"La cena" di Fabio Mundadori


 

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– Oddio, ho lasciato la borsetta in macchina!
– Quella valigia che ti porti appresso la chiami borsetta? – dice Michele sarcastico.
– Non è una valigia, è di dimensioni adatte alle mie necessità. – risponde piccata Francesca – Stefano, mi passi le chiavi dell’auto?
– Non ti servono, vai pure: è aperta.
– Allora torno subito e non andate avanti senza di me.
– Come potremmo! – cinguetta Lidia – Però sbrigati. La zuppa, come hai detto che si chiama, Massimo? –
– Bazzoffia, mia cara, bazzoffia.
– Ecco, la bazzoffia qui, si fredda.
Francesca si alza e imbocca il corridoio che porta all’atrio della villa, si ferma un istante poco prima del guardaroba dove ha posato il cappotto – Ma no, non fa così freddo e poi starò fuori solo un attimo. – pensa, alza il collo del tubino in alpaca e cammina spedita verso l’atrio.
Apre il pesante portone, appena oltrepassa la soglia il vento umido di fine ottobre la investe.
– Forse il cappotto non sarebbe poi così inutile. – mormora fra sé, fa per tornare sui propri passi ma il legno si è già richiuso dietro di lei. Si stringe nelle spalle, dà la schiena al portone e s’incammina verso il parcheggio.
Benché sia autunno inoltrato, la temperatura non è così rigida, piuttosto l’umidità sembra voler penetrare nelle ossa attraverso ogni possibile varco aperto negli indumenti.
Un clima che le ricorda da vicino quello della sua Ferrara, la città che ha lasciato proprio la mattina con destinazione Latina.

Il viaggio sul freccia rossa fino a Roma era stato rapido e comodo, un po’ meno quello sul regionale che dalla capitale l’aveva condotta al capoluogo pontino. L’ultimo tratto l’aveva fatto in auto con Stefano e Veronica, marito e moglie, arrivati da Firenze. In effetti avrebbe potuto scendere proprio a Firenze e fare il resto del viaggio con loro; lei però, Veronica, proprio non la sopportava. Così si era inventata una scusa qualsiasi per farsi il viaggio in santa pace e sorbirsi la compagnia indesiderata solo nel tragitto dallo scalo di Latina alla villa dove si sarebbe tenuta la cena.

Francesca si ferma in mezzo al vialetto che attraversa il giardino, il buio è calato da alcune ore, i lampioncini conficcati nel terreno illuminano solo aree limitate e lei impiega qualche istante a orientarsi – Sì, di là. – dice poi a mezza voce.
Riprende a camminare, fuori dal raggio di azione delle luci regna l’oscurità più assoluta, la campagna attorno sembra essere scomparsa avvolta dalla notte e da una leggera, ma insistente, nebbia.
Alla villa si giunge svoltando dalla provinciale in una strada sterrata che dopo essersi addentrata tra i campi per almeno mezzo chilometro termina contro il poderoso cancello sormontato da una lettera P racchiusa in una corona di alloro in ferro battuto. Dietro le sbarre forgiate a mano, circondata dal muro di cinta, sta la casa colonica, accovacciata come un oscuro Cerbero nel cuore dell’agro pontino.
La donna arriva finalmente all’area del giardino adibita a parcheggio, riconosce il SUV di Stefano, apre lo sportello posteriore dal lato del passeggero, la sua borsa è dove l’ha lasciata: sul sedile; quasi d’istinto controlla che dentro ci sia tutto, poi la prende e la sistema a tracolla. Chiude lo sportello, fa per allontanarsi poi si ferma, torna verso l’auto, questa volta apre lo sportello anteriore dal lato dell’autista si sporge all’interno e preme il bottone che comanda le serrature centralizzate, uno scatto secco risuona nell’abitacolo.
– Non c’è nessuno qui, ma è meglio non rischiare. – pensa soddisfatta, richiude e torna verso la villa. Nel buio le finestre illuminate la fissano come pupille ardenti.
Affretta il passo, la temperatura bassa inizia a farsi fastidiosa e dentro si staranno spazientendo.
Per lei e gli altri commensali, dieci amici di altrettante città d’Italia, quella cena è l’evento più atteso: una cosa iniziata quasi per scherzo e trasformatasi in consuetudine.
Da ormai nove anni a turno, una volta all’anno, ognuno di loro ospita il resto del gruppo per una cena dal menu ispirato alle specialità della città del padrone di casa. L’anno precedente era toccato a lei, – che successo la sua salama da sugo – mentre quella sera il loro ospite è Massimo, proprietario della splendida dimora in mezzo alla campagna ad alcuni chilometri da Latina.
In realtà quando tutto iniziò erano in venti, un rappresentante per regione, poi il gruppo si era ridotto di anno in anno. Nessuno si era mai chiesto il perché, si trattava di una cosa normale tutto sommato: è difficile mantenere coesi i membri di un gruppo tanto numeroso e disperso sul territorio, per quanto animati da una passione comune.

Massimo aveva aperto la cena ricordando le proprie origini emiliane, quale discendente dei pionieri della bonifica.
– Questa villa l’ha costruita il nonno, sapete lui era gerarca del PNF, pensate che alla cerimonia d’inaugurazione era presente persino il duce.
Le reazioni degli altri commensali erano state le più diverse, chi aveva annuito convinto, chi imbarazzato, chi visibilmente seccato per quella citazione considerata inopportuna. Il loro ospite si era limitato a glissare su gli uni e gli altri dando il via all’ingresso delle portate.
Due camerieri erano entrati portando i vassoi degli antipasti: un profumatissimo prosciutto di Bassiano accompagnato da olive dalle delicate sfumature rosate, disposti sul bordo dei vassoi crostini di pane spalmati con paté sempre di oliva, ma di colore più scuro.
– Le olive intere sono quelle famose di Itri, mentre il paté è ottenuto da quelle non meno pregiate di Lenola – aveva spiegato Massimo.
– Questi bocconcini di mozzarella sono fantastici.
– Grazie, Veronica. Sono di bufala, li ho fatti arrivare questa mattina da un caseificio di Sabaudia.
– Ho sentito dire che non esiste la mozzarella con il cento per cento di latte di bufala. – aveva osservato Barbara con marcato accento piemontese.
– Verissimo, – era stata la conferma di Massimo – il latte delle bufale, viene sempre tagliato con una percentuale di latte vaccino, per attenuarne il gusto particolarmente aggressivo.
– Ti sei sistemato bene, ti puoi permettere anche la servitù –aveva esordito all’improvviso Lidia arrivata da Cagliari.
– Sì, diciamo che devo molto al patrimonio famigliare.
– Eh, certo, il nonno era gerarca…
– Guarda, Francesca, la tua ironia è fuori luogo. La vera manager di casa era mia nonna e se ti potesse ancora sentire ti farebbe portare via dalla Borda. Tu lo sai cos’è vero?

– sì, la Borda. – pensa Francesca, una favola usata per spaventare bambini, una creatura leggendaria, tipica delle sue terre che sembra però essere tagliata alla perfezione per quei luoghi: descritta come una strega, bendata e orribile, ha la bocca irta di denti acuminati, abita le paludi, gli stagni e i canali; si muove nelle ore buie, nelle giornate nebbiose e uccide chiunque abbia la sventura di incontrarla. Un brivido le attraversa la schiena, il freddo è diventato insopportabile, ma ormai è arrivata: davanti a lei la facciata della villa l’attende rassicurante.

– Sai qui a Latina non esiste un piatto tipico, questa terra ha fatto da crogiuolo alle popolazioni che l’hanno sottratta alle paludi, dando vita a una genia nuova, ricca di risorse ma priva di tradizioni legate a un’identità popolare. – aveva proseguito Massimo – Veneti, romagnoli, emiliani e genti del luogo sono rimasti per lungo tempo comunità isolate le une dalle altre continuando a coltivare le proprie usanze, a cucinare i propri piatti – si era preso una pausa – a crescere i propri mostri: io me la ricordo ancora la ninna nanna che mi cantava la nonna.
Ninàn, ninàn, la Borda
la liga i bei babèn cun una côrda.
Cun una côrda e cun una curdella,
la liga i bei babèn pu la i asserra,
cun una côrda e cun una ligazza,
la liga i bei babèn pu la i amazza
Appena sfumata la cantilena intonata da Massimo, nella sala da pranzo era calato un silenzio innaturale, rotto all’improvviso dalla voce di Francesca.
– Oddio, ho lasciato la borsetta in macchina!

Francesca affronta i gradoni che portano all’ingresso con una leggera corsa. L’ultimo passo però è impreciso e complice la patina di umidità depositata sulla superficie di marmo, la donna si ritrova viso a terra.
Sospira, fa forza sulle braccia e si mette seduta.
– Ma porca miseria! – impreca accorgendosi della chiazza scura che imbratta l’abito color crema appena sotto il seno.
Rialzandosi in piedi una fitta di dolore la colpisce al ginocchio sinistro – Devo averlo sbattuto cadendo. – mormora tra sé.
Con passo malfermo riesce a percorrere l’ultimo metro che la separa dal portone, preme il grosso bottone in ottone sullo stipite alla sua destra, sente il campanello risuonare all’interno.
Attende qualche minuto, ma nessuno viene ad aprire.
Suona ancora.
Nulla accade.
– Ehi! – grida – Aprite?
Nessuno risponde.
Afferra uno dei pesanti battenti in bronzo e lo lascia ricadere contro il portone.
Ancora nulla.
Solleva di nuovo il battente e bussa più volte.
– Lo scherzo non mi diverte! Aprite!
Alcuni istanti, nessun rumore. Niente.
– Cazzo! – ringhia.
Apre la borsetta, rovista fino a quando non recupera il cellulare.
Forse il freddo, forse la rabbia le fanno tremare la mano mentre compone il numero sul touch–screen, ma alla fine riesce a chiamare Lidia.
Il tono di chiamata risuona nell’orecchio, una, due, tre… sei volte.
Nessuna risposta.
Francesca non demorde e ripete la chiamata.
Al terzo squillo qualcuno risponde.
– Allora! Siete sordi? Volete aprirmi?
La voce di Lidia ha un tono strano.
– Francesca, scusami, non so se…
– Lidia, che c’è da sapere? Aprite e basta.
– No guarda, preferisco non intromettermi.
– Ma intrometterti in cosa?
– Dai Lidia, torna a tavola, questo spezzatino di annutolo bufalino al vino rosso è spettacolare. – sente la voce di Stefano dire in lontananza.
– Ora ti lascio.
– Lidia, no!
– Li senti? Mi chiamano.
– Lidia? Lidia!
Silenzio.
– Deve essere un incubo. – pensa – Prima quando sono caduta ho battuto la testa e ora sto sognando, è per forza così.
Il freddo però è reale, si stringe nelle braccia per scacciarlo, con scarsi risultati.
Decide di ritentare con il cellulare, chiama Stefano: prima sembrava non sapere con chi parlasse Lidia.
Questa volta rispondono al primo squillo.
– Stefano, per favore, sono rimasta chiusa fuori e…
– Sono Veronica, Stefano è a tavola. – dice la voce glaciale.
– Sì, capisco, ma vedi, come dicevo, sono qua all’esterno della villa.
– Ma davvero? E come mai?
Francesca rimane interdetta, una domanda è l’ultima cosa che si sarebbe aspettata.
– N… non lo so, cioè io, sono uscita e poi adesso… – s’interrompe – Ma, che succede! Fatemi entrare, ho freddo! – grida con la voce rotta dal pianto.
– Guarda, io voglio starne fuori.
– Anche tu! Ma fuori da che?
– Fuori e basta, non mi voglio intromettere in questa cosa e, se devo essere sincera, ti confesso che non mi dispiace affatto.
– Ma che dici?
– Tanto lo so che ti sto sulle palle, mi vorresti fuori dai piedi per prenderti Stefano.
– Stefano? Ma, no!
– A chi credi di darla a bere, con quell’aria da santarellina!
– Guarda davvero…
– Ora basta, chiudo.
– No, Veronica, ti chiedo scusa se mi sono mostrata insofferente verso di te, ma io e tuo marito siamo solo amici. – dice Francesca in un fiato.
– Ho detto basta, e non chiamare più, tanto Stefano non ti risponde.
– No, non chiudere! Dimmi almeno chi…
Silenzio.
Francesca asciuga gli occhi dalle lacrime con il dorso della mano.
Trascinandosi la gamba ferita si sposta lungo il marciapiede che costeggia i muri della villa fino ad arrivare sotto la porta finestra che dà sulla sala da pranzo.
Sono tutti là, ridono, mangiano, dov’era seduta lei hanno tolto la sedia, anche piatti e posate non ci sono più, sul suo segnaposto non c’è scritto niente.
– Fatemi entrare! – urla sbattendo i pugni sul vetro – Che vi ho fatto??
Nessuno la sente o forse, semplicemente, la ignorano.
L’angoscia le stringe la gola. – La temperatura scenderà ancora, morirò assiderata se non troverò in fretta una soluzione. Certo, se non avessi chiuso il SUV di Stefano, avrei almeno un posto dove stare e poi domattina manderei a farsi fottere questi idioti. – pensa.
Poi un’idea le attraversa la mente.
Si toglie dalla porta finestra, proprio mentre oltre il vetro stanno alzando in un brindisi, calici colmi di un dorato chardonnay.
Torna verso i gradoni, scende ancora verso il giardino e camminando sul prato comincia a costeggiare la casa. Il ginocchio si è gonfiato e non riesce più a piegarlo, ma un mezzo passo dopo l’altro riesce ad arrivare sul retro.
– Ecco, qui dovrebbero esserci gli ingressi di servizio.
Poco più avanti infatti intravede una porta, la raggiunge abbassa la maniglia ma il legno non si muove di un centimetro – Aprite! Aprite! Bastardi, aprite! – grida allora, incanalando tutta la sua frustrazione in una raffica di pugni.
Nulla accade. Nessuno sembra udirla.
Poi, all’improvviso, le luci esterne si spengono e attorno a Francesca resta solo buio e nebbia.
Un tremito incontrollabile la assale, si schiaccia con la schiena contro il muro e inizia a strisciare, la superfice ruvida delle pareti poco per volta lacera la lana dell’abito che indossa, permettendo al vento gelido d’insinuarsi ovunque.
Recupera il cellulare: userà la retroilluminazione del display per farsi luce, il chiarore le è appena sufficiente per mostrarle dove mette i piedi, poi dalla notte arriva un mormorio, prima incomprensibile.
… ninàn, la Borda
– Basta, Massimo, ti prego.
Sempre più distinto.
la liga i bei babèn cun una côrda.
– Massimo, sei un bastardo, questo scherzo è durato anche troppo.
Cun una côrda e cun una curdella,
ma non è la voce di Massimo quella
la liga i bei babèn pu la i asserra,
non è la voce di un uomo, non è una voce umana.
cun una côrda e cun una ligazza,
– Chi sei?
Silenzio.
Il cellulare vibra nella mano
Sul display un nome: Massimo.
Le mani le tremano, riesce a rispondere solo dopo alcuni tentativi.
– Massimo… Massimo, voglio entrare. – piagnucola.
– Ciao Francesca.
– Mi hai chiuso tu qui fuori?
– Sì.
– Voglio entrare! – grida la donna con tutta la voce che le è rimasta – Fammi entrare.
– Non posso.
– Come… perché… perché non puoi?
– Non lo so.
– Che, significa?
– Non lo so.
– È impossibile, deve esserci un motivo.
– Non sempre, Francesca, non sempre c’è un motivo quando tocca a te, morire.

Francesca non sa che altro dire, resta pietrificata, immobile.
Senza preavviso un sibilo attraversa l’aria, qualcosa le cade sulle spalle e la stringe al collo. Lascia cadere il cellulare, con entrambe le mani afferra quella che sembra essere una corda e tira con tutte le forze rimaste.
La corda fa un altro doppio giro, stringendo gambe e braccia, uno strattone e la donna si trova supina nell’erba.
Poi ancora quella voce.
cun una côrda e cun una ligazza,
la liga i bei babèn pu la i amazza
sono le ultime parole che sente.
Fauci acuminate aprirsi in mezzo a orride bende, le ultime cose che vede.
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