"La fiaba della buonanotte" di Lucio Figini (parte decima)


marsiglia

 

XXI.

Il negoziante di fronte a me ha la faccia da pugile in pensione. Schiacciata. Naso storto. Zigomo destro con una profonda cicatrice.

L’officina è sporca. Tre macchine utilitarie sui sollevatori e una Mercedes bianca che riposa in un angolo.

– Sono centocinquanta euro al giorno, per un minimo di tre giorni.

Cazzo.

– Mi sembra caro. Mica devo comprarla.

– Non sta noleggiando un’auto comune – inspira dalla sigaretta elettronica ed espira vapore acqueo dal pessimo aroma – questa è una Jepp Wrangler Rubicon, cerchi racing 15 e pneumatici Cooper da 35”, paraurti rinforzati per uso gravoso, anteriori e posteriori, copri differenziali rinforzati. Un motore da 200 cavalli.

Annuisco, senza capirci nulla.

– Può anche prendere quel Nissan Terrano, un ottimo mezzo, salvo che non debba andare in guerra.

– Vado a pesca, niente di che. Ma voglio togliermi una voglia.

– Veda lei. Per il fine settimana c’è un supplemento di cento euro – conclude.

Mezz’ora dopo salgo sul carro armato e mi dirigo verso casa. È una sensazione particolare: grezzo, spartano, scomodo.

– Marc, sono io.

Lo contatto al lavoro.

– Ciao – risponde, poi lascia trascorrere alcuni secondi – che succede?

– Niente, volevo salutarti.

– È la prima volta che mi telefoni tu dopo…

– …il ritorno dal mondo dei morti? – concludo per lui.

– Sembri su di giri.

– Sono solo stanco di fare il malato e di rintanarmi in casa. Sto meglio.

– Buon per te. Io devo lavorare, invece.

– Ok, ma ti rubo solo un minuto. Devo farti una proposta.

– Sono tutt’orecchi.

– Andiamo a pescare insieme, questo fine settimana.

– Tu a pescare, ma da quando?

– Prima di conoscerti ero un appassionato.

– Non lo sapevo. Comunque, potevi anche dirmelo prima.

– Prenditi una pausa, amico, passiamo un paio di giorni insieme. Ho trovato un posto perso nel nulla. Fiumi, laghi, boschi e tranquillità.

Silenzio.

– E sia. Non prendo in mano una canna da anni ormai, ma se ti va di portarti dietro un dilettante, ti seguo.

– Allora a domani mattina.

– Cazzo, è vero, è già finita la settimana.

– Per un venerdì lascia stare le donne e prepara lo zaino, giusto un cambio, al resto ci penso io – in verità, non l’ho mai visto con una ragazza, in tutti questi anni.

– La macchina?

– Andiamo con la mia.

– Da quando ne hai una? Con quella di tuo padre ci mettiamo una vita.

– Non preoccuparti, ne ho noleggiata una.

– Mi spaventi.

– Dimenticavo, alle quattro.

– Di notte? Sei fuori di testa?

– Ho calcolato che ci mettiamo tre o quattro ore, così guadagniamo la giornata. Tranquillo, io guido e tu dormi.

– Certo, tranquillissimo.

– Dovresti farmi un favore, porta la pistola – aggiungo.

Attimi di silenzio.

– Mi spiace, Marc, ho ancora paura.

– Nessun problema. Posso capire, ma salvo che tu non voglia uccidere qualche castoro, non credo ce ne sarà bisogno.

Parcheggio il transatlantico in una via parallela all’università, non troppo vicino a casa. Non è facile scendere, devo tenermi al volante, perché l’altezza da terra è notevole per uno della mia statura. Respiro l’aria frizzante del mattino inoltrato e osservo la gente. Studenti al primo anno, seduti sulle panchine, leggono testi in attesa di qualche illuminazione. Una volta ero come loro, pensavo che non ci fosse nulla di più interessante che invadere i labirinti della mente. Come se lì fosse celato il segreto dell’esistenza, o meglio, il passaggio dalla vita animale all’uomo sapiens. L’aula, dove in un altro tempo tenevo sermoni, è occupata da un supplente.

Il vero piacere dell’insegnare sta nel conquistare l’attenzione di menti fameliche di sapere. Senza dimenticare una buona dose di egocentrismo, non poco narcisismo e il sottile piacere della manipolazione di un altro essere umano. Eppure questo nessuno lo dice. Educare, ex-ducere, accompagnare oltre, fuori dal tunnel dell’ignoranza, che mare di stronzate. Adattamento sociale, tutto qua. Meglio insegniamo ai corsisti ad adattarsi alla realtà contemporanea e più possibilità avranno da guadagnarsi lo stipendio. Piccoli psicologi in erba con la voglia di conquistare il mondo, peccato che il mondo si evolve a una tale velocità da rendere vani i loro sforzi. La fortuna è che ci sono talmente tanti sociopatici, psicopatici, disillusi, depressi, vigliacchi, che il lavoro non manca. Benché il soma, la felicità a portata di mano, direbbe Thomas Huxley, abbia già invaso il nostro verde pianeta, con molecole a funzione neurolettica, antidepressiva o sedativa di ultima generazione. E la cosa più carina è che ci conquistano con i nomi più tranquillizzanti del mondo.

Saluto due di loro e quasi non mi riconoscono. Sento in lontananza i loro sguardi, i loro dubbi, i loro banali pensieri. Certo, ragazzi miei, ho cambiato pelle, vorrei urlar loro, mi hanno strappato quella vecchia, cosa dovevo fare? Restare nudo? Lezione sulle origini dello spirito di sopravvivenza. Tutti senza vestiti a rotolarsi per terra a confrontarci i genitali. Chi c’è l’ha più lungo perde, qui le regole sono diverse. Piccoli bastardi che giocano col cellulare, che godono dell’ultima applicazione disponibile sul mercato. Avete avuto tutto e vi crogiolate nel fango. Aleksandra e la sua squadra di marmocchi vi mangerebbero a colazione. Letteralmente.

Corro. Percepisco pulsare i miei organi interni, come volessero uscire. Una mamma che tiene per mano un bambino, un vecchio che legge il giornale, ma che gliene frega, tra un mese sarà morto, due donne che omaggiano la primavera con le prime gonne corte, leggere, provocanti, un uomo d’affari, un vigile, un cane che porta a spasso la padrona.

Raggiungo casa. Spalanco la porta e mi fiondo nella vasca. Acqua che disegna un invisibile campo di forza attorno alla mia pelle, osservo le gambe bagnate e finalmente le vedo: due cicatrici lunghe e leggermente a iperbole, con piccoli, ma decisi punti che s’intervallano a un centimetro gli uni dagli altri. Una certezza. Lue, hai fatto un buon lavoro, grazie a te sono un Frankenstein nuovo di zecca.

Dio che mal di testa.

In fondo vorrei tutto, solamente tutto: Elodie ancora viva, Iris accanto a me, Lue che gioca con lei, Aleksandra che mi usa a suo piacimento, un bambino lupo come amico. Vorrei solo tornare a credere che la centralità dell’uomo non sia sopravvalutata.

– David.

Mio padre. La sua voce. La mia voce. Freddo. Umidità. Il mio culo che toppa lo scarico e acqua dappertutto.

– David, apri. Che succede?

Mi muovo a fatica.

– Papà. Papà – Iris.

– Tutto bene. Mi sono solo addormentato nella vasca. Adesso asciugo il bagno e vengo.

Il respirare a volte è sottovalutato. Metto a posto e in un quarto d’ora sono fuori.

Uno scemo che si addormenta in una vasca, dico loro. E ridono.

Durante la cena chiedo il permesso di prendermi un paio di giorni, per andare a pescare. Mio padre ne è felice, Iris trattiene le lacrime.

– Marc mi ha invitato, non vado solo, stai tranquilla.

– Voglio venire anch’io.

– E chi ci sta con me? – interviene mio padre.

– Si tratta solo di un giorno, alla fine, dopodomani torno, prima che tu vada a dormire.  Facciamo così, se tu sei già nel mondo dei sogni, faccio una magia sotto il cuscino.

È indecisa tra il ridere e il piangere, poi respira.

– Me lo prometti?

– Andrà tutto bene. Tu fai i compiti e fatti portare dal nonno a prendere il gelato.

– Papà – interrompe le mie parole, alzando la voce – promettilo.

Non distoglie gli occhi. Un attimo infinito.

– Lo prometto.

Voglio che tu sia fiera di me, piccola. Questo conta più di qualsiasi altra cosa.

È stanca. Subito dopo cena l’accompagno a letto, sperando che, almeno questa sera, mi eviti imbarazzanti quesiti sulla vita, la morte e l’universo.

– Ti faccio vedere una cosa – allunga la mano verso il cassetto del comodino.

– Cos’è?

– Un fischietto bussola, me lo ha regalato Marc. Se ho bisogno di aiuto, posso fischiare.

– Non ti capiterà nulla, stai tranquilla.

– Me l’ha detto anche lui, ma avevo paura comunque e me lo ha comprato.

– E la bussola cosa ti serve?

Si avvicina al mio orecchio.

– Per ritrovare sempre la strada, così almeno mi ha detto Marc. Quando sono triste, devo solo aprirla e osservare dove punta il nord, perché il nord – indica un punto alla penombra, vicino alla finestra – è sempre di lì.

Sorrido.

– È un buon amico.

Prende la mia mano e la usa da cuscino. Ci mette dieci minuti ad addormentarsi.

Mi alzo e vado in camera. Preparo lo zaino. Un cannocchiale, una bottiglietta d’acqua, una bussola, che non credo di saper usare, comprata dall’armaiolo con la battuta facile, un set di garze e una felpa. Aggiungo tutti i caricatori che possiedo, stando attento a non essere visto da mio padre. Mi sono equipaggiato con pantaloni con tasche laterali, dove tenere il coltello serramanico e tutto ciò che può essere utile per pescare.

– Sono felice che ti prenda una pausa – la voce mi fa scattare.

– Pa’, cavolo, mi spaventi.

– Scusa.

– Sono io che ti chiedo scusa – lo interrompo – non sono stato molto in me da quando sono tornato.

Sorride ed io, senza che se lo aspetti, lo bacio sulla fronte.

Osservo la sua schiena uscire dalla stanza. Chiudo la porta e prendo la pistola. La pulisco come mi ha insegnato Marc e la chiudo in una tasca interna dello zaino, non prima di aver agganciato una fondina alla cintura per l’indomani.

Poi siedo nella poltrona accanto alla mia bimba, metto la sveglia con la vibrazione nel cellulare e infilo quest’ultimo in tasca. I suoi capelli cadono sulla fronte, le mani sono immobili, una sopra all’altra, come in preghiera. Non sento il respiro. Mi alzo, mi avvicino, umidifico il mio indice e le sfioro le narici. Sento freddo, l’aria che esce dai suoi polmoni, e sono sereno. Annuso i suoi capelli. Accarezzo le guance. Il collo. La bacio sula fronte, come ho fatto con mio padre, ma lei non si sveglia.

Dormi bene, amore mio, e fai dei buoni sogni. Tuo padre starà accanto a te questa notte, perché tu lo protegga.

 

XXII.

Ore 3.45 di notte.

Una tazza vuota, un succo di frutta all’ananas, la moka sul fornello, in attesa che il fuoco sia acceso. E un biglietto.

Ricorda che hai una figlia,

Papà.

Giro il foglio e allungo la mano verso una penna.

Non preoccuparti. Ho imparato la lezione.

Ti voglio bene,

Davide.

La città mi sta stretta. Ho voglia di aria, di cielo, di natura.

Buio fuori dalle mura e il mattino ancora lontano. Sono in ritardo, ma la colazione è sacra e la caffeina è l’unica droga che mi concedo.

Passeggiare al fresco di Marsiglia è piacevole, devio tra vicoli antichi per raggiungere il parcheggio. Osservo il lato sud dell’università, le finestre chiuse e l’eco delle parole che impregna l’aria. Poi mi scontro con il carro armato che ho affittato.

Accendo quasi con rispetto, per non svegliare la città. Lo indosso, più che lo guido, come potrei indossare un vestito troppo appariscente, che poco mi si addice.

Dieci minuti e sono sotto l’appartamento. Uno squillo e lui esce dalla porta con aria assonnata.

– Ma che cavolo…

Scendo e mi appoggio al parafango rinforzato.

– Ti piace?

Mi ride in faccia.

– Lo prendo per un sì.

– Sei pazzo.

– L’ho solo noleggiato.

Alla fine rimaniamo bambini per sempre, cambiano solamente i giocattoli.

Getto le chiavi a Marc e mi dirigo dalla parte del passeggero.

– Fortuna che dovevi guidare tu.

Sbadiglio e allungo le gambe.

– Sono stato sveglio tutta la notte. Direzione Tolosa – gli allungo la cartina – tra un’oretta ti do il cambio.

La sua mano sulla spalla.

– Notte difficile?

– No, anzi. Ho solo guardato Iris dormire per tutto il tempo.

Si volta nella mia direzione. Accende il motore, cerca alla radio la stazione giusta e innesca la marcia.

– È una bambina speciale.

– A chi lo dici.

Strizzo gli occhi per obbligarli a reggere ancora un paio di minuti.

– Mi ha detto che le sei stato vicino, in mia assenza. Non sai quanto sia importante.

– Nessun problema, amico. È come fosse una figlia per me. Ma ci sei mancato.

Appoggio la testa sullo schienale. Osservo i lineamenti di Marc che contrastano con le luci della città, oltre il finestrino. È la prima notte che lascio la mia dolce prigione, mi mancava. Ho solo bisogno di far riposare gli occhi una manciata di minuti.

 

Mi sveglio alle prime luci dell’alba. In un parcheggio. Solo.

Leggo l’insegna dell’Autogrill. Un non luogo, dove tutto può accadere. Un tir riposa in un angolo, occupa lo spazio di una decina di automobili. Le tendine sono tirate. Un camper bianco, con un paio di biciclette legate dietro, sta facendo gasolio. Le luci sono accese e s’intravvede una donna che gioca con due bambini. Sorrido pensando alla faccia del mio amico, quando mi vedrà pescare. Ho portato canne e lenze, trovate tra le cianfrusaglie di mio padre, ma non ho idea di come si usino.

– Buongiorno, bell’addormentato – è la voce di Marc, che bussa al finestrino – per fortuna che dovevi darmi il cambio.

– Dove siamo?

– Appena prima di Tolosa.

– Da quanto tempo dormo?

– Tre ore o più. E, lasciatelo dire, quest’affare sarà anche bello, ma è scomodissimo. Dai scendi, che facciamo colazione.

Per me caffè e due cannoli al cioccolato. Lui prende solo un caffè.

– Allora, David, me lo dici o no, dove stiamo andando?

– Morxcec, vicino al fiume Leeyr.

Mi guarda meravigliato.

– Non conosci la tua amata Francia?

– A quanto pare non bene come pensavo.

– È proprio al confine di un parco naturalistico. Bellissimi boschi, torrenti e tranquillità. Proprio ciò di cui ho bisogno.

– Abbiamo – mi corregge.

Lo guardo, ha l’aria stanca.

– Anche per te non deve essere stata una passeggiata.

Devia lo sguardo su una coppia di ragazzi.

– Non è stato facile. Pensavo di non rivederti.

– Adesso non metterla sul romantico.

– Non sto scherzando. Tu non c’eri, non li hai visti. Tuo padre, i primi giorni, non si è perso d’animo, ma verso la fine anche lui si è chiuso in un mutismo totale. Se non fossi tornato, non me lo sarei mai perdonato.

– Non è che mi stessi divertendo.

– Lo so, ma sentivo i loro occhi su di me, come se potessi fare qualcosa.

Gli tremano le mani.

– Non ce l’ho con te – intervengo – è andata come doveva andare. Se fossi intervenuto, probabilmente saresti morto e non ci troveremmo qui, davanti a questo pessimo caffè.

– Su questo ti do ragione, sul caffè intendo. È proprio orribile.

Un bambino entra di corsa e urta il tavolino. La madre non supera i trent’anni, pantaloni attillati e camicetta che fa intravvedere il seno, capello biondo cenere e una gran voglia di farsi notare. Sgrida il figlio e indirizza a Marc uno sguardo che accoltella il cuore. Lui risponde con un cenno.

Poi mi nota. Allontana il figlio e abbassa gli occhi.

– Non si preoccupi, non è pericoloso.

Lei sorride.

– Se hai finito di divertirti – intervengo.

– Il mio amico è uno degli psicoterapeuti più apprezzati della Francia.

– E smettila – gli pizzico l’avambraccio.

– Lo giuro, signora – continua – a vederlo così non si direbbe, lo so.

Il bambino prosegue la sua corsa e la mamma lo segue, ma non senza voltarsi nella nostra direzione.

– Non posso ancora crederci. In fondo, però, in una cosa non sei cambiato: continui a evitare le donne.

Non sa quanto sbaglia.

– Marc, ancora mi manca. Nessuna è come lei.

– Era la mia migliore amica, la conoscevo dalle medie: una donna speciale. Ma…

– …vorrebbe che io conoscessi altre donne – lo interrompo – questo vuoi dire? È la cosa più scontata e banale che abbia sentito.

– Ma anche la più vera – finisce per me la frase.

 

Saliamo in macchina. La radio regala una delle prime canzoni dei Depeche Mode, una musicalità ritmata e surreale ci accompagna verso Tolosa.

L’autostrada devia la città sulla destra e si allontana direzione Bordeax. Ci vuole mezz’ora piena per lasciare i palazzi alle spalle. Metropoli, formicai che raccolgono impazzite pedine di un gioco assurdo. L’urbanizzazione è una piaga. Iris non ha mai conosciuto il piacere di vivere a contatto con la natura, l’avrebbe aiutata a crescere, a sentire di far parte di qualcosa, che non sia un semplice gruppo di banali esseri umani.

– A cosa stai pensando?

– Pensare è sopravvalutato, credimi.

– Non fare lo psicologo saccente con me e dimmi invece se manca molto.

– Un paio d’ore, forse meno.

– Lontano, il posto che hai scelto. Allora mi faccio una dormita, visto che non mi sembri dell’idea di fare due chiacchiere.

Si toglie la felpa, la stropiccia a formare un cuscino e se la mette sotto la testa. Poi fa scendere di un paio di tacche lo schienale e chiude gli occhi.

Gocce leggere sul tergicristallo. Abbasso la radio per ascoltare il ritmo della pioggia. Fatico a non superare i 150. Cemento bagnato o meno, questo mezzo è eccezionale. Campagna, paesi isolati e ancora campagna, colline e cime in lontananza.

Morxcec è sperso nel nulla. Mi ci ritrovo senza quasi accorgermene, nonostante curve su curve. Non è ancora mezzogiorno, poche persone per le strade. Cerco di farmi un’idea del territorio. Supero un ponte, sulla destra alcuni animali chiusi in una recinzione, una decina di mucche insieme a qualche gallina. Poi un parco giochi, vicino a un campo da calcio per nulla curato. Un altro ponte sopra un ruscello e la salita verso un altopiano.

Proseguo fino a un parcheggio e, senza svegliare Marc, scendo dalla macchina. Entro in punta di piedi nel centro storico. Una fontana attira la mia attenzione: l’acqua scorre incessantemente, sopra una roccia lavorata dall’erosione e dall’uomo. Probabilmente le donne, in epoca passata, ci pulivano le vesti. Case vecchie, in sasso e mattoni pieni, alcune non abitate, altre invece ristrutturate in economia. Mi ricorda un paese di collina della mia infanzia, abbandonato dai giovani per rintanarsi in squallidi appartamenti di città, un po’ come il mio.

Trovo i primi segni di civiltà. Un negozio di generi alimentari, una ferramenta, un municipio, una chiesa, una scuola elementare chiusa, una casa su due piani che fa da bar ristorante.

Prendo un caffè e chiedo informazioni. Il proprietario non è molto loquace. Posti per pescare ce ne sono molti da queste parti, basta seguire il fiume. Un solo hotel in paese, di cui lui è proprietario. Trenta euro a notte, a testa, colazione esclusa. Chiedo dove sia l’ufficio della Pashkyeen, ma la sua espressione mi basta come risposta.

– Dove finisce la strada che costeggia il fiume? – tiro fuori la cartina e indico il luogo misterioso, oscurato dal satellite.

– Non c’è nulla di buono da quelle parti – risponde, senza alzare gli occhi dal bancone – solo un cantiere e un parco naturalistico dove è vietato pescare.

Non lo ringrazio per le informazioni.

Torno sui miei passi, ma alla fontana trovo Marc, che nel frattempo si è svegliato e si sta dissetando.

– Dove mi hai portato?

– A destinazione. Ho prenotato per questa notte nell’unico affittacamere disponibile. Vedrai che bellezza.

– Immagino. Si vede subito che è un paese pieno di vita.

Portiamo il poco bagaglio in stanza e trascorriamo il pomeriggio a passeggiare per i boschi. Ha smesso di piovere e un timido sole illumina l’erba ancora bagnata. La natura si risveglia in questa stagione.

Ed io con lei.

 

XXIII.

– Ed io dovrei dormire lì?

Due lettini. Pochi centimetri l’uno dall’altro. Squallido è il termine più appropriato.

– Quasi quasi possiamo unirli – strizzo l’occhio.

Il suo sguardo dice tutto.

– Però la pizza non era male.

Getta lo zaino sull’unica poltrona disponibile, di velluto grigio, che raccoglie anni di polvere.

– Sembrava che ci facessero un piacere. E poi si offendono se li chiamano paesani.

Mi getto sul letto.

– Dopotutto hanno le loro ragioni. I giovani se ne sono andati a cercar fortuna e si ritrovano a sopravvivere con quei pochi turisti, che sfruttano i loro fiumi senza avere il minimo legame con questi luoghi.

– Sarà, ma la camera fa schifo e il trattamento anche.

– Vado a farmi una doccia, poi ti aspetto giù.

Mi guarda.

– Per far cosa? Una partita a scopa?

– Stasera usciamo.

Non mi degna di una risposta, ma io insisto.

– È una splendida serata. Voglio provare la jeep nelle strade di campagna, visto quanto l’ho pagata.

– Di notte? Che ti frulla nella testa?

– Non sei mai stato ragazzo? Facciamo un giro e poi torniamo. Tranquillo, ti riporto a dormire presto.

La doccia è gelata, ma questo è un bene. Osservo allo specchio le mie ferite. La faccia è a posto, se non fosse per la bruciatura che spezza una delle sopraciglia, ma non mi dispiace. Le gambe rimarranno segnate per sempre, come se fossi reduce da un’operazione poco curata. Accarezzo sotto il costato, sulla destra il morso di Aleksandra si è totalmente rimarginato, ma la pelle è rimasta più rosea. All’altezza dello stomaco è ancora evidente il punto in cui ha tentato di penetrarmi con le unghie. Mi è entrata nella pancia e si annida come un Alien, del quale non riesco a liberarmi. Dannata simbiosi emotiva.

Guardo il cellulare, appoggiato sul bordo del lavandino. Dovrei telefonare a casa, salutare Iris, ma non lo faccio. Non lo sopporterei. Il nonno ti starà accanto, amore mio, non c’è nulla di cui preoccuparsi.

– Allora hai finito? Sei peggio di una donna.

Esco con l’asciugamano legato in vita e i capelli bagnati. Marc cerca di non guardarmi. Ho disegnato sul corpo ciò che non ho avuto il coraggio di dirgli.

Mentre lui è in bagno, io mi preparo. Pantaloni mimetici comodi, maglietta bianca, coltello serramanico nella tasca laterale, fondina sulle spalle e pistola. Infine una felpa abbondante, per nascondere l’arma. Non è della natura che bisogna avere paura, ma degli uomini. Per fortuna oltre la foresta non intuisco altro che il baccano sordo del bosco. Eppure l’esperienza mi ha insegnato che la notte può sempre essere pericolosa.

Marc non è lento come me, si lava e veste in pochi minuti. Gli chiedo di portarsi dietro la pistola e lui acconsente, sa che una disavventura come la mia lascia cicatrici anche dentro. E non ha torto.

Lasciamo le chiavi e salutiamo il gestore, che ci ricambia con freddezza.

L’aria è gelida, in queste colline le stagioni hanno tempi diversi. Guido io. Il frastuono dei 200 cavalli invade il buio, accendo anche le luci supplementari, poste appena sotto i fari, tra il paraurti rinforzato.

– Ti diverti?

Fin che posso, non rispondo.

Direzione fiume. Non supero il ponte, ma devio sulla destra e lo costeggio.

– Dove mi porti?

– Sinceramente non lo so. Seguiamo la corrente, volevo scoprire se il fiume nasce da quella cima.

Attraversiamo boschi su boschi, le piante sono alte e s’incrociano sopra alla strada, a volta. Di giorno ci metteremmo a ridere, ma di notte è diverso. Sembra di entrare nelle porte dell’inferno e poi di colpo ritrovare un paradiso di stelle. In lontananza ci giunge l’eco di un temporale, ma sopra le nostre teste ancora nessun segno.

Sono in un territorio straniero, nulla di conosciuto di fronte ai miei occhi. Solo oscurità. La presenza di Marc mi tranquillizza. Sembra l’uomo più pacifico del mondo, mentre gioca con le stazioni della radio, per trovarne una che prenda. Stringo tra le dita il cellulare. Cambio di programma: voglio dare la buonanotte a Iris. Ma non c’è campo.

– Devo ammettere che hai avuto una buona idea – apre il finestrino con aria da bambino – ma tra poco guido io.

– Non c’è fretta, al ritorno tocca a…

E la vedo.

Una luce in lontananza. Abbiamo lasciato da una quindicina di minuti il fiume e da un momento all’altro mi aspetto di rivederlo di fianco a me. Invece nulla, solo quella luce. Un puntino irreale che liberamente sfarfalla.

– Che c’è?

– Dammi la cartina.

– Che succede?

– Niente – rispondo accendendo la luce interna – mi ero segnato un posto.

Un occhio sulla strada e uno sulla mappa. Ci siamo. La macchia oscurata, che nella carta ho evidenziato con un lunghissimo cerchio in penna rossa, si deve trovare a non più di un paio di chilometri da noi. La boscaglia è finita e di fronte ci aspettano campi di erba selvatica e alberi dal fusto fragile. Esco dall’asfalto e proseguo per un sentiero, diminuisco la velocità e spengo i fari.

Marc mi guarda.

– Ho sempre sognato di farlo – cerco un sorriso dentro di me – da ragazzo lo chiamavo Planetario in movimento.

Lui alza il finestrino. Non ha dato peso al bagliore.

– Basta che non ci infiliamo in qualche fosso. Ci sei?

– Sì, tutto ok. Sto solo cercando di non sentirmi più un malato.

Si avvicina al mio orecchio.

– Però la prossima volta ci portiamo due ragazze.

Il mio respiro è calmo. Il cuore invece pulsa a mille. Ricordi che riprendono via. E una luce che si avvicina.

 

Incontriamo una recinzione di ferro e filo spinato.

– Mi spiace, amico, ma qui non si passa. Deve essere il parco naturalistico di cui parlavi.

Il mio cenno di assenso.

La riconosco.

Ombre fuori di noi. Dentro di me. Attorno a tutto ciò cui ho sempre dato valore.

Costeggio il filo, fino ad avvicinarmi al punto luminoso. Marc si chiede a voce alta cosa possa essere. Ma io non rispondo. Poi trovo una strada, che taglia sulla sinistra, mi allontano e abbasso i giri del motore, sperando che il rumore si confonda con i tuoni lontani.

Seguo la recinzione parallelamente, mantenendomi a un centinaio di metri. Quando sono perfettamente allineato al fuoco, che nel frattempo ci siamo accorti essere un falò, che illumina un ricovero attrezzi in legno, mi fermo. Nessun dubbio. Riconosco quella catapecchia, anche al buio e da quest’angolazione.

Faccio manovra. Indirizzo il muso verso il cancello chiuso, che interrompe la recinzione. Non si vede quasi nulla, benché il cielo sia pulito e la luna illumini di riflessi pastello la recinzione.

– Quella gente avrà qualche permesso speciale – la voce di Marc mi riporta a terra.

Non rispondo.

– Allora ce ne andiamo? Di qui non si passa e se proseguiamo, potremmo finire in qualche riva.

Non rispondo.

– Inizi a spaventarmi.

Mi allaccio la cintura e accelero, pigiando con tutta la mia forza sull’acceleratore.

– Allacciati.

– David, cazzo fai!

La jeep divora il sentiero. Frastuono di sassi che schizzano sotto le ruote. Marc è immobile. Allunga le braccia e si tiene al cruscotto.

Pochi istanti. L’ombra di un uomo in piedi vicino al cancello, che piscia sul prato. Non mi fermo, anzi continuo ad accelerare nella sua direzione.

Marc mi lancia uno sguardo.

– Fidati di me – gli dico.

Non emette fiato.

Urtiamo il cancello in velocità. Cede in un attimo, quello dell’officina aveva ragione: è un mezzo perfetto per andare in guerra. L’uomo in piedi ne è travolto. Gli passiamo sopra come fosse uno spaventapasseri di paglia sbattuto nell’oscurità.

Mi fermo contro la catapecchia sfondandone una parete. Salto dal mezzo e corro verso quello che mi sembra un uomo, davanti al fuoco. Lui nel frattempo si è alzato. Lo riconosco.

Cerca di prendere un pugnale, appoggiato per terra a pochi metri, ma gli sono addosso in un attimo. Tiro fuori la pistola e gliela frantumo nel cranio con tutta la mia forza. Forse non è il modo migliore di utilizzarla, ma la Colt è completamente in acciaio e raggiunge il suo scopo. Continuo fino a quando non perde i sensi.

Mi guardo attorno in cerca di una donna, ma a quanto pare quella sera non era previsto alcun divertimento per quei bastardi.

Poi con la coda dell’occhio lo vedo. Ha in mano una balestra e la punta nella mia direzione. È a pochi passi, per terra, lascia una striscia di sangue dietro di sé. Quello che ho preso sotto si è trascinato fino a me, dopo essere stato travolto dal cancello.

Uno sparo.

La sua testa che si muove e una fontana che sgorga. Sangue: qualcuno ha sparato.

Marc è in piedi, appoggiato alla portiera, con la pistola tenuta con due mani, ancora ingessato nella posizione di tiro.

Mi avvicino, lentamente. Gli abbasso la pistola. Lo abbraccio. I suoi capelli profumano di shampoo e la pelle di sudore.

– Cosa… – balbetta – cosa… mi hai fatto fare?

– Va tutto bene, amico, tutto bene.

Mi allontana.

– Bene un cazzo. Ho ucciso un uomo, io…

– …tu mi hai salvato.

Non mi ascolta.

– Dovevo intimargli di fermarsi, ma… stava… stava usando quella cosa… se aspettavo era troppo tardi…

– Hai fatto ciò che hai dovuto.

– Hai iniziato tu questa cosa.

No, amico, è una storia vecchia come il mondo.

Gli porto una bottiglietta d’acqua. Nel frattempo lui si muove verso l’uomo con la balestra ancora tra le mani.

– È morto. Devo chiamare i miei colleghi.

Afferra il cellulare.

– Non prende. Ho già controllato. Bevi e calmati un secondo. Erano i miei carcerieri.

Si avvicina a quello che ho massacrato.

– Questo invece è ancora vivo ma ridotto male.

Cerco di spiegare a Marc come stanno le cose, almeno in parte, ma mi allontana.

– Dovevi dirmi prima cosa avevi in mente. Non mi piace essere usato.

Non piace a nessuno.

Lego e nascondo l’uomo in quel che resta della catapecchia e risalgo in macchina. Lui è seduto nel posto del passeggero, con ancora la pistola tra le mani e lo sguardo perso nel vuoto.

– Non avevo mai ucciso un uomo. Dovrei essere preparato a questo, ma non è così.

Gli concedo un secondo per annegare nel proprio personale incubo, mentre mi chiedo se quello sparo è stato avvertito anche a distanza.

– Mi spiace, amico. Ma non è ancora finita – poi gli sussurro.

Giro la chiave e avanzo alla tenue luce della luna.

 

 


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