracchiarsi nell’alone di beatitudine che indugiava nell’aria. Ritrovarono la sua macchina due giorni dopo in una strada fuori mano. Nient’altro. E fu quello, il vuoto disperante della sua scomparsa a dargli la forza folle di continuare, di studiare e studiare e studiare fino a trovare la chiave di volta dell’Universo, la teoria che davvero avrebbe consentito all’uomo di padroneggiare i viaggi nel tempo. Certo, sarebbero trascorsi anni, forse decenni, prima che si potesse realmente tentare un viaggio con esseri umani, ma la scoperta c’era, luminosa e perfetta come un diamante, e ogni nuovo esperimento, lungi dallo scalfirla, aggiungeva una nuova limpida sfaccettatura.  Era diventato l’uomo più stimato al mondo, il depositario del sapere, il genio. Platee adoranti lo attendevano nelle università di tutto il pianeta. Persone comuni, anziani, bimbi, conoscevano il suo nome e il suo viso, come accade solo per le stelle del rock. La gloria. Non avrebbe confessato mai a nessuno, che tutto questo lo sfiorava appena, che in realtà aveva lavorato febbrilmente in tutti quegli anni mosso da un unico folle desiderio. Tornare indietro a quella notte e trattenere lei. Stringerla a sé, convincerla, magari chiuderla a chiave in camera se necessario. Tenerla con sé. Finì di ingoiare l’acqua che faceva fatica a scendere nella gola contratta, si voltò per restituire il bicchiere. La ragazza sorridente lo prese con una mano, mentre con l’altra gli porgeva un tablet .“C’è una mail per lei, Professore. Non sapevo se fosse urgente, se crede può leggerla dopo la premiazione. “No, lasci. Aspettare mi rende nervoso, almeno mi tengo occupato per qualche minuto.” Sospirò con indulgenza sfiorando l’icona sul display: di certo l’ennesimo messaggio di ammirazione. Per fortuna la ragazza non si era allontanata, e corse a sorreggerlo, gridò per farsi portare una sedia, mentre intorno tutti si fermavano e sciamavano verso di lui, che pallido e barcollante aveva lasciato scivolare a terra il tablet. Rassicurò in fretta tutti, strappò il tablet dalle mani che l’avevano raccolto e scandì ad alta voce che sì, stava benissimo, e no, non voleva un dottore, non voleva niente, solo che lo lasciassero in pace per dieci minuti, che diamine. A grandi passi raggiunse una saletta per poter finalmente leggere la mail. Per qualche terribile istante pensò a un crudele scherzo, ma no, c’erano troppi dettagli che soltanto loro due conoscevano. Solo loro. “Quella notte ancora non lo sapevo, ma il cancro aveva già invaso il mio cervello e mi avrebbe uccisa in poche settimane. Me lo dicesti tu, o meglio l’altro te, più vecchio di quarant’anni. Ci eri riuscito, in fondo lo sapevo che sei davvero un genio, e dopo tutti quegli anni eri tornato a prendermi per farmi guarire, perché ormai la mia malattia era del tutto curabile. Sono guarita, sono rimasta con lui. Ho amato lui, anche se sapevo che tu, in quest’altro strano corridoio dell’Universo, eri rimasto solo. Perdonami amore mio. Lui adesso è vecchio e malato, è alla fine dei suoi giorni, e mi ha chiesto di lasciarlo andare. Di tornare qui con te. Sono tornata, adesso. Sono qui, nella platea, e ti vedrò tra poco. È passato tanto tempo e anche qui saranno accadute molte cose. Forse hai un altro amore, forse sei cambiato. Siamo cambiati. Forse non c’è più posto per me in questo strano corridoio dell’Universo. Ma ci sono, solo questo volevo dirti.” Ormai erano in onda, e il conduttore si dilungava con la sua noiosa introduzione: il suo sguardo si rasserenò quando vide che il professore, lisciandosi la giacca, raggiungeva il posto a lui assegnato sul palco. Lo presentò tra scrosci di applausi, gli lasciò il microfono, facendo calare tra i presenti un silenzio quasi sacro. E fu in quel silenzio che lui pronunciò quelle poche sillabe: “Samantha.” E nello stesso silenzio, da qualche parte, una donna iniziò a singhiozzare, si fece largo tra i presenti, si avvicinò. Sotto le luci crude allestite per le riprese appariva anche lei segnata dagli anni, così diversa eppure così vicina al suo ricordo, come se fossero trascorse solo poche ore da quell’ultima notte insieme. Che sciocco che sono, pensò. Calcoli, teorie, scoperte, viaggi. E non mi sono mai accorto che il tempo ha un modo di scorrere tutto suo, dentro di noi. Che è inesorabile solo là fuori. Dentro, dentro è davvero fragile, se possiamo così facilmente frantumarlo. Era di fronte a lei. La prese per mano, la condusse sul palco, tra gli sguardi attoniti e lucidi dei presenti. “È lei. Samantha.”

 


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