"Il tonno nero. Un caso per Antonio Libeccio" di Alessio Piras


 

Mi svegliai quando la pendola del salotto suonava le cinque del mattino. Era una notte fresca di mezza estate, avevo lasciato la finestra della mia stanza aperta per ventilare e mi ero coricato coprendomi con il lenzuolo di cotone bianco. Mi trascinai in cucina ciabattando le vecchie infradito blu, ricordo di quindici anni prima, quando ancora l’estate sapeva di sale, sabbia e polipi pescati tra gli scogli di Albissola Superiore. La cucina era un anfratto di tre metri per due dove a malapena entravano il frigo, il forno con il piano cottura e il lavandino. Presi una tonica, del ghiaccio e un lime. Lo tagliai e misi uno spicchio con il resto delle cose in un bicchiere gelato che tenevo dentro il congelatore. Bevvi in un unico sorso e in pochi secondi una bomba atomica esplose nel mio stomaco: avevo digerito la parmigiana di melanzane che la mia ex suocera, Tina Mastrangelo in Aloisio, mi aveva rifilato la notte prima. Nonostante mi fossi ormai separato da mia moglie da due anni, la Tina continuava a prendersi cura di me con devozione quasi commovente.
Tornai in camera passando davanti al muro con appese le foto che avevano immortalato i momenti più importanti della mia vita: la laurea, il matrimonio, il battesimo del piccolo Andrea. Andrea, uno scricciolo di quattro anni che non vedevo da due, da quando sua madre, la mia ex moglie, Anna Aloisio, aveva deciso di divorziare e il giudice le aveva affidato la custodia. A me, per il momento, non era concesso neanche di avvicinarlo. La mia colpa? Un grande equivoco: l’avevo tradita con l’agente Parodi, diceva lei, dell’Ufficio Passaporti. A poco era valso che neanche la conoscessi io, Lucia Parodi, prima che lei la tirasse in ballo. Ma, grazie a uno di questi detective, investigatori privati odora mutande da quattro soldi, aveva costruito le prove del mio tradimento e del mio squilibrio e me l’aveva fatta. Stavo ancora meditando vendetta, ma prima dovevo riconquistare il mio sacrosanto diritto a partecipare alla crescita di mio figlio.
Quando entrai nella camera da letto vidi che il telefono iniziò a squillare. Quel telefono. Quello in dote dal Ministero dell’Interno per la reperibilità. E se mi chiamavano a quell’ora della notte qualcosa doveva essere successo.
-Vice questore Libeccio, chi parla?
-Sono l’agente Persico, signor vice questore.
-Cosa vuoi Persico?
-Un cadavere, signore. In Piazza dei Giustiniani.
-Chi c’è sul posto?
-L’ispettore Levratto e un paio d’agenti.
-Il magistrato?
-Lo chiamo ora.
-Va bene, Persico. Arrivo.
Dopo mezz’ora ero fuori di casa, in sella alla mia 883 nera. Avevo bevuto un caffè al volo della moka del giorno prima, che ormai era sbobba nera buona solo per svegliarmi e farmi arrivare al primo bar disponibile. Parcheggiai in Piazza Dante e quando arrivai sul luogo del delitto stavano per suonare le sei. Sul posto trovai Levratto, uno scavezzacollo cinquantenne, alto un metro e settanta, largo altrettanto e fumatore incallito. Non so grazie a quale santo si era sposato con una donna minuta e bella, con la quale aveva avuto due figlie, fortunatamente entrambe copie sputate della madre.
-Vice questore, finalmente sei qui.
-Non mi tirare il belino, Levratto. Cosa abbiamo?
-Uomo di 20 anni, nazionalità somala, con permesso di soggiorno. L’ha trovato un netturbino, è sotto shock, ma se vuole fargli domande…
-Fatti dare un contatto, poi lo richiamo. Causa della morte?
-Direi ferita d’arma da fuoco, ma il medico legale deve arrivare.
-Il magistrato?
-In arrivo.
-Chi ci è toccato?
-Il dottor Sperandio.
-Cazzo, proprio il più stronzo.
-Era quello reperibile.
-E sempre con me le reperibilità le deve fare quell’abelinato. Ah eccolo là…
Vidi arrivare Sperandio, zoppicante come sempre dopo che l’avevano gambizzato per sbaglio alla fine degli anni ’70. All’epoca aveva dieci anni e volevano colpire il padre, un imprenditore da quattro soldi della Val Polcevera. Solo che il terrorista si sbagliò e prese il figlio, il futuro magistrato, che scelse quella strada proprio per vendicare la disabilità che si portava dietro come un marchio di fabbrica.
-Ah, c’è lei Libeccio.
-Il piacere di vederla è soprattutto mio dottore.
-Non faccia sarcasmo, vice questore. Mi riassuma.
-Uomo di 20 anni, nazionalità somala, con permesso di soggiorno. L’ha trovato un netturbino, è sotto shock, ma se vuole fargli domande… E il medico legale deve arrivare, comunque morto sparato.
-Vuole dire che gli hanno sparato.
-E che ho detto?
Mi divertiva Sperandio, sempre preciso e impeccabile.
-Va bene, Libeccio. Aspettiamo che arrivi il medico e poi iniziamo le indagini. Io sono reperibile, il caso passerà al collega Lupo, sa che ormai non mi occupo di omicidi. Posso fare il suo nome per seguire le indagini?
-Come no dottore, sarà un piacere avere a che fare con la dottoressa Lupo.
Mi guardò male, mi trafisse con quegli occhi neri e piccoli. Tanto piccoli quanto espressivi e cattivi. Ma me la ero cercata: Loretta Lupo, anni quarantaquattro era una gran bella donna per la quale Sperandio aveva preso una cotta da far andare in manicomio chiunque. Lui aveva anche provato a portarsela nel suo ufficio, ma si narra che dopo aver preso un due di picche colossale dopo una cena di lavoro si sia risentito e l’abbia allontanata. Ciononostante, era gelosissimo di chiunque la potesse anche solo guardare. E la sua gelosia arrivava a livelli altissimi con il sottoscritto. Non ho mai capito il perché visto che mai avrei tentato di portarmi a letto un magistrato della Procura della Repubblica della mia città. E poi ne avevo abbastanza delle mie, di donne: di andare a cercare quelle degli altri non mi passava neanche per l’anticamera del cervello.
Mentre Sperandio si allontanava con Levratto sentii un colpo secco e inconfondibile sulla spalla.
-E così ci sei tu, vecchio cazzone!
Mi voltai e alle mie spalle mi accolse la mole maestosa del medico legale, dottor Daniele Sorru, nonché mio miglior amico dai tempi delle scuole medie.
-Così pare. Hai visto il cadavere?
-No, andiamo.
Daniele fece un giro attorno al corpo del povero ragazzo somalo. Lo osservò con attenzione e come sempre riuscì a vedere qualcosa che agli occhi di Levratto era scappato.
-Vedi qui?-, indicò un segno netto dietro il collo, poco sotto la nuca. Io assentii e lo stesso fecero Sperandio e Levratto che si erano avvicinati. Daniele si voltò e non poté evitare di dire la sua:
-Abbiamo pubblico. Sperandio buongiorno. Levratto…
-Faccia poco lo spiritoso.
-Ok, ok. Qui: vedete questo segno proprio sotto la nuca? Non ci giurerei, ma secondo me la pallottola che gli hanno piantato nella femorale è una messa in scena.
-Cioè pensi che sia morto per un colpo secco al capo?
-Non lo penso, ho un dubbio e solo l’autopsia me lo può togliere. Certifico la morte e porto via il cadavere per studiarlo.
-Tra quanto mi fai sapere?
-Anto’, dammi tempo. Sperandio?
-Non più di qualche giorno. I giornalisti ci staranno col fiato sul collo. Questo è il terzo morto ammazzato in un mese in questi cazzo di vicoli.
E se ne andò, zoppicante e incazzato come da una vita a questa parte.

Si erano fatte le sette quando mi liberai. Decisi di tornare a casa e cazzeggiare mangiando focaccia fino alle nove. Arrivai al numero 17 di via Isonzo e salii i tre piani di scale a piedi. Entrai in casa, spalancai le finestre e misi un disco di Mark Knopfler. Sulle note di The Sultans of Swing squadernai la focaccia sul tavolo della sala e misi su una moka da tre. Presi il latte e, una volta pronto il caffè, mi misi a far colazione. Neanche il tempo di inzuppare la prima striscia di focaccia che il telefono suonò di nuovo.
-Chi cazzo è?
-Ciao Antonio, sono Anna.
Eccola mia moglie, che sicuramente veniva a ricordarmi che ancora dovevo versare la sua parte di alimenti, mentre quelli di Andrea andavano con bonifico automatico.
-Cosa vuoi?
-Lo sai.
-Li avrai, oggi faccio il bonifico.
-Un cazzo Antonio! I soldi per Andrea li versi con l’operazione automatica. I miei me li fai sudare. Eppure ne ho diritto.
-Andrea è mio figlio, tu sei la mia ex. Quale lettera, tra la “e” e la “x”, ti sfugge?
-Sei uno stronzo?
-Oggi ti pago.
La pagavo, in pratica le davo un quarto del mio stipendio per far da mamma ad Andrea e senza poter mettere bocca. Ad Andrea davo un altro quarto, così a me rimanevano sì e no 1000€, e meno male che il mutuo della casa dei miei era pagato e almeno quella ero riuscito a tenermela. Decisi di non incazzarmi, godermi la focaccia e rimettere The Sultans of Swing dall’inizio, per godermela tutta, nota dopo nota e rilassarmi prima di cominciare definitivamente quella che si stava rivelando una gran giornata di merda.

Quando arrivai in questura Levratto mi aveva già preparato un bel rapporto. Era sgradevole d’aspetto, ma efficiente. Una macchina da guerra perfettamente oliata per la delirante burocrazia italiana.
-Fammi un riassunto Levratto, che non ho voglia di leggere.
-Ti ha chiamato Anna, vero Anto’?
-Si nota?
-Un po’.
-Ma sono cazzi miei, quindi riassumi.
-Mohammed Al Assid, 20 anni, somalo.
-Fin qui ci siamo. E sappiamo anche che era in regola.
-Esatto.
-Quindi che mestiere faceva?
-Faceva il fattorino, il tutto fare per l’Antica Drogheria Torielli.
-Quella di via San Bernardo? E cosa se ne fanno le due Torielli di un povero disgraziato come lui?
-All’apparenza consegne in città, puliva il negozio e scaricava i furgoni dei fornitori.
-Perché all’apparenza?
-Perché non abbiamo ancora sentito le due signore.
-Allora le sentiamo oggi, ti va una gita per i vicoli?
Levratto assentì e sorrise, sapeva che ci avrebbe guadagnato per lo meno un aperitivo.
-Altro? Precedenti o amicizie? Aveva un cellulare in tasca?
-Precedenti, sì, uno. Lo abbiamo trovato con pochi grammi di marihuana un paio d’anni fa. Il cellulare l’aveva e ce l’ha la scientifica, credo che già in giornata ci diranno qualcosa. Dai primi controlli non risultano amicizie significative.
-Quindi un povero cristo, forse ammazzato a bastonate per non si sa quale motivo, con gli stessi precedenti di un ventenne qualsiasi. Aveva soldi addosso?
-No. Nel portafoglio abbiamo trovato solo il documento d’identità somalo e una fotocopia del permesso di soggiorno.
-Almeno dove abita lo sappiamo?
-No.
-Bella merda. Senti Levratto mentre aspettiamo che il cellulare ci risolva il caso andiamo dalle Torielli a sgranchirci le ossa. Tra l’altro ho finito lo zenzero e domani vado a cena da mia suocera.
-Qual è il nesso?
-Che nesso?
-Tra lo zenzero e sua suocera.
-Lo zenzero è un digestivo, Levratto, devo insegnarti tutto.

Andammo a piedi, tagliando da Carignano. Sul curvone di Corso Saffi il blu intenso dell’ultimo padiglione della Fiera si stagliava contro il blu marino di un Mediterraneo tenuto buono dal sottile soffio di tramontana che scendeva dalla Val Bisagno e dalla Val Polcevera. Il cielo era nitido, l’aria di una trasparenza irreale: dal Poggio della Giovine Italia, oltre il porto e l’Appennino ligure, si ergevano maestose le Alpi con le loro cime ricoperte da uno strato di neve perenne. Levratto dietro di me ansimava e sacramentava, ma giunto in quel punto la bellezza del panorama riuscì a strappare un sorriso anche a un burbero irrecuperabile come lui.
-Belin, però ne vale la pena, vice questore.
Continuammo su via Corsica e, dopo aver attraversato Piazza Carignano, scendemmo verso la città vecchia per incrociare via San Bernardo e arrivare alla Drogheria. Quando varcammo la soglia fummo assaliti da un odore intenso di spezie, un odore inconfondibile che non era altro che la ciliegina sulla torta di una bottega in cui il tempo sembrava essersi fermato per sempre. Quel passo, quel semplice passo, tra la soglia e l’interno era in realtà un viaggio nel passato: improvvisamente spariva il XXI secolo e ti ritrovavi in pieno Novecento. E dietro al banco, loro, le sorelle Torielli che con indefessa tenacia continuavano a fare uno dei mestieri più antichi e difficili: il droghiere, lo speziale. E delle spezie sapevano tutto: uso, dosi e provenienza.
-Buongiorno signore.
-Buongiorno Antonio, come andiamo? A cosa dobbiamo la vostra visita?
-Vengo per ragioni personali e di servizio. Ma prima vi presento l’ispettore Levratto, che oggi mi accompagna.
Mi voltai e Levratto era con il naso attaccato a uno degli scaffali, quello che ospitava conserve provenienti dalla Spagna, da Bilbao.
-Levratto…
-Ehm, sì, scusate. Ispettore Levratto, piacere. Ma queste conserve sono buone?
Levratto era così, un buongustaio e una forchetta da campionato del mondo con una gran faccia di bronzo.
-Certo. Ne prenda una, offre la casa.
-Levratto!
-Oh ma lo lasci vice questore. Mi dica, è per ragioni di servizio?
-Sì. Voi conoscete Mohammed Al Assid?
-Certamente, è il nostro fattorino. Lo abbiamo assunto un anno fa attraverso una cooperativa che lavora con i rifugiati.
-Oggi però non si è fatto vivo.
-No, ma lo sapevamo. Ha preso un giorno di ferie per rinnovare dei documenti. Anzi forse doveva proprio andare all’ufficio immigrazione-, rispose la seconda sorella, che fino a pochi secondi prima stava servendo una cliente.
-Credo che dalle nostre parti non sia mai arrivato: Mohammed Al Assid è stato trovato morto questa mattina alle cinque in Piazza dei Giustiniani.
-Ma è proprio qui dietro!-, esclamarono le due sorelle in coro.
-E com’è potuto succedere?-, disse una delle due.
-Le indagini sono appena iniziate. Avremmo bisogno di farvi qualche domanda, solo per iniziare a farci un’idea di chi fosse Mohammed e chi frequentasse, o anche solo dove vivesse.
Le sorelle Torielli si guardarono negli occhi un momento, uno sguardo d’intesa che contiene un mondo che solo loro possono interpretare. Levratto ed io restammo immobili, spettatori in attesa che l’oratore inizi a parlare. Trasudavamo curiosità e non lo nascondevamo.
-Mohammed era un bravo ragazzo.-, con questa frase forse un po’ retorica e scontata iniziarono a snocciolare dettagli sulla vita della vittima. Mohammed per le sorelle Torielli era divenuto qualcosa di più che un semplice fattorino, un disperato che hanno contribuito a salvare dal macello umano che era diventata la sponda nord del Mediterraneo: accogliente e respingente allo stesso tempo; aperta, razzista e xenofoba. Bipolare e spaventata dal diverso, dalla povertà e dalla guerra: da un mondo e una miseria che pensava di essersi lasciata alle spalle. Al termine del loro racconto comprai un po’ di zenzero, Levratto riuscì a pagare la conserva spagnola e finalmente, dopo due ore, riuscimmo ad uscire.

-Allora Levratto, facciamo il punto.-, dissi al mio ispettore una volta rientrati in questura. -Mohammed Al Assid arriva in Italia ancora minorenne e inizia un periplo infinito attraverso mezzo Paese fino ad arrivare a Genova. Qui vive di espedienti fino a quando una certa Ludovica Barbera, venticinquenne, lo infila nella Cooperativa “Insieme si può”, che sembra uno slogan da campagna elettorale del PD. Attraverso la Cooperativa riesce a mettersi in regola e viene assunto dalle sorelle Torielli che non si limitano a dargli uno stipendio, ma spesso gli cucinano e lavano i vestiti. Mohammed vive in un appartamento in Canneto il Lungo con altri disgraziati come lui, sempre della Cooperativa, mi segui Levratto?
-Sì, Antonio, per ora tutto chiaro.
-Ok. Allora qui inizia il casino. Perché questo Mohammed è fatto di carne e anche la bella Ludovica è fatta della stessa pasta. I due si innamorano e finiscono a letto. Ma la signorina Barbera è bella che fidanzata con un altro rifugiato africano, di qualche anno più grande, che conduce una vita ambigua secondo le Torielli. Un tal Abdul Ibn Aziz, nigeriano, con precedenti per spaccio, ma con un piede nella cooperativa. E qui mi puzza.
-E puzza sì. Questo tizio avrebbe un movente grosso come una casa.
-Se li ha scoperti. Cosa sappiamo di Ludovica Barbera?
-Laureata in Lettere qui a Genova, lavora in Cooperativa. Vive con i genitori a Marassi.
-Sai che ti dico, Levratto? Che ci andiamo a fare un giro alla “Insieme si può”.
-Mi chiedevo cosa aspettassi a propormelo, vice questore.
-Un’ultima cosa. Il cellulare di Mohammed?
-Chiamo la scientifica e metto loro fretta.
-Mettigli proprio il pepe al culo, Levratto.
-Agli ordini vice questore.

La Cooperativa si trovava in via delle Fontane, quasi all’angolo con via del Campo e Porta dei Vacca. Occupava i locali a livello strada del palazzo della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere. Quando entrammo l’ambiente mi ricordò un locale/discoteca di Napoli in cui ero stato molti anni prima. Poca luce, un lungo tavolo da osteria e due persone sedute dietro intente a “lavorare” al computer. Erano un uomo e una donna, tra i venti e i trent’anni.
-Buongiorno, stiamo cercando la signorina Barbera.
L’uomo, senza alzare lo sguardo dallo schermo e masticando la cingomma come un calciatore di terza categoria, mi rispose a bruciapelo: – Non c’è. Chi cazzo siete voi?
Mi bastò un’occhiata per sguinzagliare Levratto dietro il banco, sbattergli il distintivo in faccia e insegnargli la buona educazione.
-Senti mingherlino-, disse il mio ispettore, – siamo della Polizia, esatto sbirri, ma non per questo ora devi improvvisamente diventare un agnellino. L’educazione la devi rivolgere a tutti. Quando hai finito di cagarti nelle braghe dimmi dove posso trovare la signorina Barbera. Sai, abbiamo un po’ fretta.
L’uomo impallidì e davvero ci mancò poco che non se la facesse di sotto. Smise di masticare e dalla bocca gli cadde la gomma sulla scrivania. Fu a quel punto che la sua amica, forse presa da quella pietas che il suo lavoro di cooperante dovrebbe implicare, si alzò e disse senza pensarci su: – Sono io Ludovica Barbera.
Rimasi di sasso perché quel corpo gracile e minuto, che nascondeva anche la minima curva dietro un paio di jeans larghi e una maglietta di Emergency, mai avrei pensato che potesse appartenere a una Ludovica. Tuttalpiù quello era un corpo da Chiara. Eppure, anche dopo la verifica dei documenti, dovetti rassegnarmi all’idea che quel viso angelico apparteneva proprio alla signorina Barbera.
Ci fece strada fino a una stanza che dava sul cavedio, oscura, che puzzava d’umido e con i muri scrostati.
-Prego sedetevi pure.
Ludovica si premurò di chiudere la porta e controllò che anche la finestra fosse ben serrata. Si avvicinò e si sedette su una sedia di vimini giusto di fronte a noi. Levratto estrasse il quaderno degli appunti per iniziare a scrivere. Stavo per farle la prima domanda dell’interrogatorio, quando la signorina Barbera mi anticipò e, per un verso, mi spiazzò:
-Siete qui per Mohammed, vero?
-Esatto, è già stata informata?
-È in prima pagina sul sito del Secolo e da qualche ora circola su Facebook e Twitter.
– “Come una freccia dall’arco scocca e vola veloce di bocca in bocca…”-, dissi irritato.
-Cosa?
-Niente, non ci faccia caso. Che tipo era? Frequentava la cooperativa?
-Era un bravo ragazzo, una persona onesta e tranquilla.
-Lo frequentava?
-Non molto a dire il vero.
-Aveva qualche nemico? O comunque qualcuno che poteva…
-… volerlo morto? No, vice questore, direi di no.
-Eppure…-, sospirò Levratto con la testa china sul quaderno degli appunti.
-… cosa?
-Eppure dice che lo frequentava poco. Ne è sicura che fosse così tranquillo?
Ludovica Barbera si irrigidì sulla sedia. Serrò le ginocchia e ripiegò le braccia sul seno, quasi a volersi proteggere da un imminente attacco.
-Signorina, ci nasconde qualcosa?-, dissi approfittando dell’indecisione e strizzando l’occhio a quella vecchia volpe di Levratto, uno che con quasi trent’anni di interrogatori alle spalle sente puzza di menzogna a chilometri di distanza. Un vecchio segugio di razza.
Ludovica si alzò e andò verso la porta. La aprì e si diresse verso l’ingresso della cooperativa. Il mingherlino era scomparso, probabilmente se l’era data a gambe nel momento esatto in cui eravamo spariti nel retro. La signorina Barbera tornò nella stanza dopo aver chiuso la saracinesca che dà sulla strada.
-Non preoccupatevi, usciremo dal retro e poi dal portone principale che dà in via del Campo.-, disse sedendosi. -Scusate non potevo parlare, Mirko è un bravo ragazzo, forse un po’ spaccone, ma un bravo ragazzo, che è molto curioso. Anche troppo. Allora Mohammed e io avevamo un storiella, nulla di serio, ma ci frequentavamo e ci volevamo bene. Se ve lo state chiedendo, sì siamo finiti a letto insieme.
-Lei è fidanzata?
-No.
La risposta arrivò immediata, senza lasciare il tempo a Levratto di completare la frase. Lo guardai, convinto che avrebbe tirato fuori un vecchio trucco per farla cadere, ma non fece niente. Capii che era meglio lasciar correre e non insistere sulla seconda balla della giornata. Avevamo la prova del nove che copriva il suo bell’Abdul. Lei non sapeva che noi sapevamo e quel vantaggio dovevamo mantenerlo. Alla fine, ultimamente, finiva sempre così: io ero il vice questore, ma era Levratto che conduceva gli interrogatori, lo psicologo della coppia era lui, lui che capiva quando era il momento di affondare e quando, invece, era meglio lasciar correre. Del resto io ero un trentacinquenne ancora da svezzare, sbirramente parlando, mentre lui era uno di quei vecchi volponi che sono in polizia da sempre, che sono nati poliziotto, che anche se non hanno la divisa lo portano scritto in fronte che sono sbirri.
Dopo dieci minuti uscimmo dalla cooperativa e andammo a prendere della farinata da mangiare al Porto Antico.
-Levratto mi dici perché non hai insistito sulla balla di Abdul?
-Perché era molto sicura e in vena di confidenze, meglio farle credere che ci siamo cascati. Tanto prima o poi una leggerezza la compie.
-Ma tu pensi sia stato quello?
-Ne sono convinto, ma non come esecutore materiale, quello ha agito da mandante. Mi sa che non è uno che si sporca le mani.
-Belin, Levratto, ma dove cazzo vado senza di te?
-Sicuramente non a mangiare una farinata come questa. Tu che vieni dai quartieri alti. Com’era: “Sono cresciuto a Castelletto, in Corso Firenze”?.
-Cosa c’è di male?
-Nulla, ma i farinotti fatteli insegnare da chi si è fatto uomo tra questi vecchi carruggi. Caffè?-, e mi lasciò con le mani unte e la farinata a metà.

Arrivammo in questura che erano passate le tre. Entrai nel mio ufficio e vidi sul tavolo una carpetta beige con scritto il numero di fascicolo del caso di Mohammed e una grande scritta che diceva TABULATI.
-Levratto!
-Antonio, proprio non sai stare senza di me.-, disse il mio ispettore da dietro la porta. Vedevo solo la grossa pancia coperta dal gilet azzurro.
-Levratto, cosa diavolo hai detto alla scientifica?
-Di farci avere i tabulati quanto prima.
-E?
-E basta.
-Sei una belina, Levratto.
-Anto’, ho le mie armi e i miei segreti. Se ti insegno tutto poi mi mandi a fare le multe in Piazza Dante.
-Facciamo che sorvolo. Senti scartabella un po’ e vedi se nelle 24 ore prima della morte qualcuno ha scritto o telefonato a questo povero disgraziato.
-Allora, allora: eccoci. Guarda qua.
Era un sms inviatogli la sera prima del decesso: “Vediamoci alle 23:00 in Piazza dei Giustiniani. Spiccio”. Luogo del delitto. Poche ore prima della morte. Un campanello d’allarme si accese nella mia mente e mi diceva di andarci piano. Levratto dovette capirlo e mi sorrise.
-Vedo che impari.
-Levratto, sono il capo, cazzo!
Mi scrutò dal basso dei suoi occhialetti da lettura, con quelle palle azzurre che erano fin troppo belle per appartenere a un uomo tanto brutto e burbero.
-Vabbè v.i.c.e. q.u.e.s.t.o.r.e. mi metto a cercare sto Spiccio, va. Anzi sai che ti dico, lo chiamo sto povero disgraziato.
-Aspetta, Levratto, hai detto Spiccio?
-Sì, perché? Lo conosci?
-Non io, forse però un vecchio amico sì.
-E chi di grazia?
-Mai sentito il nome di Andrea Pagani?
-Quell’Andrea Pagani? Quello del commissariato di Pré?
-Quello. Se non sbaglio uno dei suoi informatori più utili si chiama proprio Spiccio. Uno spacciatore da quattro soldi, uno dei tanti insomma. Ma un bravo ragazzo. Dammi il numero di sto povero disgraziato.
Levratto mi trascrisse un numero su un post-it e me lo passò. Si sedette di fronte a me e in barba alle norme sul fumo si accese una Camel Light. Lui era così, uno sbirro giustizialista, ma che su alcuni punti sgarrava alla grande, a partire dalla cintura di sicurezza che non indossava mai, neanche sull’auto di servizio.
Parlai con Andrea Pagani giusto pochi minuti: il nostro Spiccio ed il suo erano la stessa persona. Ci organizzò un appuntamento per quello stesso giorno, alle sei, al Bar degli Aperitivi vicino a Piazza della Vittoria, in via Brigata Liguria.

Arrivai al bar con mezz’ora d’anticipo e ordinai un negroni. Tirai fuori il quaderno degli appunti e iniziai a rileggere per fare ordine. Da una parte una cooperativa che, a dirla tutta, puzzava di losco distante un miglio e, dall’altra, un povero cristo che magari aveva ammazzato per cinque euro in croce. Quale il nesso? Qualcosa mi sfuggiva e non sapevo dove andarlo a rincorrere. Come se non bastasse, verso le 16 mi aveva chiamato la Lupo, il Pm incaricato dell’inchiesta, per darmi appuntamento per l’indomani mattina nel suo ufficio in Procura. Voleva sapere come andava e si raccomandava di arrivare con qualcosa tra le mani, ché il Secolo stava già dando al fatto troppa copertura. Insomma, il cadavere di Mohammed era ancora caldo e già si voleva chiudere il caso, possibilmente senza rompere il belino a nessun mafioso di quelli che controllano il giro della prostituzione e della droga nei vicoli e, magari, facendola passare per un storia tra extra-comunitari. Con l’olio del razzismo l’insalata della demagogia è sempre più saporita. Anche per questa ragione questo Spiccio che stavo per conoscere mi faceva già simpatia, io l’avevo assolto in cuor mio e, anche se non lo sapeva, in quella storia ero il suo migliore amico. Ché, se il caso fosse finito sulla scrivania di qualche collega più prevenuto del sottoscritto, stava già in carcere e la questione era risolta. Era il prototipo del disgraziato, del poveraccio da sacrificare e dare in pasto ai pescecani di istituzioni, stampa e reti sociali.
Mentre stavo ingollando il secondo sorso di negroni sentì una presenza avvicinarsi: un uomo alto, dai capelli grigi e gli occhi acquosi: un’espressione malinconica arricchita da un sorriso beffardo, quasi impertinente. Mi guardava fisso e quasi mi metteva in soggezione.
-Posso sedermi, vice questore?-, mi disse con voce cavernosa e un’evidente cocina genovese. Avevo l’impressione di averlo già visto. E proprio quando stavo per riconoscerlo e stavo per chiedergli che diavolo poteva mai volere da me, si presentò:
-Forse lei non mi conosce, sono Marco Frilli, sa, il papà dei Fratelli, l’editore.-, mi allungò una mano, aveva una presa forte, sicura, di uno che sa il fatto suo.
-Signor Frilli, forse si stupirà, ma quello meravigliato sono io. Lei che mi conosce?
-Belin, Libeccio, uno che fa il mio mestiere deve pur nutrire un certo gusto feticcio per la nera. E tu sei sempre in prima pagina sul Secolo.
-Ma che dice, Frilli, sarà successo un paio di volte.
-Aspetti qualcuno, Libeccio?
-Sì, un certo Spiccio, un informatore, per il caso del ragazzo trovato morto in piazza dei Giustiniani.
-Ho letto il fatto sul giornale. Ma quello Spiccio lì? Quello di Pagani?
-Proprio quello, vedo che lo conosce bene.
-È un po’ come se l’avessi visto nascere, e anche quel suo amico, Pagani. Un brav’uomo.
-Secondo lei mi posso fidare, Frilli?
-Questo devi valutarlo tu, vice questore. Ora ti lascio, vado a prendere il mio nipotino alla scuola calcio. Stammi bene Libeccio.-, e si alzò uscendo dal locale, sparendo nell’aria quasi afosa di quel pomeriggio di mezza estate.
Alle 18 in punto un segaligno alto quasi due metri, nero come il carbone e magro da far spavento entrò nel bar. Era vestito con un paio di jeans di qualche taglia più grande, una maglietta a manica corta bianca e aveva un cappello da baseball in testa. Ma la prima cosa che notai era che non aveva il mignolo della mano destra. Un particolare che mi aveva segnalato anche Pagani con una certa ironia quando gli chiesi come l’avrei riconosciuto: “tralasciando il fatto che è color carbone e alto un chilometro? Non ha il mignolo della destra”.
Si avvicinò al mio tavolo ciondolando:
-Sei il vice Libeccio?-, mi chiese con un marcato accento genovese.
-E tu sei Spiccio?-, assentì e si sedette.
-Mi ha detto Andrea che vuoi vedermi. Da qualche anno voi sbirri avete una gran voglia di parlare con me.
-Cosa prendi?
-Un’acqua tonica, ghiaccio e limone.
Ordinai per lui e mi feci portare un secondo negroni.
-Allora cosa vuoi?-, chiese a bruciapelo mentre sorseggiava la tonica. Parlava un italiano quasi perfetto, l’accento francese era solo un’eco in lontananza e la cocina genovese aveva preso il sopravvento. Un esempio raro di integrazione linguistica.
-Conosci Mohammed?
-Quello che hanno trovato morto questa mattina?
-Esatto.
-Di vista, si rifornisce da me ogni tanto.
-E? Spiccio sai dove voglio arrivare.-, dissi scoglionato, perché iniziava a stufarmi quella sua aria sfacciatamente tranquilla e capii perfettamente il senso di quel “in bocca al lupo” che mi disse Pagani quando chiudemmo la telefonata.
-Calmati, Libeccio. Ieri sera ho mandato un messaggio a Mohammed. Mi doveva dei soldi, niente di grave, e dovevamo vederci. Poi però non sono potuto andare e non se ne è fatto nulla.
-E Abdul, della cooperativa “Insieme si può” lo conosci?
-Di nome, ma non so molto di più.
-Errore. Sappiamo.
-Ah.-, e non disse parola per quasi due minuti. Abdul non era schedato e da parte nostra era solo un sorvegliato speciale. Non avevamo prove per incastrarlo, anche se gli indizi erano forti. E poi l’obiettivo è sempre quello di arrivare in cima alla piramide, mentre questo aveva più l’aria del bullo di periferia.
-Belin, vice-, riprese Spiccio. -Mi hai sorpreso. Dalle parti di Andrea non siete così svegli. Abdul è il mio grossista, ma non sono io un suo picciotto. Con lui lavoro come indipendente. Compro la roba e la rivendo al prezzo che voglio. Questo trattamento lo riserva ai venditori africani. Ma non chiedermi prove o di farti arrivare a lui, altrimenti sono morto dopodomani.
-Non ti preoccupare Spiccio, non voglio rovinarti l’esistenza più di quanto non lo sia già. E la sua donna, Ludovica, sa qualcosa?
-Una ingenua. Non sa nulla dei traffici di droga del suo ragazzo.
-Sapevi che se la faceva con Mohammed?
-Tutti lo sapevano, anche Abdul. Ma lui se ne fotteva, perché il suo obiettivo è sposarla e ottenere la nazionalità. Non mi dire che stai pensando che lui sia il mandante e io il sicario? Belin Libeccio ti facevo più furbo! E il bello è che vicino a te hai una vecchia volpe come Levratto…
-Spiccio: o la smetti di tirarmi il belino o di ragioni per farti arrestare adesso ne ho fin troppe.-, dissi a bruciapelo. Mi ero stancato delle sue provocazioni e poi aveva ragione: anche se non volevo ammetterlo stavo seguendo quella pista, per pararmi il culo con la Lupo e darle una soluzione semplice. Si irrigidì, trangugiò l’ultimo sorso di tonica e, prima di alzarsi, mi disse:
-Per Mohammed, Ludovica era un passatempo e viceversa. Cercate un’altra donna, si chiama Lidia e porta una minigonna blu. Tutti i giorni. In Piazza di Pellicceria.
Se ne andò, lasciandomi con quell’ultima rivelazione che mi sarei guardato ben dal rivelare alla dottoressa Lupo. Ordinai il terzo negroni della serata: prima di tornare a casa avevo bisogno di riordinare la mente e magari aprirmi definitivamente lo stomaco e l’animo a una ciucca colossale. Rilessi gli appunti per l’ennesima volta e già presentivo che da quel caso non ne sarebbe uscito nulla di buono. Non avevo raccolto una prova che portasse a qualcosa; avevo una pista suggerita da un pusher che di secondo lavoro faceva l’informatore per un collega e nient’altro. La storia dell’omicidio passionale era ridicola e poi c’era quel dettaglio del colpo di pistola avvenuto dopo la mazzata sul collo. Un morto è un morto e una bastonata data in quel modo non lascia scampo a dubbi. E poi per finire un uomo si spara alla testa, non alla femorale. Qualcosa non tornava. Scolai l’ultimo sorso di negroni, pagai e andai a recuperare la mia 883 per tornare a casa, ordinare un paio di pizze e scolarmi una bottiglia di Rosso di Montalcino, con la speranza che la mia ex moglie mi richiamasse e, quindi, poterla mandare a cagare da ubriaco, che mi riesce sempre meglio che da sobrio.

Via Isonzo stava lentamente cadendo nella notte estiva. Dall’imboccatura di Corso Europa la strada scendeva diritta come un fuso fino quasi a toccare il mare. Ai suoi lati si alternavano palazzine d’inizio Novecento ed edifici di edilizia popolare, come quello in cui vivevo io. A metà circa della sua lunghezza Piazza Ragazzi del ’99 con il mercato a fare da cuore pulsante di un intero rione, Sturla. Il sole del tramonto filtrava la sua luce color albicocca tra i palazzi e i raggi rimbalzavano sui vetri del grattacielo della Carige in un gioco di luce quasi gradevole. Parcheggiai la 883 davanti al portone e mentre salivo in ascensore ordinai una margherita e una quattro stagioni a una pizzeria d’asporto di Borgoratti. Nel tempo che impiegarono a portarmi le pizze mi feci una doccia bollente e stappai la bottiglia di vino. Estrassi un calice dalla credenza e misi in tavola con tutta la cura possibile. Mi sentivo solo come un cane e avevo bisogno di coccolarmi. Non misi musica, ma accesi la televisione e scelsi un film, Manhattan di Woody Allen. Lo conoscevo a memoria, ma ogni tanto avevo bisogno di rivederlo: mi capitava sempre nei momenti in cui sentivo il bisogno di avere vicino un vecchio amico, uno di quelli che ti conoscono da così tanto tempo che ti basta parlare in silenzio. È sufficiente la sua presenza e una bottiglia di vino da condividere per sciacquare via malinconia e nostalgie di un passato che non ritorna. Dimenticare. Avevo bisogno di dimenticare. La mia ex moglie, mio figlio che non vedevo da due anni, la telefonata di quella mattina, il caso, la questura, Levratto, tutto. Dimenticare e ricordare: la fine degli anni ’80, le prime partite a Marassi nei distinti e poi in curva. Il Genoa di Bagnoli. I pranzi della domenica. I sabati sera in riva al mare a bere, parlare e aspettare pigramente che la notte diventasse giorno, che il sole arrivasse a illuminare le calme acque del Mediterraneo e a scandire il tempo delle nostre beate esistenze di adolescenti del Primo mondo. La mia prima ragazza, il primo bacio e la prima notte d’amore. Quegli occhi color mare in cui mi persi quando avevo a malapena vent’anni. Dimenticare e ricordare: avevo bisogno di una serata di ossimori, sola e affollata, malinconica e scherzosa, perso lo sguardo nel fondo del bicchiere macchiato di rosso. E l’imperfezione di un’immagine in bianco e nero: Woody Allen e Diane Keaton sulla riva del fiume Hudson. Quante volte tentai di rivivere quella scena seduto in riva al mare, sulla passeggiata di Nervi. Quante volte l’ho immaginata e non l’ho vissuta. E quante volte l’ho inconsapevolmente vissuta senza rendermi conto che quello, quello, era il momento. Antonio Libeccio, vice questore, sei un fallito della vita, un sognatore che non riesce a fare di meglio che ubriacarsi da solo e cuocere nel minestrone confuso della tua incurabile malinconia.
Mi alzai dal divano che era l’una del mattino. Avevo divorato le due pizze e mi ero scolato la bottiglia di Rosso. Il film era ormai finito da tempo e mi ero rincoglionito di fronte a un programma sportivo su un canale locale. Chiusi con un bicchiere di Lagavulin e me ne andai a dormire. Prima passai per il bagno, mi lavai i denti e mi fissai nello specchio. Feci conca con le mani sotto l’acqua gelida e mi sciacquai la faccia. Quando tornai a guardarmi allo specchio sorrisi e riconobbi il guerriero: “Sono pronto per la Lupo. Andiamoci a prendere anche questa verità”.

Uscii dalla Procura di Genova che erano quasi le undici. Misi in moto la 883 e andai diretto in questura: Levratto mi stava aspettando per rivedere i tabulati e cercare tracce di questa Lidia, sempre che Spiccio non mi avesse mentito.
-Cazzo ci fai seduto al mio posto, Levratto.-, dissi entrando nel mio ufficio e vedendo il mio ispettore più anziano ed esperto comodamente sdraiato sulla mia poltrona.
-Leggo i tabulati, che altro?-, mi rispose con assoluta noncuranza, come se fosse la cosa più logica e normale di questo mondo. Decisi di far finta di niente e posai il casco sulla scrivania invasa da cartelle e cartellette.
-Trovato qualcosa?
-Come hai detto che si chiamava la tizia?
-Lidia.
-Mmmm…-, mugulò tenendo in una mano i tabulati e nell’altra il cellulare di Mohammed. Quando faceva così non lo sopportavo, mi lasciava sulle spine e non diceva nulla, come se si divertisse a vedermi che pendevo dalle sue labbra.
-Come è andata dal Pm?
-Cosa?
-Com’è andata dal Pm?-, ripeté senza sollevare lo sguardo.
-Stai scherzando, vero?-, dissi con tono alterato. Alzò appena gli occhi e sibilò: -Ho l’aria di uno che ama scherzare?
No, non ce l’aveva. Stava lavorando e per farmi stare calmo aveva deciso che dovevo raccontargli com’era andata con la Lupo.
-Te lo dico a pranzo. Allora?
-Eccoci. Sì, quello Spiccio è una buona fonte. Pagani è un poliziotto fortunato, informatori come questo pensavo non ce ne fossero più.
-Che vuoi dire?
-Ecco.-, disse posando i fogli e il cellulare sul tavolo.
-Vedi questo numero?-, indicò una serie numerica che aveva l’aria di appartenere a un cellulare. Assentii.
-Ecco, questo numero, nella rubrica dei contatti di Mohammed è registrato come Lidia. E da questo numero hanno chiamato la vittima giusto 2 ore prima che le facessero la festa.
Lo fissai e dissi: -Ti va un giro alla Maddalena?-, mi sorrise, si alzò in piedi e uscì dal mio ufficio.

-Ho chiamato Mohammed per avvertirlo.-, così esordì Lidia, antilope africana di quasi un metro e ottanta che batteva la Piazza di Pellicceria con indosso un vestito corto blu. Dovetti fingermi cliente per poterle parlare. Quando le mostrai il distintivo riuscì a mantenere la calma quel tanto che bastava per farmi capire che il suo pappone era nei paraggi e che era meglio fingere che volevo usufruire dei suoi servizi. Non dovetti neanche pronunciare il nome di Mohammed, era come se mi stesse aspettando. Nera come il carbone, con gli occhi verdi, ultimo strascico di quella nonna italiana di cui portava il nome. Il viso era magnetico e le forme del suo corpo incredibilmente perfette. Dava l’idea di potersi rompere da un momento all’altro, una bellezza fragile e invadente. Una miniera d’oro per i suoi sfruttatori. Salimmo al terzo piano di una palazzina di via della Posta Vecchia: scale in ardesia strette e ripide e una piccola porta verde che dava su un ballatoio traballante.
-Avvertirlo di cosa?
-Che lo stavano cercando.
-Chi?-, abbassò lo sguardo e non mi rispose. Capii che aveva paura e che temeva che qualcuno potesse ascoltarci. Finsi di fare il cliente e iniziai a spogliarmi avendo cura di non togliermi i boxer. Lei intuì la mie intenzioni e si abbasso la parte alta del vestito lasciando scoperto il piccolo seno color carbone.
-Mettiamo un po’ di musica?-, proposi e mi sedetti in una posizione in cui potevo controllare tutto l’angusto monolocale in cui Lidia lavorava. Si sedette a cavalcioni su di me dopo aver messo un disco di Thelonious Monk. Mi sorprese, se ne intendeva di jazz.
-Allora ora ci muoviamo come se stessimo facendo sesso. La musica copre le nostre voci. Hai paura ci siano cimici?
Lei assentì e iniziò a muovere le anche. Io ero sicuro che, oltre alle cimici, da qualche parte c’era anche una telecamera. Ma non avevo tempo di cercare e non volevo metterla nei guai oltre quello che l’avevo già messa.
-Come hai conosciuto Mohammed?
-In viaggio. Lui sbarcò a Lampedusa poche ore prima di me. Ci caricarono sullo stesso treno destinati a Genova. Qui ci hanno sbattuti per strada e via ad arrangiarci. Lui riuscì ad entrare in cooperativa, ma prima dovette spacciare per guadagnarsi da vivere. Io, invece…-, si fermò un secondo e abbassò lo sguardo invitandomi a guardare il suo corpo, come se fosse un destino già scritto.
-Perché?-, chiesi sperando che cogliesse dove era diretta questa domanda.
-Perché questo è meglio della fame, la guerra e gli stupri di gruppo. Sai cosa vuol dire essere rapita per due giorni da un gruppo di 10 soldati carichi di anfetamine eccitanti? Quando mi abbandonarono in un campo isolato e camminai ore per trovare la via di casa decisi che me ne sarei andata, che questo sarebbe stato comunque meglio.
-Lui sapeva che eri finita a fare questo?
-Sì. Ma non sapeva chi mi ci aveva messo, in mezzo alla strada.
-In che senso?
-Nel senso che la leggenda vuole che prostituzione e droga siano gestite da due organizzazioni diverse e alleate, come se si fossero spartite il mercato.
-Ok. Ho capito. Mohammed non sapeva che in realtà la cupola è la stessa.
-Non solo questo, c’è dell’altro.
-Cosa?-, a questo punto mi venne un presentimento. Non un’illuminazione perché tutto era comunque offuscato da una nebbia grigia e sottile, di quelle che non ti permettono di distinguere i confini delle cose. E io ero nato a Genova, dove la nebbia non c’è mai e non ero abituato a guidare in quel grigiore.
-Non so se posso dirtelo.
-Fammici arrivare.
-Ok. Sei stato alla cooperativa?
-Sì. Ho parlato con Ludovica.
-Bene. Ma lei non sa nulla, lei è la faccia buona.
-Abdul?-, non rispose e finse un orgasmo. Capii che il nostro tempo era finito e finsi anche io. Si coprì il seno, le pagai la tariffa e me ne andai. Quando ero sulla porta mi bisbigliò un “grazie” che mi bloccò. Le chiesi il perché, in fondo stavo facendo il mio lavoro:
-Perché non ti sei eccitato e non hai perso la testa. Tua moglie deve essere una donna fortunata.
-Già.-, e scesi le scale trattenendo a stento: “peccato che se lo sia dimenticato”.

Levratto mi aspettava davanti a Palazzo Spinola.
-Allora?-, mi chiese impaziente
-Avevi ragione Levratto. La passione non c’entra un belino.
-E quell’Abdul?
-C’è dentro fino al collo.
-Prove?
-Nessuna. Ma non m’importa.
-Cosa vuoi dire?
-Che quelli come lui se la scampano. Voglio sapere la verità: se potrò provarla bene, altrimenti me ne frego. Conta solo che scopra perché l’ha ammazzato.
-Bravo ragazzo, stai imparando il mestiere. Peccato che se questa è la via che prendi, ti aspetta una vita difficile, di sofferenza e passione.
-Sai che amo le sfide.
-Già.-, disse distratto toccandosi la barba appena incolta. -Ti va di mangiare? Qui dobbiamo capire come muoverci e penso meglio con un bel piatto di troffie al pesto sotto il naso.
-Sei incorreggibile, Levratto. Andiamo alla Locanda del Grillo che è qui dietro.

Alle cinque del pomeriggio ero sulla porta della cooperativa. Durante il pranzo avevamo deciso che l’unico modo per arrivare alla verità era mentire e affrontare a muso duro Abdul. Prima però avevo bisogno di alcune informazioni supplementari da Lidia. Mandai Levratto al mio posto, per non dare nell’occhio, con l’incarico di chiedere quando e dove Abdul era reperibile. Ma nel momento esatto in cui il mio ispettore si avviava verso la giovane donna mi squillò il telefono.
-Vice questore Libeccio.
-Libeccio…-, una voce masticata e con un forte accento francese. -Sono Abdul. Che ne dici se ci vediamo, mi hanno detto che ti sei fatto un giretto con la bella Lidia e che ti sei pure divertito, tanto che ora l’hai consigliata a quel grassone del tuo amico Levratto.
-Cosa ti fa pensare che mi sia divertito e cosa mai vorrai offrirmi?
-Ho occhi e orecchie dappertutto, Libeccio. Ho una proposta, ultimamente mi manca un appoggio nella polizia, e potrei, diciamo, fare in modo che Lidia dorma spesso da te, nel tuo lurido appartamento di Sturla. Mi riferiscono alcuni amici comuni che l’altra metà del tuo letto è spesso vuota.
Mi aveva colto alla sprovvista, pensavo di avere un gran vantaggio su di lui e invece mi ritrovavo che lui ne sapeva abbastanza della mia vita da potermi far perdere il controllo. Tuttavia, non aveva fatto riferimento, neanche indirettamente, a Mohammed. Forse, senza volere, aveva fatto da esca.
-Dove e quando, Abdul?
-Alle 5 di oggi in cooperativa.
Entrai e mi accolse direttamente lui: un colosso di due metri per almeno 150 chili di muscoli e grasso abbastanza ben distribuiti. Rasato e con i denti bianchissimi, di un’età indefinibile. Mi fece accomodare in una stanza alla quale si accedeva con una porta fantasma che il giorno prima non avevo notato.
-Siediti Libeccio. Siediti e fammi parlare.
-Iniziamo male, Abdul. Tu sai che a noi sbirri ci piace un sacco fare domande.
-Questa volta non ti servirà.-, posò il suo pesante culo sulla poltrona in pelle nera e si accese un sigaro. Poi iniziò a parlare.
-Libeccio, so che stai indagando sulla morte di Mohammed. Mi dispiace, era un gran bravo ragazzo, ma gli affari sono affari.-, provai a inserirmi per dire la mia, ma me lo impedì: era un uomo terribilmente carismatico, il suo ego, imponente quanto la sua stazza, riempiva la stanza soffocandomi.
-Libeccio, dicevo. Quel Mohammed stava per compromettere i miei affari e non potevo permetterglielo. Dovresti ringraziarmi perché se salto io, salta il centro storico. Non sei un novellino e hai quel Levratto che ti aiuta, un vero sbirro di quelli che non ce ne sono più. Sai qual è la mia posizione. Ebbene la mia offerta è la seguente: io ti do l’assassino di Mohammed, con prove e tutto, e tu mi lasci lavorare. Se vuoi ti do la Lidia un fine settimana, così ti sfoghi e magari ti togli le mutande prima di scopare.
In realtà non sapevo nulla della sua posizione, come la definiva lui. Abdul era per me un perfetto sconosciuto e credo che in quel momento colse la mia ignoranza.
-Libeccio, mi sorprendi. Non mi dire che non hai mai sentito parlare du Neggru.
Rimasi immobile, parzialmente coperto dalla penombra e dal fumo che emetteva il sigaro du Neggru, un leggenda vivente che teneva unite le cosche che gestivano droga e prostituzione e la cui identità nessuno conosceva. Aveva ragione, u Neggru, se cadeva lui cadeva tutto il castello che manteneva un precario equilibrio pacifico nel cuore antico della città.
-Vedo che iniziamo a ragionare, Libeccio. Allora, venendo al nostro accordo. Mohammed aveva commesso un errore madornale, si era innamorato perdutamente di quella Lidia durante il viaggio verso Genova. Tanto perdutamente che, quando ha scoperto che il suo capo, io, e il capo di Lidia, io, sono la stessa persona, s’infuriò e iniziò a perdere il controllo. Inizialmente, però, riuscivamo a mantenerlo calmo, anche perché è un trafficante sopraffino, un vero mercante. Poi però, un giorno, qualcuno gli spifferò che settimanalmente la bella Lidia viene a bagnarsi la bocca da queste parti, perché sai voglio sempre essere sicuro di offrire il meglio ai miei illustri clienti, Libeccio.-, piantò i suoi occhi neri nei miei e sul viso gli si dipinse un sorriso beffardo. Sapeva di avermi in pugno: non avevo registratori con me, mi aveva fatto perquisire all’entrata e mi avevano tolto il cellulare. Rimasi immobile e in silenzio, volevo vedere fin dove sarebbe arrivato.
-Mohammed quindi perse il controllo definitivamente.-, continuò, -e chiamò un suo vecchio amico, Spiccio, uno dei miei migliori pusher, chiedendogli di andare dallo sbirro amico suo e tuo, quel Pagani, per metterlo sulle tracce du Neggru. Peccato che questi vicoli non siano molto discreti e qualcuno li ha sentiti.-, si alzò, fece il giro del tavolo e si sedette di fronte a me, mi sbuffò una nuvola di fumo nella faccia e continuò:
-Quindi ho preso da parte Spiccio e gli ho detto chiaro che sapevo bene che era stato assunto part-time dalla polizia e che finora le sue spiate erano costate il carcere a qualche acciughetta. Gli proposi un accordo semplice: io mi sarei dimenticato delle sue spiate, ma lui a cambio avrebbe fatto fuori quella mezza calzetta di Mohammed.
-La prova?
Rise rumorosamente e con soddisfazione perché si era convinto di avermi incastrato. Ritornò a mettere il suo pesante culo sulla poltrona in pelle ed estrasse da un cassetto una pistola.
-Prendila, ci sono le impronte di Spiccio. È l’arma che ha sparato il colpo alla femorale, la perizia balistica confermerà.
La presi e l’avvolsi nel fazzoletto di stoffa che portavo sempre con me.
-È tutto?
-Aspetta.-, premette un bottone e in pochi secondi entrò una giovane africana seminuda con un vassoio su cui giacevano una bottiglia di champagne e due calici. Riempì i flute e me ne porse uno per brindare. Lo guardai fisso negli occhi e presi in mano il bicchiere. Senza distogliere lo sguardo ne versai il prezioso contenuto sul tavolo in radica e mi alzai per andarmene. U Neggru rideva sonoramente e continuava a ripetere il mio cognome. Prima di aprire la porta mi fermai un secondo e, quando la sua voce grassa finì di pronunciare la parola libeccio come un’ossessiva litania, dissi:
-Un particolare, Neggru: a quanto pare a uccidere Mohammed non è stato un colpo di pistola, ma una mazzata sul collo, data dall’altro verso il basso, con qualcosa di fino ma di materiale molto resistente.-, vicino alla porta, in bacheca e in bella vista, stava un bastone da golf.
-Bella questa mazza-, dissi e mi allontanai mentre la sua risata si soffocava tra le lettere di un “bastardo” detto tra i denti.

Quando finalmente ero di nuovo per strada chiamai Spiccio:
-Spiccio, dimmi una cosa, sei stato tu?
-Ha visto u Neggru, eh vice questore? No, Libeccio, non sono stato io.
-Dove sei adesso?
-Sto andando da Pagani.
-Per quale ragione?
-Diciamo per regalargli la rete con cui pescare il tonno nero.
Sorrisi e chiusi il telefono. Dopo due ore, mentre stavo andando in Procura dalla Lupo con Levratto, mi chiamò Pagani:
-Libeccio.
-Pagani, cosa vuoi?
-Vuoi sapere la verità su Mohammed?
-Il colpevole?
-Non abbiamo prove, ma abbiamo la verità. La vuoi?
-Le prove non m’interessano. Posso portare Levratto?
-Ti aspetto qui tra mezz’ora.

Quando le campane della chiesa della Maddalena suonavano le sette di sera, mi presentai in Piazza di Pellicceria. Lidia stava aspettando i suoi clienti, mi vide e un lampo di terrore le si dipinse sul volto. Aveva un polso fasciato e un piccolo taglio vicino al labbro inferiore. Mi avvicinai e le lasciai cadere nella borsetta un biglietto da visita su cui avevo scritto a penna l’indirizzo di casa di mia sorella e il mio numero di telefono.


Una risposta a “"Il tonno nero. Un caso per Antonio Libeccio" di Alessio Piras”

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