"La fiaba della buonanotte" di Lucio Figini (finale)


marsiglia

 

XXIV.

I fari spezzano l’oscurità. Procedo lentamente, cercando di fare poco rumore. La radio è spenta e la luna sembra pericolosamente vicina.

Inizio a parlare.

Il Villaggio è un luogo orribile. La Foresta è tutto ciò che gli sta attorno. Chi comanda si chiama Patrick, è lui che mi ha torturato. La multinazionale Pashkyeen è implicata. Commercio di bambini, rapiti e portati qui, poi ancora presi, per chissà quale scopo. Ho rotto le palle alla persona sbagliata, il figlio di uno dei capi, ma questo già lo sa. Serge deve essere il grande architetto, il burattinaio di questo spettacolo.

Ascolta in silenzio per tutto il tempo necessario. Poi annuisce.

– Perché ti hanno rilasciato?

– Bella domanda. Ancora non lo so. Forse si aspettavano che stessi buono. In caso contrario, chi mi avrebbe creduto?

– Non mi convince.

Gli parlo degli uomini in grigio, delle forniture dell’esercito o di forze armate mercenarie. Degli esami medici fatti ai bambini prima di essere prelevati e di quel poco che Patrick si è lasciato sfuggire.

– Commercio di organi – la sua voce è pacata.

– È vero. Come ho fatto a non pensarci.

La fabbrica degli orrori. Il cuore di un disperato può valere oro al mercato nero, figurarsi smembrare un piccolo essere umano. A quanto pare i ricchi non sono razzisti, se si tratta di ciò che si nasconde sotto la pelle.

– Adesso cosa vuoi fare? Questa cosa è troppo grossa, dobbiamo avvertire il distretto.

– Non sono sicuro che qualche tuo collega non sia implicato.

Osserva un punto nel vuoto ed io proseguo.

– Comunque è troppo tardi. Mettiti comodo, perché ora arriva la parte migliore.

Racconto di Aleksandra e del suo esercito in erba. Di come qualcuno, a modo proprio, abbia portato la speranza.

– E lì che stiamo andando?

– Mi hanno salvato e aiutato – evito di dire che mi hanno anche mangiucchiato anima e corpo – non li lascio soli.

Il suo sguardo nella notte. Il finestrino di entrambi spalancato, per controllare la nausea che ci attanaglia.

– Qual è il piano?

– Andiamo al campo, speriamo che siano ancora vivi e li portiamo fuori di qui.

– Bel piano. E se incontriamo qualcuno? Questo carro armato non è molto silenzioso.

Accelero e lui mette dentro il braccio, il sentiero è stretto.

– Lo asfaltiamo – rispondo.

Gli parlo del poco che ricordo. Gli uomini non sono molti e soprattutto non hanno armi, sempre che non se le siano procuratie nel frattempo. Il mio pensiero va a Lue e al bambino lupo, ho la sensazione che potrei trovarmelo davanti da un momento all’altro.

– E sia. Il cellulare non ha campo, non credo sia un caso. Questa gente potrebbe aver fatto in modo di lasciare aperto solo un canale di comunicazione, escludendo le altre reti – Marc si sta riprendendo – e dovrei ucciderti per farti tornare indietro.

Sorrido.

– Per cui – continua – non resta che sperare di non incontrare nessuno e andarcene il più presto possibile.

– Non voglio morire – rispondo.

– Cosa?

– Volevo solo che tu lo sapessi. Non sono pazzo fino a questo punto. Voglio tornare da Iris, ha già perso la madre: questa cosa però la devo fare.

Ci avviciniamo al torrente. Riconosco i luoghi, gli odori, il silenzio rumoroso di quella porzione di notte.

 

Il falò è acceso, nonostante non sia serata cinema. Si è fatta mezzanotte, nessun bambino in giro, solo Aleksandra.

È seduta per terra, a gambe incrociate, la tunica si allaga a macchia d’olio attorno a lei. La mia regina nera di un mondo in decadenza mi mostra le spalle.

Spengo il motore.

– Tu stai in macchina.

– Puoi giurarci.

Il crepitio del fuoco. Un temporale in arrivo. Lacrime trattenute che tingono quest’assurda notte.

– Aleksandra, sono David.

Capelli sul viso. Sangue che li unge. Riccioli rossi s’illuminano alla luce. Il suo sguardo sul fuoco.

– Troppo tardi. Hanno preso Lue.

Cazzo, no.

– Ed io gliel’ho lasciato fare – aggiunge.

– Non mi sembra, da come ti hanno conciato. Gli altri dove sono?

– È finita. Torneranno e li prenderanno tutti, uno alla volta – non mi ascolta.

Era un bluff, Aleksandra non è mai stata armata. Poteva difendersi, ma non difendere i bambini.

– Aleksandra, ascoltami.

Scatta, preme le unghie sul collo e mi spinge lontano. Cado nella terra. Marc nel frattempo è sceso e punta l’arma verso di lei.

– Fermo, tutto a posto – gli faccio un cenno con la mano.

Si avvicina e vede il mio sangue che scende sulla felpa.

– Andiamocene. Non c’è nessuno, tranne questa pazza.

– Ti prego, sali in macchina, me ne occupo io.

Accetta a malavoglia.

Mi getto su di lei da dietro e stringo con tutta la mia forza, bloccandole gli avambracci. Si dimena come un animale in gabbia, mi sfregia le mani, fin dove riesce ad arrivare con le unghie. Colpisce con la nuca più e più volte, ma non mollo. Allora usa le gambe come leva con il terreno e mi fa volare all’indietro. Siamo un solo verme che rotola di fronte al fuoco. Che sbatte, si contorce e s’accartoccia.

A quel punto inizio a parlare. Lentamente. Dolcemente. Come una litania.

Le parole escono a fatica, perché la sua testa continua a colpire le mie labbra, fino a spaccarle. Le dico di essere tornato per lei, per loro, per finire il lavoro che aveva iniziato. Che c’è ancora una speranza. Che non so come andrà a finire, ma non mi muoverò da qui. Che conoscerà mia figlia e quel mondo che non si rammenta di aver visto. Che le riporterò Lue, perché ho un’arma e sono motivato.

– E tu mi hai insegnato quanto questo conti.

Si lascia andare per un attimo, ma ho paura che sia una strategia e ancora non mollo. Poi con la coda dell’occhio vedo Marc. Nel frattempo si è messo in piedi a pochi metri da noi. Non è solo, accanto ci sono i bambini. C’è anche il lupo e il Maggiore. Sono paralizzati dal nostro balletto di terra e sangue.

La lascio.

– Va tutto bene – Aleksandra si rivolge ai suoi figli – David è tornato.

 

Ci sediamo attorno al fuoco. Il Maggiore non ha più la baldanza di un tempo. Il lupo invece se ne va, come al solito, nell’oscurità.

– Ce ne andiamo – è ancora lei – non portate nulla con voi, tranne i pugnali.

Marc si avvicina al mio orecchio.

– Saranno una ventina, come diavolo facciamo?

Mi rivolgo ad Aleksandra.

– Falli salire sulla roulotte più grande, dì loro di gettare mobili e ogni cosa che occupi spazio.

Impartisce gli ordini e in pochi attimi tutti scompaiono.

– Come pensi di fare? – mi chiede.

– La trainiamo con la jeep. E qualcuno salirà in macchina. Staremo stretti, ma ce la faremo. Anche perché non vedo altre soluzioni.

– E come la agganciamo? – interviene Marc.

– Al gancio – gli sorrido – dove se no?

– Allora avevi pensato a tutto – il suo sguardo è di pietra.

– Negli ultimi giorni ho agito senza pensare, che tu ci creda o no. Ho scelto una macchina con il gancio, ma non avevo in mente nulla di tutto ciò. Non a livello conscio, almeno.

Mi dà una pacca sulla spalla.

– Sei un maledetto figlio di puttana. Anzi, peggio, un maledetto psicologo figlio di puttana.

Si allontana e controlla il mezzo.

– È l’amico della polizia di cui parlavi?

Un mio cenno.

– Ci possiamo fidare?

– Di lui sì, ma non so cosa succederà dopo. Quando usciremo da qui, intendo.

I suoi occhi.

– Se usciremo.

Le chiedo da quanto hanno portato via Lue e qualsiasi informazione ci possa essere utile. Mi risponde nella mattinata. Il lupo si è battuto senza tregua. L’hanno ridotto male, ma li ha seguiti lo stesso. Le ha riferito che la tengono nel capanno di Patrick. Tra qualche ora la porteranno via, alle prime luci del giorno. Ma Aleksandra è preoccupata anche di qualcos’altro. Una notte nel Villaggio può fare davvero male a una bambina come Lue, che sta cercando con tutte le forze di lasciarsi il passato alle spalle.

– Che cosa hai in mente? – mi chiede.

– Se credi che David sappia quello che fa, siamo messi male – Marc è tornato e si è messo accanto a noi.

– Sono in molti – continua lei, senza farci caso – e noi solo in due.

– Grazie della considerazione – s’intromette Marc – senti, bella, io non ti conosco, ma David è mio amico e non pensare che lo lasci morire in un posto di merda come questo.

Aleksandra non lo guarda neppure.

– Che ci crediate o no, ho un piano questa volta – mi rivolgo a tutti e due.

Poi mi volto verso Marc.

– Ho bisogno del tuo aiuto. Io andrò al Villaggio, ma da solo. Avrò più possibilità.

– Non c’è verso, amico, ti copro le spalle.

– Tu mi servi per un motivo più importante. Siamo venuti per portarli via. Devi guidarli fuori. Caricali in macchina, aggancia la roulotte e segui il fiume, cerca di fare meno rumore possibile. La mia unica speranza è prendere di sorpresa Patrick.

Mima un no con la testa.

– E devi promettere di proteggerli. Ricorda che tu hai un’arma e un fuoristrada, loro pugnali e balestre. Non fermarti qualsiasi cosa capiti.

– Non ti lascio qui.

– Lo spero bene. Ci vediamo al capanno. Non prima di averli fatti uscire. Portali almeno a un chilometro, poi torna al cancello che abbiamo sfondato e aspettami.

Aleksandra nel frattempo non ha aperto bocca.

– Porca puttana, David, sei solo un professore, non puoi farcela.

Sorrido. Tiro fuori la pistola e inizio a pulirla con la mia felpa.

– Su una cosa siamo d’accordo – è la voce di Aleksandra – non vai da solo. Io sono sua madre. E conosco la Foresta.

In effetti, non fa una piega. E poi è inutile discutere con lei.

La madre saluta i suoi figli a uno a uno. Dà le ultime raccomandazioni al Maggiore. Aggiunge alla cintura un paio di pugnali e si avvicina a Marc.

– Se capita loro qualcosa, ti uccido.

È la prima volta che gli rivolge la parola.

Lui non risponde. Devia il suo sguardo e mi raggiunge con passo fiero. Però io percepisco la sua paura, perché lo conosco, perché so che dietro la maschera da poliziotto c’è un uomo buono, che non si sarebbe mai aspettato di trovarsi in questa situazione.

– Ti ricordi quando ti dicevo di iniziare a uscire con qualche donna?

Rispondo mimando un sì.

– Se questi sono i tuoi gusti, lascia stare.

Ci abbracciamo. Le cose non stanno andando come dovevano. Da quando ho sfondato quel cancello ho in mente di prenderli e portarli il più lontano possibile, ma tutto si sta complicando.

 

 

XXV.

Il fuoco si sta spegnendo.

Salutiamo con lo sguardo la carovana e ci addentriamo nell’oscurità della Foresta. Camminiamo veloci. Aleksandra fa strada ed io la seguo. Nessuno parla per un paio d’ore, abbandonati alle nostre personali odissee. Ognuno di noi ha lasciato la parte migliore in un altro luogo. Non abbiamo idea di come andrà a finire, ma abbiamo imparato, in mille modi diversi, che fermarsi è un bene solamente dopo aver fatto tutto il possibile per le persone che amiamo.

– Manca molto?

– Una decina di minuti.

Respiro i suoi battiti, che pulsano nell’aria. È un animale che gattona. Da perdere il fiato.

– Quella notte me ne sono andato, mi spiace.

– Ma sei tornato.

– Vi ho lasciati soli, proprio quando avevate più bisogno.

– Tutti abbiamo una notte che vorremmo dimenticare.

Intuisco il sorriso.

La luce irreale della luna illumina i contorni del viso. Corro di fianco per osservare la sua espressione. Allungo la mano. Le tocco il braccio. Si ferma e si volta nella mia direzione. È appena più bassa, i capelli sono sporchi del sangue di quelle bestie. Le sposto un mucchietto di riccioli, che scende sulla fronte e lo raccolgo dietro l’orecchio. Lei muove le dita di scatto verso la mia guancia. Ho paura, ma non mi muovo. Mi accarezza, si avvicina e mi annusa.

La bacio, fosse l’ultima cosa che faccio.

– Aleksandra, io…

Mi cuce la bocca con le sue labbra.

Poi si stacca e pronuncia le uniche parole che non mi aspetto.

– Sei stata la scopata più bella della mia vita.

Grazie, non le rispondo.

– Ma sono soprattutto una madre.

Priorità è il termine che mi viene alla mente, ma il mio corpo non sembra esserne così sicuro.

– Mi sono affezionato anch’io a quella bimba, lei e il bambino lupo mi sono entrati sotto la pelle in pochi giorni.

– Chi?

– Il bambino che non vuole un nome, l’ho chiamato così.

Sorride.

– Mi preoccupa. Non è partito con gli altri – aggiungo – dici che ci sta seguendo?

– Proteggendo. È l’unico che conosce la Foresta e il Villaggio meglio di me. Quando vuole è un fantasma.

Nel frattempo ci siamo rimessi in marcia, una pioggia leggera sta regalando musicalità alla natura e i primi rumori umani ci infastidiscono.

Ci avviciniamo sino al limite del perimetro e ci corichiamo a terra. Piena notte. Tracce di falò che si stanno spegnendo. Casette prefabbricate in legno. Tende. Spazzatura per le strade. Una macchina bruciata.

– Patrick sta da quella parte – indica un punto.

– La pioggia è una manna. Anche i nottambuli si sono rintanati – mostro le poche luci accese.

Camminiamo silenziosi e strisciamo vicino alle tende. Vedo il palo al quale ero appeso. Del lupo nessuna traccia.

– Riuscirai a convincerlo? A tornare con noi, intendo.

– Lo spero, anche se non sarà facile. Ho insegnato quello che potevo agli altri, ma lui… sembra essere diventato un tutt’uno con la Foresta.

– Non preoccuparti. È il mio lavoro aiutare le persone, se ricordo ancora come farlo.

Si ferma e mi fissa negli occhi.

– Lì fuori avrò bisogno di te.

Un rumore. Un uomo è uscito a vomitare, a pochi metri da noi. Ci spalmiamo per terra e tratteniamo il fiato. Non sembra attento a quello che succede attorno a lui, mentre espelle birra e chissà quale carne in scatola.

Rientra e noi raggiungiamo velocemente il rifugio del capo.

– La casa è quella, la più grande. Due stanze al piano terra e un’ampia mansarda a vista. Questo è un bene, ci basterà entrare e avremo una visuale completa.

Conosce fin troppo bene la casa.

L’interno è illuminato. Un solo uomo fa la ronda, non si aspetta un’imboscata. Come avevo previsto, le apparecchiature elettroniche sono solo a uso di Patrick. La luce che illumina la finestra è elettrica e non a olio.

Aleksandra è pronta a scattare, ma la blocco.

– Ora si fa a modo mio.

– David, Lue è lì dentro, entriamo e portiamola via. Hai un’arma.

Forza la presa, ma non lascio il braccio.

– Tu non li conosci bene come me, sono pezzi di merda.

– E così vorresti affrontarli faccia a faccia?

– Hai qualche altra idea?

Tiro fuori un sacco di juta, vuoto, che avevo raccolto lungo la strada e indico l’uomo di guardia.

– Appena oltrepassa quell’angolo, io gli infilo questo in testa e stringo, mentre tu lo uccidi.

Abbassa lo sguardo. Anche tra animali esiste una legge non scritta. Rammento la mia iniziazione. L’unica morte al Villaggio, da anni. Viso a viso, nessuna vigliaccheria, solo due felini che si affrontano per la sopravvivenza.

– È un problema per te?

Alza lo sguardo.

– Una volta ti ho detto di non aver mai ucciso un uomo, ma che lo avrei fatto se ce n’era bisogno.

– Non mi hai risposto.

– Voglio Lue fuori da quella casa, muoviamoci.

Non mi basta. Se tutto non è perfettamente coordinato, in un attimo ci saranno addosso.

– Ascolta. Io ho una figlia dalla quale tornare e la tua invece è lì dentro. Devi fare tutto quello che ti dico, se vogliamo avere almeno una speranza. Ora tocca a te fidarti.

– Mi fido, sei cambiato molto da quando sei arrivato, ma non sei un esperto di queste cose.

La bacio ancora. Premo fino a farle sanguinare il labbro.

– Su una cosa avevi ragione: sono il peggio che si può trovare in circolazione, più di voi, più di loro. Non me ne frega un cazzo di niente, solo di raggiungere il mio scopo. Non ho solo un corpo da usare, ma una testa affilata come un coltello e nessuna regola, scritta o non scritta.

– Per cui – finisco – basta stronzate ed esegui.

Fissa i miei occhi con quella fierezza che adoro.

– Io arrivo da dietro. Lo copro col sacco. Tu colpisci. Lo tengo stretto, non riuscirà a muoversi, a vedere o a urlare. È importante che tu raggiunga il cuore, il flusso sanguigno si bloccherà in un istante. Nessun ossigeno al cervello e il gioco è fatto, nessun rumore. Poi entriamo e spariamo solo se necessario.

Mima un sì impercettibile, ma siamo sulla stessa lunghezza d’onda.

Uccidere un uomo non è facile, normalmente. Lo si priva del suo passato, del suo presente e soprattutto del suo futuro, di tutto ciò che potrebbe fare o essere. Uccidere un animale è un po’ meno difficile. E lo dice uno che ha messo da parte la canna da pesca di suo padre, dopo aver fissato gli occhi vitrei di un pesce, sbattuto su una pietra.

Invece, uccidere un mostro mi riesce bene.

L’uomo, di cui ignoro il nome, supera l’angolo previsto. Lo blocco. Sacco in faccia. Lei sferra un preciso fendente al cuore. L’uomo mi cade tra le braccia e lo trascino nell’oscurità delle piante. La parte più complicata è il trascinamento. Vivo sulla pelle il significato del termine peso morto.

Faccio un cenno ad Aleksandra e apro la strada, visto che sono armato. In un attimo siamo di fronte alla porta. Muovo delicatamente la maniglia. È aperta, non si aspettano ospiti.

Una scrivania, con appoggiato un notebook portatile. Una stufa accesa. Un divano in velluto. Una poltrona moderna, che non c’entra nulla col resto. E Patrick.

Sta leggendo un libro, con le gambe allungate. Gli occhiali sul naso. Una tazza fumante appoggiata per terra di fianco a lui. Ci osserva come fossimo ospiti inattesi, ma senza scomporsi.

– Dov’è Lue? – lei gli vola sopra, piantandogli gli artigli sul collo.

Lui appoggia il libro a terra con destrezza, senza far rovesciare la tazza.

– Ricordavo che preferissi stare sotto – bofonchia.

– Bastardo, io ti…

Ma la fermo, perché ho visto Lue. È appollaiata in un angolo buio. Sopra una coperta, come un cane. È immobile. Non parla, ma osserva la finestra dondolandosi.

Lo tengo sotto tiro, mentre una madre raggiunge la figlia che le era stata rubata.

– Lue, sono io – la abbraccia – stai tranquilla, è tutto finito. Ti porto via di qui.

Smette di dondolare e inizia a piangere. È un bene.

– Siete arrivati in tempo, se è questo che ti chiedi – Patrick si rivolge a me – volevo prima finire questo capitolo e il caffè.

Non torna. Non sembra spaventato e, quel che è più strano, neppure sorpreso.

– Va’, Aleksandra! Sai dove – indico la porta.

Le osservo muoversi e mi sembra che il tempo rallenti. Lue apre gli occhi e mi vede, mentre ha il viso appoggiato alla spalla. La schiena della Veggente. La bambina infermiera. Il buio che entra dalla porta aperta. Ed io immobile, con la pistola in mano e un figlio di puttana dal quale vorrei delle risposte.

Ma non ora.

Aspetto il tempo necessario affinché si allontanino. Poi mi rendo conto che l’unica soluzione è ucciderlo, per evitare di ritrovarci i suoi uomini addosso. In silenzio.

Indossa gli occhiali, che nel frattempo erano finiti sul bracciolo, poi riprende la tazza e allunga le gambe sorseggiando.

– Tanto vale morire comodo – mi dice, con un ghigno.

Frugo con la mano libera nelle tasche. Afferro il coltello serramanico. Lo faccio scattare.

 

E ho la sensazione che un insetto mi cammini sul collo, appena sotto l’attaccatura dei capelli. Cerco di spostare la testa, ma qualcosa di solido spinge, come una punta dura e fredda.

– Lascia cadere la pistola.

È la voce del mio migliore amico.

Sorrido a me stesso. Sono proprio uno stronzo.

Non lo faccio immediatamente.

– David, lascia stare, lo renderesti solo più doloroso – e mi sferra una gomitata al rene.

La pistola cade sul pavimento di legno.

– Anche il coltello.

Rumore sordo.

– Ora mettiti comodo – m’indica la cuccia dov’era legata Lue.

Patrick nel frattempo si è alzato. Si avvicina a Marc e allunga la mano.

– Piacere. Dopo tanto parlare al telefono, finalmente ci conosciamo.

 

 

XXVI.

La coperta puzza di urina e lacrime, perché anche le lacrime hanno odore.

Mi accartoccio per terra, sotto tiro. Li vedo stringere la mano di fronte a me. Quasi non mi considerano.

– È andato tutto come previsto – è Patrick.

– Anche se il nostro amico si è rivelato più duro di quel che credevo – risponde Marc.

Il temporale si abbatte sopra la mia testa. Lo intuisco dai tuoni oltre le pareti. Eppure, tra le nuvole, scorgo un accenno di verità: due settimane fa non mi hanno liberato, hanno solo allungato il guinzaglio.

– Akim come se la passa?

– Il solito figlio di puttana. Si è fatto una barca nuova, a vela. Moglie, figlio e un paio di amanti, che cazzo di vita.

– Non si sta così male lì fuori, vero?

– Neppure qua, se le donne sono come quella che ho conosciuto.

Patrick sorride.

– Non mi lamento, anche se quella è meglio lasciarla stare, potrebbe tranciarti l’uccello durante un pompino.

La stufa scoppietta. Soffocare sta scritto sulla copertina del libro, che riposa sul bracciolo. Sono libero, ma non posso muovermi, perché ricordo perfettamente quanto Marc fosse preciso al poligono. Ascolto quel dialogo surreale e mi chiedo se ho fatto bene a lasciare Iris, ma non ci sarebbe stato scampo, Marc si era già insinuato nella nostra casa.

I conti non tornano. È stato gentile con Iris, troppo gentile, non gli serviva se aveva in mente tutto questo. E poi ci è stato accanto per tutti questi anni, non aveva motivi per farci del male.

– E tu? – si rivolgono a me.

– Non hai capito un cazzo, vero? – è Marc questa volta.

– Lascia stare la mia famiglia – rispondo.

Nel frattempo Patrick si è appropriato della pistola e mi tiene sotto tiro.

– Di quale famiglia parli? La donna che sembra uscita da un circo e la sua marmaglia, oppure Iris?

Cerco di alzarmi, ma mi spinge a terra con il piede e si avvicina, a pochi centimetri dal mio naso.

– Mio padre e mia figlia – sputo le parole.

– Capisco, allora intendi la mia famiglia. Quando hai scelto di tornare qui, lo sono diventati.

Il nonsenso.

– Mi hai rubato Elodie e la possibilità di crearmi una vita, sei solo un pezzo di merda – mi sferra un calcio alle palle.

Cado su un fianco e la mia testa frulla nel nulla più completo.

– Non lo sapevi, è? Non te l’ha mai detto. Era questo l’accordo tra noi.

– Sono un mare di stronzate – sputo fuori, con le mani tra le cosce.

Ma il mondo mi frana addosso.

– Meriti di sapere quanto sei imbecille. Dottore del cazzo. Io ed Elodie uscivamo insieme da anni. Eravamo una coppia perfetta, amici e fidanzati, ci saremmo dovuti sposare, avere dei figli. Ero felice e la carriera a portata di mano.

Patrick nel frattempo si è messo comodo.

– Poi è arrivata quella borsa di studio e sei arrivato tu – mi sputa in faccia.

Gioca con la pistola contro la mia guancia. Non dovrei piangere, ma non sempre si può scegliere.

– Basta uccidere tutte le certezze di un uomo – si rivolge a Patrick – e torna un bambino con una fottuta paura del buio.

– Non pensavo fosse una questione personale – risponde.

– Non sai quanto. Questo stronzo si è preso la mia donna, la mia vita. C’è stato un tempo in cui ho persino pensato che si fosse preso mia figlia.

A quelle parole smetto di singhiozzare.

– Iris è mia figlia.

– Bene, sei tornato tra noi. Certo che è tua figlia, ho fatto l’esame del DNA, non è stato complicato. Però ancora per poco, lei è la figlia che Elodie non ha mai potuto offrirmi.

I suoi occhi a pochi centimetri da me. L’alito alla menta. La pettinatura da bravo ragazzo. E di colpo l’unico essere umano che mi sia stato accanto negli ultimi anni si trasforma nel peggiore dei miei incubi.

– Un giorno è tornata – prosegue – dicendomi che era finita. Che con te aveva capito cosa voleva dire innamorarsi. Che ci teneva tantissimo a me, ma che entrambi avevamo confuso l’amicizia con l’amore.

Mi sputa ancora in faccia. Ed io lo immagino tornare da mia figlia, per dirle che sono morto, ma che non deve preoccuparsi, perché ora si occuperà lui di lei.

– Ha scelto te, il suo professore. L’hai manipolata con le parole e messa incinta.

– Mi amava – lo interrompo.

E ricevo di risposta il calcio della pistola in faccia.

Saliva e sangue tra e labbra, mentre le parole escono come un fiume in piena.

– Tutto questo solo perché ti ha lasciato? Sei pazzo. Perché hai atteso tutto questo tempo?

Si avvicina all’orecchio.

– Per aspettare il momento giusto. È da quattro anni che ti sono vicino, in silenzio. Da quando l’hai uccisa.

Mi allontano dalle sue parole.

– Il cancro l’ha uccisa.

Muove la testa.

– No, sei stato tu. E pensi che basti ubriacarsi una volta all’anno per lavarsi la coscienza?

– Ho fatto tutto il possibile.

– Ricordi il dottor Mercier?

Certo che lo ricordo. Era un luminare. Un giorno mi chiamò nel suo ufficio, affermando che c’era una sola lontana possibilità di salvare mia moglie: un’operazione di trapianto. Nelle sue condizioni, oramai critiche, non aveva la precedenza, ma se fossi stato disposto a sborsare una ragguardevole cifra era tutta un’altra faccenda.

– Che ne sai di questa storia? – gli chiedo.

– Abbastanza. Se ci pensi, alla fine ti trovi qui, ora, con la canna della mia pistola tra gli occhi, a causa tua. Dopo la sua morte ho iniziato a frequentare le persone sbagliate, che poi si sono rivelate quelle giuste. Akim Pashkyeen ne è l’esempio.

Sapeva che tutti gli anni, in quella precisa sera, mi ubriacavo. Sapeva che quello era l’unico momento dell’anno in cui non ero in me. Può aver suggerito lui stesso all’amico quel locale. Ha collocato le pedine nel posto giusto, poi ha sperato che le probabilità facessero il proprio gioco. Non ci voleva un genio a sospettare che avrei fatto una stronzata. O a consigliare ad Akim di liberarsi di me, non prima di farmi sopportare le pene dell’inferno.

Questo non può dirlo davanti a Patrick, capirebbe che Marc ha usato tutti, per i suoi scopi.

– Non eravate poi così legati – mi legge nel pensiero.

– Avrà avuto i suoi buoni motivi.

Su una cosa ha ragione: Elodie non mi ha mai confidato nulla del loro passato.

– Così hai orchestrato tutto. Lo sanno i tuoi compagni che ti sei servito di loro?

Pugno nello stomaco. Non ha apprezzato.

– Non è complicato come credi. Hai fatto un buon lavoro anche da solo, è bastato indirizzarti.

Cerco di guadagnare tempo, anche se non so per cosa.

– Tutta la polizia è implicata?

– Come sei ingenuo. Bastano poche persone nelle posizioni giuste, anche una per distretto. Sei solo un granello di sabbia sulla loro strada, ma per me vali un po’ di più. Dovevi soffrire per non aver tentato di tutto per salvarla.

Dovrei rispondere. Perdere ancora qualche minuto. Chiedere cosa ne ha fatto dei bambini, ma sono sfinito.

Si allontana di pochi passi. Rimette la pistola nella fondina. Si toglie la cintura. La stringe tra le dita e guarda Patrick.

– Spero tu non sia debole di stomaco.

– Nessun problema. Mettici tutto il tempo che ti serve.

Patrick si è mosso, per vedere meglio. È appoggiato alla finestra con la mia pistola in mano. Marc si avvicina. Mi alza come fossi fatto di stracci. Poi si mette dietro. Allunga le braccia sopra la mia testa e mi lega il collo con la cintura.

Dopotutto è una questione personale, penso, mentre il fiato inizia a mancare e non faccio in tempo a chiedere scusa a chi ho deluso.

– Non preoccuparti amico, mi occuperò io della tua famiglia.

 

 

XXVII.

Schegge di ricordi. Il frastuono di un vetro rotto. Un’ombra.

Dalle fessure delle palpebre vedo l’oscurità che entra dalla finestra, con le sembianze di un animale: il lupo azzanna Patrick al collo.

Cadono sulla scrivania. Il capo si contorce, cercando di liberarsi, ma la fiera non molla. Marc è immobile. Non può staccare la mano per impugnare la pistola e sta osservando la scena, senza capire.

Capelli neri e unti che coprono la faccia di Patrick. Sangue. Rumore di corpi. Caldo. Impattano contro la stufa. Odore di strinato. Le giunture della ghisa che si spaccano, vomitando cenere sulla parete.

Fumo. Caos. E il respiro di Marc dietro le orecchie.

Accade in un attimo. Uno sparo. Il bambino cade a terra con la bocca insanguinata. Poi sputa una boccata di collo dell’avversario. Non è carne buona neppure per lui. Patrick cerca di premere la propria ferita con tutte le forze.

E il tempo rallenta.

 

Il capo ha premuto il grilletto a distanza ravvicinata e ha bucato lo stomaco all’avversario. Il lupo è stato colpito. Dal petto sgorga un’onda di sangue scuro. Il respiro è lento. Ma Patrick non sta meglio. Si sta dissanguando sulla poltrona preferita e ha perso lo sguardo superbo di un tempo.

Stanno morendo entrambi, di fronte ai miei occhi, ai nostri occhi. Il bambino è supino, boccheggia, accartocciandosi in posizione fetale, come se volesse tornare nell’utero di una madre che ormai è solo un ricordo. Marc, nel frattempo, non ha emesso fiato.

Poi la vedo.

Entra dalla porta con passo lento. La tunica segue il corpo. Il fumo avvolge l’aria attorno al suo muoversi. La Veggente non ha lacrime, se non per i suoi figli. E il suo figliol prodigo sta morendo dinanzi a lei.

Prima si abbassa, vicino a Patrick, e con un gesto veloce gli infila il coltello tra gli occhi, infilandosi tra le congiunzioni della scatola cranica, fino al cervello. Uno spasmo, null’altro. Poi abbraccia il bambino. Il fuoco sta avvolgendo le pareti attorno a loro. Una madre non dovrebbe mai sopravvivere al proprio figlio.

Marc ha lasciato leggermente la presa attorno al collo. Provo a riempire i polmoni.

– Saluta la tua amichetta – sento sussurrare dietro le orecchie. Intravvedo uscire di fianco al mio braccio la pistola.

Abbasso la testa, come se qualcuno mi avesse sferrato un pugno allo stomaco, e con tutta la forza che mi rimane fracasso la nuca contro il suo naso.

Cade come un sacco di merda.

Mi giro di scatto. Gli tolgo la pistola dalle dita e me la ritrovo in mano. Punto la canna tra le sue pupille e osservo quel bel viso, storpiato da un naso rotto.

Dovrei riportarlo a Marsiglia, consegnarlo ai suoi superiori, sperando che mi credano. Dovrei ritrovare in me quella comprensione che qui ho rischiato di perdere. Perché tutto ha una spiegazione, perché anche Marc è stato tradito, perché ha sofferto non meno di me, perché tutti, anche in quest’assurdo mondo, devono avere una seconda possibilità. Oppure potrei sparargli e fuggire il più lontano possibile.

Non faccio nulla di ciò.

Osservo Aleksandra, che si è tolta la tunica e ha raccolto con un abbraccio il lupo, che nel frattempo è spirato. Chiudo gli occhi. Iris. Lue. Elodie. Mio padre. Mia madre. Tutti mi tengono compagnia, cercando di scaldarmi il cuore, ma non basta.

È troppo tardi.

Lancio la pistola lontano da me, stringo le dita a pugno e con entrambe le mani inizio a colpire. In alternanza. Senza smettere.

Fa male. Un male cane, ma non mi fermo.

Entro con le nocche nei bulbi oculari, sento le mie ossa scheggiarsi, mentre penetrano nel suo cranio, passando dalla frattura che ho creato nel naso. Trovo molle.

Ancora non mi fermo.

Continuo a continuo, sino a confondere il mio sangue col suo. Poi mi alzo e raggiungo la mia regina.

– Aiutami a lasciarlo qui.

Li abbraccio, mentre il calore sta diventando insostenibile.

So cosa intende. Lo posiamo in terra assieme e la forzo ad allontanarsi. Procediamo all’indietro, ipnotizzati dal piccolo eroe. Ha gli occhi chiusi. Vederlo immobile, eco di ciò che era, è strano, in nessun altro avevo percepito una tale vitalità. Chiudiamo la porta. Si trasformerà in fumo, per essere finalmente libero di librare in cielo, lontano da tutto questo schifo. Ma anche lontano da noi e dai suoi fratelli, gli unici che lo hanno amato.

Afferro le pistole e lasciamo il castello in fiamme dietro le nostre spalle, senza preoccuparci degli uomini del Villaggio, perché siamo più preoccupati della belva che si nasconde dentro di noi.

Uomini e donne ci corrono incontro, nessun bambino, se li sono già presi tutti. Io ho in mano entrambe le armi e inizio a sparare. Non per difenderci, ma per uccidere, li vedo cadere e fuggire di fronte ai miei colpi. Mostri di ogni sesso ed età che fuggono dalle fiamme dell’inferno.

– David, ti prego, andiamocene, dobbiamo raggiungere gli altri.

Non smetto di sparare. Carico e sparo. Carico e sparo. Smetto di contarli quando sono al confine del Villaggio. E anche lì, ogni tanto mi volto, sperando di ucciderne ancora uno. Un bastardo in meno su questa terra.

Mille uomini per l’innocenza di un solo bambino, questi sono i conti. Quindi devo muovermi, sono in credito.

Solo quando sono dentro al bosco, mi accorgo di avere le mani insanguinate e le nocche probabilmente rotte. Aleksandra mi sta osservando.

– Non aver paura – le dico – mi sono calmato.

Non risponde. Non subito.

– È morto per colpa mia – proseguo.

– Ha sempre creduto in te. L’hanno ucciso quei bastardi, si è sacrificato perché sapeva che solo tu potevi salvarci.

È la prima volta che la vedo piangere.

– Come mai sei tornata?

– Io e Lue ci siamo imbattuti nei ragazzi, durante la fuga. Il tuo amico si era fermato vicino al Villaggio e li aveva chiusi nella roulotte. Ha conciato male il Maggiore, ma è un ragazzo forte.

Iniziamo a correre. Mangiamo la terra con le zampe per una decina di minuti, prima di raggiungere la jeep e la roulotte.

 

È l’ora che precede l’alba. Tutto l’esercito ci sta aspettando. Il Maggiore zoppica vistosamente e Lue è in prima fila.

– David, David – mi corre incontro. Mi abbraccia e piange, ma sono lacrime di felicità, di chi non pensava di avere ancora una speranza.

Aleksandra spiega ai ragazzi che il lupo sarà sempre con loro, perché grazie a lui saranno liberi.

– Ora dobbiamo andarcene – intervengo – voi tre – indico il Maggiore e due bambini più piccoli – con noi nella macchina. Gli altri sulla roulotte. Veloce.

Ubbidiscono senza cenni e siamo pronti per la partenza.

– Tu e Lue con me, davanti – mi rivolgo ad Aleksandra – potrei aver bisogno di voi.

Controllo il gancio. Le gomme. La strada di fronte a noi. Poi accendo il motore e procedo. Solo quando raggiungo il capanno, mi accorgo che ce l’abbiamo fatta.

Ma fino a quando?

– In fondo, nessuno può ritenersi al sicuro dal proprio futuro – rispondo a me stesso, a voce alta.

Di fianco a me Aleksandra sta sorridendo a Lue, la accoglie sulle sue gambe e stanno guardando fuori dal finestrino. La vetta della collina non è poi così alta, da quest’angolazione. Un nuovo mondo si apre loro, ma non meno ricco di pericoli.

Quasi in sogno ricevo il segnale acustico del telefono. Notifica di ricezione di campo. Siamo a un chilometro dal confine e la linea è tornata. Batto timidamente i tasti e aspetto.

Risponde mio padre.

– Sono io, pa’.

– David – la voce è lontana.

– Come state?

– Bene. Iris si è appena svegliata, tra poco facciamo colazione. Tua figlia è troppo mattiniera.

Sorrido.

– Passamela, pa’ – ho gli sguardi di tutti addosso.

– Tu stai bene?

– Sì, tranquillo, ma ci sono un po’ di novità.

– Poi mi racconterai. Iris, c’è il papà al telefono.

Rumori di passi in lontananza.

– Papa, quando torni?

– Prima del previsto. Per pranzo.

Silenzio.

– Mi hai portato un regalo?

Guardo Lue e Aleksandra, ancora sporca di sangue e cenere.

– Certo, piccola, più di uno.

L’eco di un sorriso al di là dell’etere.

– Mi sei mancato, ti voglio bene.

– Anch’io, amore mio. Tutto il bene del mondo.

Chiudo la conversazione tra le lacrime. Aleksandra mi sta osservando. Allunga la mano e mi accarezza il braccio, proprio mentre sto cambiando la marcia. La radio inizia a prendere e la prima canzone che ci raggiunge è No more blue di Roberto Ciotti.

Abbiamo il lupo negli occhi e il suo silenzioso ricordo nel cuore.

Dovrei chiedermi se la Pashkyeen ci cercherà. Se ci sono altri Villaggi dell’orrore, dispersi nel mondo. Se la polizia e la società capiranno un non luogo, dove i sentimenti contano più delle regole scritte.

Ma in fondo non importa, in un modo o nell’altro staremo insieme. Io e le mie due famiglie.

È questo che Aleksandra ci ha insegnato: noi siamo la nostra casa.

Così non penso alla mia nuova fame, né a quanti uomini ho ucciso. Perché, in verità, mi rammarico solo di non aver avuto abbastanza tempo e pallottole. Per ucciderli tutti.

Osservo in lontananza una lunga scia di fumo. Non è facile fermare il fuoco che mi sono lasciato alle spalle. Si è divorato il Villaggio e parte della Foresta.

Ora sta tingendo il cielo dei colori dell’attesa.

 

Ed è solo l’inizio.

 

PROLOGO

 

– Amore, c’è una possibilità.

Elodie mi guarda con occhi spenti ed io l’abbraccio.

– Me ne ha parlato il primario – risponde.

Fa fatica a respirare. È sempre così dopo la chemio.

– Non mi convince, David.

– Non scherzare, dobbiamo tentarle tutte.

Mi guarda. Fuori c’è il sole e il mio cuore sta battendo a mille.

Non posso arrabbiarmi con lei.

– Il dottor Mercier mi ha spiegato che le probabilità non sono molte. Rischierei di passare gli ultimi mesi in un ospedale e non con le persone che amo di più – mi accarezza la guancia.

Elodie è sempre bellissima.

 I capelli castani e ondulati le invadono la fronte, evidenziando l’azzurro degli occhi.

Non è giusto ciò che sta succedendo.

– Non farmi insistere. Mi sono già attivato a recuperare la cifra.

– Proprio di questo volevo parlarti – m’interrompe.

– Non è una questione di soldi. Mio padre mi ha già detto che ci aiuta e ho la possibilità di richiedere l’anticipo della pensione.

Tocca le mie labbra con le dita. È debole.

– Sono malata ma non stupida. Non sono una delle prime nella lista, ce ne siamo accorti tardi. E con una cifra simile sono certa che la provenienza non sia legale.

Commercio illegale di organi. Non è un segreto.

– E allora?

– Allora io non sono così. Non vivo uccidendo qualcun altro.

Io sì, non le dico. A me non frega nulla. Voglio lei, voglio che viva a qualsiasi costo.

– Devi farmi una promessa.

Mi avvicino.

– Non obbligarmi a rinunciare a me stessa. Qualsiasi cosa succeda. Fino alla fine.

– Non posso, amore.

Mi alza il viso e punta il suo sguardo dritto nella mia anima.

– Giurami che lascerai stare e che…

È sempre stata la più forte tra noi. Quella che ha fede.

– Rispetterò le tue scelte e proteggerò sempre Iris – rispondo.

Sorride.

 

 E mi bacia con quel calore che solo l’attimo senza futuro porta con sé.

 

 


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