"La cascina" di Pier Emilio Castoldi


 

«Saranno quarant’anni che non capito più da queste parti… e qui sembra non essere cambiato proprio nulla.»
Lumò il vetro del finestrino a fianco opacizzato dall’umido di una pioggia incalzante.
Il tergiscristalli raschiò un singhiozzante stridìo sul vetro del parabrezza ritagliandogli davanti, una fetta semicircolare di panorama e la stretta strada dissestata.
«Del resto… in questo pserduto angolo di mondo… uno ci viene solo se lo decide di proposito.»
Rallentò, con la scusa di cercare una sigaretta nel cruscotto, accostandosi al ciglio della carreggiata. La freccia direzionale lanciò bagliori arancio in un’atmosfera viola e lo scroscio tempestò sulla capotta sormontando il basso volume dell’autoradio. Pink Floyd.
«Poi guarda che sfiga… quando decido di ritornare alle radici… cristo che giornata maledetta!… proprio un tempo da schifo.»
L’abitacolo si appannò del fumo della Camel.
«Buon per le risaie, forse…» commentò «se ancora ce ne sono….»
Spalancò leggermente la portiera cercando con la sinistra l’ombrello sul sedile posteriore.
Uscì, ritto in piedi, al riparo del miserabile scampolo in nylon che ribaltò alla prima folata di vento, lasciandolo come un allocco sotto il diluvio.
Si ritrovò fradicio e felice. Col cuore gonfio di chi sta calpestando un suolo familiare che non calcava da quasi mezzo secolo. Fradicio e felice come chi si ritaglia, nella frenetica vita quotidiana un giorno intero di macchine indietro tutta, un ritorno all’infanzia, uno scampolo da Peter Pan. Come chi rievoca con nostalgica memoria vecchi flashback.
«Porca vacca se son tanti… un millennio… ma qui non è cambiato niente.»
La pioggia imbiondì la carta della sigaretta e spense il mozzicone.
Si mosse due passi oltre il bordo della carrareccia, sfiorando il paracarri di granito.
«Quante volte l’ho sorpassato pedalando come un forsennato in bicicletta…» disse tra sé « e di campi coltivati a riso ce n’è ancora oggi… tali e quali allora…». Guardò la pioggia schizzare un’infinità di cerchi concentrici nelle vastità d’acqua melmosa, riquadrate tra un argine e l’altro.
Tony riportò la sua macera stazza di un metro e ottanta dentro l’abitacolo e si riavviò i capelli grondanti pettinandosi nello specchietto retrovisore.
«Eh… vecchio mio… allora non erano mica bianchi come quelli che hai in testa ora».
Si sistemò al posto guida e ripartì lentamente seguendo il zigzagare della strada perdersi nella foschia.

Rallentò davanti al rugginoso cancello della cascina cinque minuti più tardi, quando ormai stava spiovendo, e il barbaglìo evanescente del sole tentava di conquistarsi spazio tra frastagliate nubi grigio topo. Miriadi di minuscole gemme sferiche imperlavano le pelose foglie di un ortica e l’inselvatichito roseto abbarbicato al pilastro dell’entrata. Intorno, sullo spiazzo, larghe pozzanghere di acqua terrosa si allargavano tra la poltiglia del sentiero battuto e radi ciuffi d’erba.
Procedette fino a imboccare una gibbosa salita in sterrato e l’auto slittò sul fango sdrucciolando su di un lato.
Tony scese e si avvicinò all’accesso, costeggiando il basso muro di cinta dilavato dall’acquazzone. Provò a spiarne l’interno attraverso il foro passante della catena su di un corroso lamierino zincato e si ritrovò proiettato all’indietro di otto lustri.
«Porca putt… sarà che è tutto abbandonato… ma mica scherzavo prima …» commentò ad alta voce, stupito «ma qui… è tutto come allora… guardare oltre la cancellata è come rigirarsi tra le mani una vecchia fotografia in bianco e nero…»
Dietro ai tetti del lungo casamento in fondo al cortile, sfavillò la sagoma diafana di un arcobaleno arcuato verso l’aia in cemento. Sfrecciarono veloci radi lembi di nubi ad ombreggiare cupi giochi di luce tra le arcate della stalla e i pioppi, tingendo di lividi colori le alte sterpaglie e gli scrostati intonaci del vecchio fienile e della cappella di Santa Maria di Bagnolo. Poi, fuggite quelle, uno sfacciato sole abbagliò lo scenario della luce di mezza mattina, scaldandone l’aria.
Tony si scostò dallo spiraglio, cercando tracce di vita dalle persiane dell’edificio a lato, quando percepì con la coda dell’occhio l’accostarsi furtivo di una tendina ai vetri della finestra al piano rialzato.
«Devo avere le allucinazioni…» pensò avvicinandosi incuriosito «quand’ero ragazzino le cascine brulicavano di gente di ogni età… ma ora… ora chi vuoi mai si metta a vivere fuori dal mondo e dalle comodità per rintanarsi in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini.»
Si convinse di aver male interpretato un riflesso sui vetri o un banale colpo di vento a smuovere le ante.
«Un peccato però…» riprese tra sé «fosse rimasto davvero un eremita a far da guardia a questa desolazione… avrei potuto chiedergli di entrare per una visita…»
Ad uno dei pilastri in mattoni a vista dell’entrata si mostrava un campanello sistemato poco sotto ad una cassetta per le lettere in ferro battuto. Nel profilo in ottone ossidato il cartoncino umido della targhetta restituì un cognome scritto a stilografica, ormai indistinguibile.
Tony pigiò sul bottone dorato con un barlume speranzoso di risposta, ma dopo aver atteso qualche istante decise di ritornarsene alla vettura abbandonando l’idea di scavalcare il basso divisorio di cinta e proporsi per un avventura dai contorni infantili.
«Se mi slogo una caviglia voglio vedere come riuscirei a cavarmela per risalire…» commentò «…sarei costretto ad implorare, al cellulare, aiuto per ”un povero pirla di cinquant’anni” che si è cacciato nei guai cercando di scavalcare, da solo, un muretto… come un ragazzino di tredici».
Ritornò a sbirciare l’interno, questa volta dalla fessura tra la colonna e il cancello. Un’ultima occhiata prima di ripartire deluso. Ci ripensò.
«Ma chi se ne frega…» si convinse «qui non c’è anima viva da chissà quanti anni… faccio un salto dentro giusto il tempo di una camminata in cortile e una visita al vecchio alloggio della nonna… mi tolgo la soddisfazione, e poi me ne torno a fare il lavoro di tutti i giorni.»
Individuò sul muro l’appiglio di un paio di mattoni erosi. Poggiò le palme delle mani alla parete e infilò la punta della scarpa in una delle cavità. Si spinse verso l’alto cercando di afferrare l’estremità augurandosi di non trovarci cocci frantumati di bottiglia. I polpastrelli, invece, affondarono nello spugnoso velluto di un muschio intriso d’acqua. Inalò un acre odore boschivo. Forzò la salita con un colpo di reni e, spingendo sugli avambracci, si portò a cavalcioni del tramezzo imbrattandosi i pantaloni.
«Ma vaff… ‘và che roba…» digrignò «peggio di un neonato che se l’è fatta addosso.»
Scavalcò la seconda gamba e rimase seduto per un minuto a godersi lo spettacolo, prima di tuffarsi a piedi uniti dalla parte opposta, atterrando sui fusti rinsecchiti di un cespo di canapa selvatica.
«Eccoci pronti per l’avventura» sorrise tra sé soddisfatto cercando di spazzolarsi il retro dei calzoni « … e senza niente di rotto.»
Spaziò d’intorno prima di incamminarsi in direzione del caseggiato, rasentando il sentiero marcato dalle ruote dei mezzi agricoli.
Il cielo rabbuiò di nuovo ricominciando a piovere qualche goccia nelle piccole pozze impresse in solchi paralleli sulla terra bruna. Cercò riparo sotto la grondaia di un polveroso magazzino poco prima che un nuovo rovescio si abbattesse violento sul casale. Dalla grondaia crivellata piovve uno scroscio che lo inchiodò schiena al muro mentre il flusso d’acqua del tubo di scolo gli versava sui piedi. Smoccolò scostandosi di un passo.

«Lei dev’essere un ladro alquanto sprovveduto…» sentì pronunciare dietro sé.
Tony si voltò di scatto, sorpreso da quella voce acuta e penetrante nello stesso istante in cui notò la surreale, accecante, luminosità del sole contrastare una rabbiosa pioggia battente che rimbalzava fumante sulla tela di un enorme ombrello nero.
«…Oppure, molto più semplicemente uno stupido in vena di sciocchezze… e qualcosa mi porta a pensare che la seconda ipotesi sia quella giusta.»
Tony delineò la confusa figura di un uomo apparentemente di mezza età. Reggeva il manico del parapioggia con entrambe le mani e se ne stava fisso, immobile, con le spalle leggermente curve. Il viso immerso nella penombra impediva di distinguerne i lineamenti, lasciando intravedere solo la sagoma di una testa calva e il profilo abbondante delle orecchie. A Tony parve di percepirne il luccichio degli occhi nell’annebbiamento della pioggia. Ma fu un lampo.
«Lei ha idea di essere entrato in una proprietà privata, vero?» tornò a interrogarlo l’individuo «E di averlo fatto… diciamo così… in un modo poco urbano?»
Tony mandò giù un groppo di saliva cercando nel frattempo di avvicinarsi all’uomo.
«Ha ragione… cosa vuole che le dica?» gli rispose «… Anch’io propendo per la seconda ipotesi.»
Tony parve intuire l’accenno di un sorriso.
«Ho una scusante…» proseguì «ho provato a suonare… nessuno ha risposto e così ho pensato che fosse ormai disabitata…»
«E così ha pensato bene di autoinvitarsi.»
«In questa cascina ci ho trascorso le mie estati da ragazzino» cercò di scusarsi Tony «le passavo a casa dalla nonna… vede? Abitava laggiù… la prima laggiù in fondo… quella a fianco del portone che da sull’aia…»
Tony indicò in direzione. Il rovescio cessò in quell’attimo lasciando spazio ad un palpitante raggio di sole che lievitò una sottile bruma sul terreno. L’uomo richiuse il parapioggia.
Apparì una figura tozza, goffa, di media altezza, dal viso arrotondato e due occhi chiari e tiroidei. Un accenno di barba incolta incanutita su di una pelle cerulea e cadente. Tony ebbe conferma della calvizie grazie alla pronunciata alopecia che gli lasciava solo due ciuffi arruffati di capelli sulle tempie.
Vestiva antico. Un paio di pantaloni pied de poule con le borse sotto le ginocchia ed un gilet monocromo dal cui taschino spuntava la catenina di un orologio a cipolla.
«Questo è arcaico come la sua cascina» pensò tra sé Tony. Poi provò ad avvicinarsi all’uomo allungandogli la mano per i convenevoli.
«Mi chiamo Antonio… mi chiamano tutti Tony però» disse cercando di sdrammatizzare la situazione «la mia nonna si chiamava Maria… io allora avevo si e no una decina di anni… non so se lei ai tempi abitava già qui…»
«Abitiamo qui da generazioni… qui a Bagnolo, o come diciamo noi in dialetto… a Bàgnö» gli rispose l’uomo accettando la stretta di mano «… il mio nome è Alfredo… siamo sempre stati i proprietari della cascina e del podere intorno… io vivo lì… nella casa colonica dove lei ha suonato il campanello.»
«Beh… mio nonno ai tempi qui ci ha fatto il contadino… ma io ero piccolo…» rispose Tony «cosa vuole… allora si favoleggiava della figura del padrone… eravate un mito più che una realtà… ricordo di non aver mai visto nessuno di voi tranne quando vi si sbirciava di sfuggita a bordo della millecento nera quando uscivate per la messa la domenica…»
Alfredo rise di gusto. «Così eravamo un mito?» rispose «Lei sa che allora il padrone tuttalpiù discuteva con il fittavolo… coi mezzadri… ma mai e poi mai coi contadini… ma l’idea di esser stato un mito… questa poi!»
«Quindi non sa neppure chi fossero i mie nonni?» gli chiese scoraggiato Tony.
«Non ne ho proprio idea… dovrà scusarmi, ma questo non toglie che possa accompagnarla nella sua visita.» Gli afferrò con una mano il gomito invitandolo cortesemente a proseguire il cammino.
«Venga…» lo incitò «la porto in viaggio tra i ricordi della sua infanzia.»
«Così qui è rimasto solo lei?» gli domandò Tony incuriosito.
Alfredo tornò a sorridere divertito.
«No… per nulla» rispose « non saremo centinaia come quando lei abitava qui da ragazzino… immagino… ma qualcuno è rimasto… pochi… siamo in pochi, ma qualcuno è rimasto».
Guardò nostalgico verso il cielo. Levò di tasca una pipa e il sacchetto del tabacco iniziando una laboriosa cerimonia. Poi sfregando uno svedese sulla scatola l’accese per aspirarne un paio di boccate.
«Siamo rimasti solo noi nostalgici dei bei tempi» soffiò in aria un velo di fumo bigio «gente che fatica a modernizzarsi…»
«Guardi un po’ il vecchio Angelo laggiù.» Alfredo accennò ad una minuscola figura appena uscita dalla stalla, vestita in canottiera e braghe blu da lavoro.
«Gli vada a chiedere cosa ne pensa delle macchine per la mungitura automatica» gli disse «però veda bene di scappare prima che le rovesci addosso il secchio del latte.»
«Ma allora c’è vita anche qui in cascina?!» commentò piacevolmente sorpreso Tony.
«Lei è arrivato che diluviava, signor Antonio» rispose « tutti si erano portati al riparo, ma ora che il sole è tornato a splendere, ecco che ricominciano le quotidiane attività contadine.»
Transitò distante, oltre il fienile, un vecchio trattore arancio che tossì i suoi anni in un brontolio sordo e ritmico, lanciando in aria la nuvola densa dei gas di scarico.
Tony notò due donne anziane uscire di casa chiacchierando. Si volsero a guardarli per rigirarsi velocemente dal lato opposto. Quasi con timore accelerarono e portandosi verso un gruppo di oche iniziarono a spargere granaglie a terra, pescandole dal rigonfio del grembiule stretto a conca con la mano.
«Come vede…» replicò soddisfatto Alfredo «quella che le sembrava una vecchia cascina lomellina abbandonata… di colpo si è animata».
«Quello che vede laggiù a fianco della porcilaia, intento ad affilare la lama della falce è il vecchio Beppe» proseguì «abita in cascina addirittura da prima che io venissi al mondo… è quasi più vecchio lui delle tegole sotto le quali riposa».
Tony parve divertito dalle colorite espressioni del signor Alfredo.
«Quell’altra invece è la Desolina, la conosco bene perché ha fatto da balia a intere generazioni partendo dalla mia» rise di nuovo divertito aspirando una nuova fumata dalla pipa « e quello al suo fianco è il figlio… credo non abbia mai varcato il portone d’ingresso e che del resto del mondo abbia soltanto una vaga idea.»
Tony perlustrò, spaziando per intero in controluce, la spezzettata linea dei tetti percorrendola per tutta la teoria dei caseggiati. Nel brillio dei coppi ancora umidi, ricoperti di concrezioni di licheni, Tony notò solo alcune ripiegate aste di vecchie antenne.
«Beh… c’è da dire che al figlio della Desolina, l’idea di cosa esista fuori dalla cascina non glielo racconta sicuramente la televisione… visto che qui non si parla di avere parabole ma neppure la tecnologia di un ricevitore ritto in piedi…» commentò a suo volta ironico «mi verrebbe voglia di chiedergli se ha un cellulare… a proposito, signor Alfredo… mi auguro che almeno lei ne abbia uno…»
«Siamo gente tradizionalista noi contadini… Tony, mi creda» rispose Alfredo accigliandosi «gente che riesce ancora a vivere bene restando fuori dal vostro benessere…. il telefonino poi cade di tasca dentro nelle risaie… pluff… diciamo che siamo un po’ quaccheri nell’animo… gente che vive profondamente ancora nell’ottocento… tuttalpiù ferma agli inizi del secolo scorso».
«Venga… mi segua… le faccio vedere.» Alfredo sollecitò Tony a seguirlo.
Spalancarono il consunto portone in legno che affacciava al retro della cascina, ruotandolo sui lamentosi cardini. Traballò sfarinando a terra la polvere dei tarli.
«Guardi un po’ lì… quella è ancora una mietitrebbia dalla carrozzeria in legno… è roba del ventennio fascista per intenderci… la vede la grossa cinghia in cuoio avvolta sul volano a lato?» domandò «ecco… questa che per voi è roba da museo della civiltà contadina per noi è ancora parte della nostra quotidianità».
«Provi a dare un’occhiata lì sotto al portico» lo invitò Alfredo indicando con l’indice in direzione delle traversine del sottotetto «quelli che vede sono nidi di rondine… come probabilmente c’erano ai tempi in cui qui viveva la sua nonna…. quindi le abbiamo fatto un gran favore a mantenere tutto come allora… così… diciamo che la sua rivisitazione dell’infanzia trascorsa qui… è più realistica.»
Tony sfiorò, camminando, il vecchio ripostiglio della nonna che ricordava come il luogo prediletto dei suoi giochi.
«Le dispiace se do una sbirciata dentro?» chiese cortesemente ad Alfredo.
«Per nulla, ci mancherebbe» gli rispose l’uomo con un’intonazione bonaria.
Tony strattonò verso di sé la serratura e, dischiuso lentamente l’uscio, ne oltrepassò la soglia ritrovandosi nella stessa atmosfera dei tempi andati. Un’identica pulviscolare luminosità attraversava la stanza, come allora, entrando dall’ampia finestra a grate ad interrompere il suo cammino sulla parete di fronte, sbiancando la decrepita credenza in noce. Tutto gli parve in ordine come allora. Nulla sembrava essere stato rimosso o spostato. Neppure la vecchia latta di olio americano bisunta e appiccicosa posata sul ripiano. La cresta d’aglio riposava appesa al muro, tra l’ampia velatura di salnitro, le macchie d’umido che ne rigonfiavano l’intonaco e la disconnessa cornice del cupo ritratto di una Madonna con bambino. Ritrovò la gabbia dei conigli.
Gli parve di essere ritornato bambino guardando la scala a pioli che portava al granaio del piano superiore e si ritrovò a sognarla ad occhi aperti mentre la risaliva, in calzoncini corti e zoccoli di legno. 
Poi si accorse delle gibbosità di un polveroso telo e si avvicinò. Afferrò tra due dita un lembo provando delicatamente a scostarlo e scoprendoci sotto i telai senza ruote di due malandate biciclette sospese su dei tronchi. Lasciò cadere la stoffa che ricadde sulle canne e si guardò intorno con un aria smarrita.
«Che c’è?… La vedo deluso» gli domandò Alfredo.
«Per un attimo ho pensato di trovarci sotto lo Stornello Guzzi dello zio!» esclamò «devo proprio essermi fatto trascinare troppo dai ricordi.»
«Credo proprio di si…» gli fece eco l’uomo «altrimenti le sarebbe poi venuto da sperare di rincontrare anche la sua vecchia nonna qui a fianco nel casolare…»
«Ha ragione lei, Alfredo» rispose «sarà l’emozione… il fiume dei ricordi mi deve aver preso un po’ la mano… mi scusi sa… devo averle fatto perdere sin troppo tempo».
Tony cercò di levarsi di torno quella melensa inquietudine che sentiva salirgli dalla bocca dello stomaco. Sentì che era tempo di lasciare il bagaglio dei ricordi lì dov’era stato tutti quegli anni, salutare Alfredo e varcare il portone. Provò il bisogno fisico di scendere dallo Stornello Guzzi dello zio e risalire sulla sua auto. Ripartire lasciando lì un addio definitivo. Risolutivo.
«No… si figuri Tony… si figuri se posso mai pensare di aver perso del tempo…»
Nel tono di voce di Alfredo, Tony noto una nota malinconica, quasi sentisse ancora il bisogno della sua compagnia ma percepisse il momento del commiato.
«Lei non ha ancora compreso che qui di tempo ne abbiamo in grande quantità» concluse l’uomo «… l’accompagno all’uscita.»
Alfredo lo salutò al limitare del cancello e seguì con lo sguardo Tony mentre, salito sull’auto, chiudeva la portiera preparandosi ad avviarne il motore.
Tony si voltò un ultima volta, abbassò il finestrino e si ritrovò a fissare nuovamente la mesta espressione di Alfredo.
«Se le può far piacere posso tornare a trovarla per altre quattro chiacchiere» lo sollecitò, pur sapendo di mentire.
«Quando vuole, Tony… quando vuole» rispose «saremo tutti qui ad aspettarla.»

Tony ripartì immettendosi sulla vecchia direttrice ormai in disuso che portava in paese.
Aveva voglia di un caffè e gli mancavano le bionde per il viaggio di ritorno. L’auto si avviò lungo una strada dissestata per un paio di chilometri. Guidò lentamente su di un asfalto screpolato e divorato al ciglio da una traboccante vegetazione. Guidò cullandosi tra le buche e i lievi dossi gonfiati dalle radici che ne venavano il manto stradale.
Eccolo! Il paese, visto da lì, manteneva intatto il suo aspetto. Un profilo raccolto di case basse, contornate da frastagliati ciuffi di pioppeti ai lati, da cui spiccava, appena più alto, lo skyline della chiesa e il sottile campanile a fianco.
«San Martino… se non ricordo male» sussurrò, mentre l’auto svoltava sulla nuova provinciale che conduceva al centro abitato «tra un’attimo ci parcheggio davanti… chissà se il bar tabacchi si trova ancora in piazza?»
Posteggiò, invece, a lato dei portici delle scuole comunali e scese emozionato restandosene immobile, con le braccia sospese tra il tettuccio dell’auto e la portiera spalancata. Poi si scrollò di dosso i depressi ricordi di scolaro e delle vecchie maestre, e si diresse all’unico bar del centro.
Il campanello all’entrata tintinnò destando la curiosità degli avventori che radiografarono Tony quando questi avanzò verso il banco.
«Buongiorno a tutti!» esclamò cercando di sciogliere il mortorio «Un caffè macchiato, grazie.»
Tony lo ordinò ad un corpulento omaccio, apparentemente della sua stessa età, intento a lucidare il ripiano in acciaio con uno canovaccio.
«Se mi può dare, gentilmente, anche un pacchetto di sigarette» chiese.
«Camel» specificò.
«Lei è forestiero…» affermò il barista servendogli la tazzina.
Poi aggiunse cercando di dissimulare l’interesse: «Zucchero di canna o normale?»
«Forestiero per metà…» rispose Tony con aria divertita «… e zucchero normale, grazie.»
«Che significa forestiero per metà?» domandò il panciuto.
«Significa che in questo posto ci sono nato e ci ho vissuto gli anni dell’infanzia…»
Tony gli allungò la mano e sembrò provare, improvviso, il desiderio di parlare con quell’uomo.
«Mi chiamo Antonio… ma Tony è più corto… va bene così» aggiunse «sono nato e ho abitato per qualche anno una casa laggiù, in fondo al paese, prima che i miei decidessero di trasferirsi altrove… sono capitato qui di proposito… diciamo così, una visita sentimentale… un ritorno alle mie radici».
«Io qui ci abito da quando sono nato…» gli rispose il barman appoggiando i gomiti sul banco «dovremmo avere più o meno la stessa età ma di lei proprio non mi ricordo… neppure la fisionomia mi aiuta a ricordare…»
«Non ha importanza… fa niente….» suggerì Tony «è passato così tanto tempo… finisco il caffè e me ne torno alla vita di sempre».
Posò la tazzina sul ripiano dopo aver degustato la bevanda e si accese una sigaretta.
«Ha già fatto il giro turistico della sua fanciullezza?» gli chiese l’uomo «Avrà notato che qui è cambiato ben poco da allora… è lo scotto che pagano le microscopiche comunità come la nostra… destinate col tempo a scomparire… rimangono tali e quali negli anni fino a morirne».
«Finora mi sono limitato a visitare la vecchia cascina in cui trascorrevo le estati dalla nonna materna» gli rispose Tony lasciando una banconota sul ripiano e raccogliendo il pacchetto intonso di Camel che il barista gli lanciò sul banco «anche laggiù… come dice lei non è cambiato nulla in tutto questo tempo».
«Di quale cascina sta parlando, mi scusi?» gli chiese «Che cascina ha visitato?»
«Santa Maria di Bagnolo» rispose «è lì che abitava la nonna… e lo zio che faceva il trattorista.»
«Ah… Bagnolo…Bàgnö come diciamo noi in dialetto.»
«Esatto… Bàgnö» confermò Tony «come dice Alfredo… il proprietario.»
«Così lei ha conosciuto Alfredo?» gli domandò meravigliato il barman.
«Una gran brava persona… proprio un gentiluomo» rispose «mi ha accompagnato per un paio d’ore in visita alla cascina…»
Tony raccolse il resto che l’uomo gli porse dalla cassa e si avviò all’uscita, lasciandosi alle spalle il suono del campanello. Un sole splendente e caldo aveva asciugato a terra le pozze d’acqua e il cielo ora appariva terso, sgombro di nuvole. Un’aria frizzante gli solleticò le nari. Tony risalì sull’auto e ripartì.
Neppure si accorse dei quattro uomini che lo scrutavano mentre si avviava sulla strada del ritorno.
Il barman corpulento restò perplesso a scambiarsi occhiate interrogative con i tre avventori a fianco.
«Alfredo… dice di aver visto l’Alfredo» scrollò la testa ragionando tra sè. Alzò l’indice picchiettandolo contro la tempia ed accennò una smorfia pietosa e compassionevole.
«Quello lì… sul momento ho pensato fosse un furbastro in vena di prenderci clamorosamente tutti per il culo…» concluse rivolgendosi agli sbigottiti amici che lo osservavano « ma poi m’è venuto da pensare che abbia dato fuori di testa… dev’essere proprio matto da manicomio… date retta a me».
«Perchè? Cosa te lo fa pensare?… Cosa voleva?» gli chiese uno degli amici.
«Alfredo… ha parlato dell’Alfredo… dice di averlo conosciuto alla cascina di Bagnolo… santa pazienza» rispose sconvolto l’uomo «hai capito perché dico che è matto?… T’è capì?…»
«Dice di aver visto l’Alfredo… di averci parlato assieme… in cascina» proseguì quasi fosse in preda ad un allucinazione «quando tutti sanno che l’Alfredo saranno almeno una trentina d’anni che è morto… dalla notte in cui l’incendio scoppiò furioso dal fienile bruciando l’intera cascina che è stata poi abbattuta qualche anno dopo…»

«Paese piccolo… niente svaghi… menomale che ogni tanto ci capita qualche folle a farci divertire… quello lì s’è fatto di cocaina per vedere l’Alfredo» commentò il barista rientrando nel locale.
Si sedette a fianco degli avventori, raccogliendo, sul vassoio, i bicchieri vuoti delle consumazioni.
«Chissà se almeno la storia che è nato qui in paese era vera oppure un’altra balla delle sue?» si domandò ridendo grossolanamente.
«Beh… se ha parlato dell’Alfredo… vuol dire perlomeno che da ragazzino in quella cascina c’è vissuto veramente…» riflettè uno dei clienti, raccogliendo la copia spiegazzata della Provincia posata sul tavolino.
La sfogliò sbadatamente, vagando tra le pagine, tra immagini in bianco e nero e grossi titoli in neretto, finché, per puro caso, la sua attenzione non si concentrò su un trafiletto di cronaca locale.
«Guarda qui… oh signori! date un occhio qui… » commentò puntando il dito sulla frusciante carta del giornale. Esibì le poche righe, in fondo alla colonna, una notizia passata inosservata.
«Leggi un po’… poi te mi vieni a raccontare che dalle nostre parti non succede niente…»

Lomellina. Tragico incidente automobilistico. Perde la vita l’architetto Antonio Costa. L’incidente mortale occorso nella tarda serata di ieri è stato probabilmente determinato delle pessime condizioni atmosferiche che, secondo i primi rilievi dei carabinieri, hanno causato la perdita di controllo della vettura. L’auto sui cui viaggiava l’uomo, uscendo di strada, si è schiantata contro le macerie di una vecchia cascina distrutta anni or sono in un incendio. Il tragico fatto è avvenuto in prossimità del comune di Langosco. Il personale medico accorso, grazie al tempestivo intervento di un’ambulanza, non ha potuto far altro che accertarne il decesso. L’uomo, originario del luogo, risiedeva ormai da molti anni a Milano dove svolgeva la sua attività di stimato professionista.


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