“La differenza secondo Dieter Weber” di Massimo Tallone


(testo per L’INDICE DEI LIBRI, pubblicato sul numero di novembre 2006)

Quando Dieter Weber propose a sua moglie e a suo figlio di trasformare il loro silenzioso albergo di Senigallia in un albergo per soli ciechi, i due proruppero in una risata la cui eco durò alcuni giorni. Ma Dieter Weber era ormai ben intenzionato a condurre in porto il suo progetto.
Ma perché proprio per ciechi?, aveva chiesto più volte la moglie di Dieter Weber. E lui aveva risposto che i motivi erano molti. A esempio, Weber diceva che sarebbe stato il primo albergo per ciechi in Italia, e forse in Europa, e questa era una scommessa che da sola valeva la posta in gioco. E poi sarebbe stato sicuramente interessante e divertente progettare le soluzioni architettoniche per uno spazio nel quale avrebbero potuto muoversi senza sforzi esclusivamente i ciechi. Per tacere dei colori. Quali colori avrebbero dovuto avere le camere, i corridoi, le coperte? E che dire dei gradini? Sarebbe stato necessario abolirli o no? E i corrimano? Già, occorrevano molti corrimano, poiché non era pensabile che un cieco riuscisse in pochi giorni a fare suo uno spazio sconosciuto. L’albergo doveva dunque essere dotato di tutti i mezzi utili al cieco per potersi aggirare, per potere entrare e uscire con la maggior semplicità possibile. E senza accompagnatori.
Tu sei pazzo, aveva detto la moglie, e aveva obiettato che la sua idea non stava in piedi, perché i ciechi in viaggio sono sempre accompagnati.
E’ inevitabile, aveva risposto Dieter Weber, e sarà così fino a che non ci saranno luoghi per ciechi, con una grammatica dello spazio comprensibile dai ciechi. Fino a quel giorno saranno sempre accompagnati. Ma ho pensato a tutto, aveva continuato: oltre alle stanze e ai locali per i ciechi, l’albergo sarà dotato di un’ala nella quale troveranno posto i vedenti, i familiari e gli amici dei ciechi. Ma la zona destinata ai ciechi sarà solo per ciechi, e nessun vedente potrà mai vederla, tranne noi tre, che rigoverneremo le stanze. I soli occhi che, diciamo così, vedranno quelle camere, saranno gli occhi dei ciechi. Da loro, dai ciechi, accetteremo tutti i consigli di modifiche e di varianti. Ma l’unica regola ferrea e rigorosa sarà questa: nessun vedente dovrà vedere le camere dei ciechi, perché se ai ciechi venisse descritta la loro camera, d’improvviso la camera non sarebbe più per ciechi, ma per vedenti. La descrizione del vedente ricaccerebbe il cieco in quel ruolo di subalternità e di dipendenza che l’albergo intende abolire. E quel ruolo possiamo abolirlo soltanto negando ai vedenti, nei luoghi destinati ai ciechi, il loro vantaggio.
E se fosse un fallimento completo? Questo era il dubbio della moglie e del figlio di Dieter Weber.
Ma Dieter Weber volò sul problema, e disse che avevano quattrini a sufficienza per fare questo divertente esperimento, e che se fosse andata male non sarebbe stato difficile (ma qui mentiva) ritrasformare l’albergo per ciechi in un normale albergo per persone normali. Normali, poi…
Alla fine l’idea fu accettata e iniziarono i lavori, che si conclusero nel giro di due anni.
La pubblicità e l’informazione diedero presto notorietà all’albergo, sicché giunsero i primi clienti ciechi, naturalmente accompagnati. Ma non era ancora trascorso un mese dall’apertura, quando, nel mezzo di un mattino, spuntò un cieco che, a differenza dei precedenti, si presentò all’albergo senza la scorta di un vedente, ma semplicemente accompagnato dal tassista fino al corrimano che dalla porta di ingresso dell’albergo correva lungo il muro esterno per un buon tratto.
Non appena il cieco posò le dita sull’estremità del corrimano, un messaggio registrato annunciò in tre lingue: “Seguite il corrimano fino alla sporgenza tonda”. Il cieco ascoltò e avanzò poi, sicuro di sé, sfiorando appena l’asta orizzontale. Quando giunse a un metro dall’ingresso, la porta munita di fotocellula si aprì da sé scorrendo lateralmente. Dopo la breve cesura che permetteva lo scorrimento della porta, il corrimano proseguiva per un buon tratto nel salone di accesso e giungeva fino al bancone della reception, per piegare poi a destra. Prima di questa ansa era applicata la sporgenza tonda descritta nel messaggio sonoro.
Il cieco si fermò, dunque, diligentemente, davanti al bancone e fu ricevuto da Dieter Weber, il quale raccontò, come già aveva fatto con gli altri clienti, di come e quando gli fosse frullata per capo l’idea dell’albergo per ciechi, e di come fosse stata realizzata.
Le camere, spiegò, sono disposte su due piani. Dieci camere sono collocate al piano terra, lungo un corridoio semicircolare che gira intorno al salone della reception. Questo corridoio presenta una serie di bassi gradini, uno prima di ogni camera, sicché le camere del piano terra non sono poste tutte allo stesso livello, ma vanno digradando di un poco.
Dal fondo di quel corridoio, continuò Dieter Weber, una scala di pochi gradini mena al primo piano, dove si trovano le altre dieci stanze, anch’esse disposte lungo un corridoio semicircolare e su piani lievemente sfalsati, questi in leggera salita scandita dai bassi gradini presso ogni porta, a partire dal pianerottolo. Per dirla in breve, dichiarò Weber con ironica solennità, gradini ovunque, in questo albergo.
Già, gradini. Era la sua idea. I gradini, aveva pensato, permettono al cieco di percepire fisicamente lo spazio che sta percorrendo. Il gradino segnalerà al cieco non soltanto la posizione della camera, ma anche il senso di marcia all’interno dell’albergo, determinato dal salire del primo piano o dallo scendere del piano terra. Contando i gradini, e percependo la salita o la discesa, il cieco può avere una nozione spaziale del luogo di arrivo, come se il vuoto si popolasse di forme, di geometrie solide. Un luogo completamente piano è come un deserto, per un cieco: nessun riferimento circa la direzione che deve prendere, nessun dislivello, nessuna differenza che caratterizzi e identifichi lo spazio.
Ed è la differenza che permette la percezione, aveva detto Dieter Weber agli architetti, i quali ribadivano la necessità di evitare ai ciechi dislivelli e salti spaziali. E dove non c’è percezione visiva, aveva aggiunto, è necessario aumentare quella tattile, è necessario che lo spazio parli di sé al cieco, che esibisca le sue differenze per essere riconosciuto, così come si mostra – vario, elementare e muto – al vedente. Soltanto in questo modo, aveva concluso, non si disperde quel valore per la sensibilità che è la differenza.
“Continui a seguire il corrimano,” disse infine Weber al cliente, “sul quale troverà prima o poi, riunite in gruppi o isolate, sporgenze tonde simili a quella che ha incontrato qui, davanti al bancone. Indicano il numero di gradini in salita che si presenteranno ai suoi piedi subito dopo. Se al posto di una sporgenza, invece incontra un buco sul corrimano, bene, significa che il gradino successivo va verso il basso. Sul corrimano sono inoltre infisse alcune lettere dell’alfabeto. Sono molto più rialzate e più grandi delle sporgenze contagradini, e inoltre sono spigolose. Le porte delle camere si trovano proprio in corrispondenza di ogni lettera, sulla parete opposta a quella del corrimano. Lei ha la camera N, e dunque quando le sue dita registreranno sul corrimano la forma della N, saprà che la sua camera è lì di fronte. Ecco la chiave. Salga pure, io la seguo portandole il bagaglio”.
Il cieco proseguì allegramente carezzando appena l’asta di ferro. Incontrò le sporgenze e i buchi, che contò rialzando il mento, percorse tutto il piano terra, e trotterellò sicuro su per i dodici gradini che portavano al primo piano, sempre continuando a ricavare informazioni dal corrimano e dai suoi piedi. Descrisse infine parte del corridoio incontrando un basso gradino ogni sei metri e soffermandosi con la mano sulle lettere dell’alfabeto. Giunto alla N si fermò.
“Ora lei è di fronte alla sua stanza. Lasci il corrimano e faccia un passo verso la parete opposta, verso la porta. Ecco. Bene. Infili la chiave nel pomolo ed entri pure nella stanza.”
Tutte le camere dell’albergo di Weber erano tinte con cura e dotate di arredamento dai colori in armonia fra loro. Vicino all’uscio era posto l’interruttore che permetteva l’accensione del lampadario.
A che serve il lampadario, aveva chiesto il figlio di Weber, se in quelle stanze non potranno mai mettere piede i vedenti? E Weber aveva risposto che, secondo lui, coloro che non erano ciechi dalla nascita si sarebbero probabilmente trovati molto più a loro agio, la sera, sapendo di avere la luce accesa.
“Vicino all’interruttore,” disse Weber al cliente, “c’è uno sportello dentro il quale è stato messo un diffusore di profumo. Ogni camera ha un profumo diverso. La sua, a esempio, è la camera alla verbena. Se vuole riconoscere di botto la sua camera, a ogni rientro, è sufficiente che lei tenga aperto lo sportello contenente il diffusore. Ora la lascio al suo incontro con lo spazio della camera. Anche qui, noterà a poco a poco, ci sono elementi in grado di darle informazioni sullo spazio circostante, elementi capaci di segnalare le differenze… Ma non le dico di più. Scoprirà tutto da sé. Se ha bisogno di qualcosa, per ogni necessità, le basta alzare il ricevitore sul comodino, e sarà subito in contatto con la reception. Ah, ancora una cosa… Quando deciderà di scendere non dovrà tornare indietro, perché qui da noi tutto funziona a patto di rispettare un solo senso di marcia, come può intuire. Perciò, uscendo dalla stanza, continui a risalire i piccoli gradini di questo corridoio, al fondo del quale ci sono i dodici gradini di discesa, indicati dai buchi sul corrimano, che portano alla sala di soggiorno. Ma quando scenderà mi troverà lì, e le illustrerò i dettagli della sala.”
Però, aveva ribattuto a suo tempo il figlio di Dieter Weber, dato che qui c’è un solo senso di marcia, se un cliente del piano terra vuole andare nella sala di soggiorno deve percorrere tutto il suo corridoio, salire i gradini che portano al primo piano, andare fino in fondo e scendere dall’altra parte.
E che male c’è?, aveva risposto il padre, e poi non vedo altro modo per insegnare rapidamente ai clienti la grammatica dei buchi e delle sporgenze che caratterizza il nostro albergo.
Dieter Weber lasciò dunque solo il cliente e tornò al bancone della reception seguendo il senso di marcia stabilito dalle regole interne, proprio come se lui stesso fosse stato cieco.
Ben presto tutti i ciechi d’Italia seppero dell’iniziativa di Dieter Weber, e per molti di loro fu motivo di interesse e di curiosità scendere almeno una volta l’anno all’albergo di Senigallia. La città, sospinta dal vento di una anomala notorietà, organizzò convegni su ‘non vedenti’ e ‘ipovedenti’, e poi tornei di scacchi e campionati di ginnastica per soli ciechi. E una casa editrice indirizzò la sua attività sui testi scritti in braille.
Dieter Weber fu considerato in seguito un precursore (era il 1964) nel campo dei diritti sociali delle minoranze (e così via), sebbene la molla prima, in lui, fosse stata la curiosità intellettuale di mettere a contatto fra loro due mondi che non si erano mai incontrati.
Una cosa però era vera: quasi tutti i ciechi, come aveva affermato sua moglie, viaggiavano accompagnati. Ma durante il soggiorno a Senigallia, i ciechi chiedevano puntualmente di essere alloggiati nella parte dell’albergo loro destinata, in una delle ormai famose venti stanze. I familiari o gli amici venivano in quei casi indirizzati nell’ala dell’albergo definita ‘per gli altri’. Accadeva talvolta che qualcuno degli ‘altri’ chiedesse di vedere le stanze dei ciechi. In questo modo, spiegavano a Weber, avrebbero potuto raccontare ai loro cari come è l’arredamento, quali sono i colori della camera, quale vista vi si goda e così via. Ma Dieter Weber non diede mai a nessuno dei vedenti questo permesso. E sorrise, quando notò che qua e là, a Senigallia, gruppi di persone dalla vista ottima ascoltavano con attenzione un cieco intento a descrivere un luogo che loro non avrebbero mai visto.


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