“Incidenti di percorso (e non solo)” di Alessandro Reali


Non doveva succedere. Non in quel modo, almeno.
Avesse potuto portare indietro le lancette dell’orologio… fare un’altra strada… non importa che nessuno fosse al corrente, lo sapeva lui, lo sapeva…
Riprese a camminare diretto verso Piazza Ducale sotto la pioggia. Alzò il bavero del Burberry e calcò per bene in testa il cappello a tesa larga.
Attorno a lui donne che facevano la spesa con le borse di plastica strapiene e ambulanti che proponevano le loro merci o chiedevano l’elemosina.
Li odiava, tutti, donne e uomini, bianchi e neri, senza distinzione.
Accese una sigaretta. La testa gli scoppiava e la gola era una fornace ardente.
Controllò il telefono.
Nessuna chiamata.
Doveva finire così? Più o meno finiscono tutti così…
Il matrimonio, suo figlio, le risate, i funerali, le partite, i pomeriggi al cinema, le furibonde litigate notturne e gli amplessi.
Amava ancora Lucia? No, non si amavano più da tempo ma era doloroso e frustrante lo stesso. Nella nostra società, pensò, non è mai l’amore a fare la differenza, sono le strutture, le convenzioni, il lavoro…
Attraversò a capo chino la manifestazione oganizzata in piazza. Cartelli e bandiere sotto il cielo uggioso. Ragazzi, i cosidetti precari, dalle facce irridenti, capaci almeno di sbeffeggiare una classe dirigente che cercava, in ogni modo, di avvilire la loro dignità.
Lui detestava i ragazzi; e più li detestava più provava invidia per le loro facce, gli zainetti, i tatuaggi, i capelli, i cuori che battevano, tra un sefie e l’altro.

La speranza, lui, l’aveva esaurita da tempo. Gli restava la sopravvivenza, il trascinarsi in ufficio, la resa definitiva per non essere riuscito neppure a rendere ascoltabile una, almeno una, delle canzoni che si era ostinato a scrivere con gli amici di sempre, quando sognavano ancora di sfondare con la musica.
Gli ostinati fallimenti adolescenziali ripetuti all’infinito, roba da piangere, alla sua età.
Sarebbe tornato volentieri a casa per infilare la testa sotto il cuscino e spegnere il mondo. Clic, ed è tutto buio. Riavvolgere il nastro, tornare indietro di qualche anno, come in quei sogni orrendi che, quando ti svegli, ringrazi Dio che erano solo sogni. Ritrovare senza gioia il corpo caldo di sua moglie, nuda, quando la domenica mattina allungava la mano e carezzava il suo sesso duro per placarne l’eccitazione. L’odore famigliare della cucina, Il latte e biscotti, il ronfare del gatto, il sonno profondo di suo figlio Roberto.
Cos’erano diventati lui e Lucia? Due estranei o solo due opportunisti falliti che avevano smarrito l’essenza del loro amore?
Di tutti gli amori, pensò entrando nel bar di Cristina, in via del Popolo. Tutti gli amori ciechi che illudono e fanno sputare sangue, prima di fossilizzarsi ognuno nel proprio egoismo.
“Ciao Corrado” disse Cristina, alzando il naso dal quotidiano.
“Ciao Cris” rispose lui, osservando quanto fosse cambiata, anche lei, dai tempi in cui andavano a scuola insieme. Allora era più magra e alternativa. Si diceva così di quelle intelligenti: le intellettuali – pensava con una punta di acidità Corrado – diventate con gli anni sofisticate ribelli da salotto che piangono sui dolori del mondo senza mollare d’una virgola i loro privilegi.
E lui? Chi era, a quei tempi?
E adesso, cosa era diventato?
Adesso Cristina aveva cinquant’anni e si lamentava in continuazione del marito che la teneva inchiodata al bar, pur sapendo che lei amava i viaggi, l’arte e la poesia, mentre lui aveva in testa solo il lavoro, le auto veloci e le serate con gli amici, possibilmente senza mogli…
“Un caffè e una grappa” disse Corrado
“Non è un po’ presto per la grappa? Hai una faccia, ragazzo”
“Ho passato una notte orrenda”
“Cosa ti è successo ?”
Non rispose. Non subito…
C’era un’ombra sulla strada, la notte prima. Lui era ubriaco e guidava come un pazzo. Aveva sentito un suono sordo contro il cofano, aveva frenato ma poi, poi era fuggito, scappato come un vigliacco: tanti anni di bei discorsi sul senso di responsabilità e invece, alla prima occasione, la fuga…
Gli occhi si gonfiarono di lacrime, si voltò a guardare la via oltre il vetro, la pioggia torrenziale… Che bello, pensò, trovare il coraggio di smetterla davvero con tutto e sparire in silenzio, senza dire niente a nessuno, per sempre. Dimenticare e dimenticarsi. Ricacciò le lacrime e si girò a guardare la vecchia amica ricordando, per un attimo, quando la baciava sotto i portici di Piazza Ducale. Era bella. Erano belli, o forse era soltanto la sua codardia a migliorare un passato banale, come quello di molti.
“Tra me e Lucia è finita. Me ne sono andato di casa” disse, dopo il caffè bollente, attaccando subito il grappino.
“E tuo figlio?” chiese Cristina, istantanea.
Ma perchè tutti pensano subito ai figli? Si chiese.
Forse è un modo per sembrare persone accettabili, si rispose.
“Sta su Facebook”
“Anche mia figlia ci passa le notti, ai nostri tempi …”
“No, ti prego, non dire ai nostri tempi”
“Nervosetto eh? Peggio di mio marito: ma lui evita di parlarmi, sgomma in fretta, appena può… stiamo bene economicamente, lui è un gran lavoratore e gli basta, per cui se ne frega se io leggo, mi incazzo e ho ancora voglia di protestare contro le ingiustizie del mondo: mi ignora, non solo a letto, lo so, dovrei farmi un amante, come la Micaela che si scopa il suo medico, te la ricordi, la Micaela?
Corrado sbadigliò.
“Io faccio schifo, Cris. Ieri notte mi sono ubriacato e ho picchiato Lucia. Due sberle, forti, sulla bocca. La prima volta e l’ultima, spero, in 17 anni” disse Corrado.

Lasciò cinque euro sul banco e uscì. Accese un sigaretta e riprese a camminare, senza fretta, lasciandosi andare sotto la pioggia.
Giunto di fronte all’Ufficio di Polizia Municipale gettò la sigaretta e mise il piede umido sul primo gradino di marmo, indugiando su crepe e insenature percorse da rigagnoli d’acqua scura. Avrebbe voluto restare lì per sempre, fermare il tempo, smettere di agire: osservare il bianco e il grigio dei gradini e l’acqua che correva via.
Una segretaria gli sorrise. Lui fece un cenno, poi si rivolse al vigile presente, con l’aria di chi sta per togliersi di dosso un peso enorme.
“Questa notte, fuori Belcreda in direzione Vigevano, deve esserci stato un incidente” disse.
Il vigile lo squadrò seriamente, poi disse:
“Si, è stata investita una ragazza nigeriana. L’hanno ricoverata al Beato Matteo, pare che stia bene. Lei… E’ stato lei, vero?”.
Corrado si afflosciò sulla sedia accanto. Era fradicio, percorso da brividi.
“Allora, mi dica, come si chiama?”.
Corrado si sciolse in una risata liberatoria, pensò di non avere ucciso nessuno e poi, poi pensò a sua moglie come un capitolo chiuso, a suo figlio che si stava allontanando, a suo padre che, sbagliando, aveva visto in lui grandi qualità, agli amici che, senza una ragione precisa, aveva perso di vista, a tutto quello che si era lasciato diventare senza fare niente per…
“ Io non ci trovo proprio niente da ridere, sa? ” disse il vigile pensando: ma guarda ‘sto scemo!


Lascia un commento