"La fiaba della buonanotte" di Lucio Figini (parte nona)


marsiglia

 

XVIII.

 

Acquistare una pistola non è stata la scelta difficile che pensavo.

Pochi giorni di burocrazia e me ne trovo in mano una. Voglio proteggere la mia famiglia. Per ora lascio i caricatori in macchina, tra la ruota di scorta e il baule, con l’idea di nascondere invece l’arma in soffitta.

Prima la coccolo tra le dita. È una Colt 1911, direttamente dagli USA, direbbe il signor Bertrand, tale ho scoperto essere il nome del proprietario dell’armeria. Non siamo diventati amici, ma in questi pochi giorni ho imparato ad apprezzarne il sagace umorismo. A modo suo è un artista, con una passione originale. In realtà è un astuto venditore. L’ho pagata 1400 euro, nuova di pacca, pesante come l’ascia che maneggio nei miei sogni migliori. A dir suo il prezzo di listino era di 1500 euro e mi ha fatto uno sconto da amico. Mi sento gabbato. Rimane comunque un’ottima arma, delle migliori, mi sono informato in rete. Completamente in acciaio, semiautomatica, 8 colpi, ad azione singola, calibro 45 ACP. Progettata da John Browning, è stata la pistola d’ordinanza delle Forze Armate degli Stati Uniti dal 1911 al 1985. Questa è la versione aggiornata. Migliorie nella sede della molla del cane, nel grilletto, nello sperone posteriore dell’impugnatura e variazioni nella foratura e nella rigatura della canna.

 

– Non pensi alla bambina? – la voce di mio padre.

Ho lasciato la porta aperta, non ho nulla da nascondere. Nulla che non sia nascosto dentro il mio cuore.

– È proprio quello che sto facendo.

– Cosa ti è successo?

Sono trascorse due settimane dal mio ritorno. Le gambe reggono, ma le cicatrici rimangono. Iris è il mio antidepressivo naturale, ma non può essermi accanto sempre. Sono pesante. Un pesante e metallico automa che si muove, si nutre, mangia e dorme. Non voglio parlarne. È stato solo un incubo del quale non ho responsabilità.

– Papà, io…

– Prima o poi – m’interrompe – dovrai iniziare ancora a vivere.

Nascondo l’arma in una scatola da scarpe, nell’ultimo scaffale dell’armadio. Il più alto. E lo seguo in cucina.

– È normale – inizia – che tu non voglia parlarne. Raccontarlo rende reale ciò che ti è successo. Com’è normale, dopo un trauma del genere, aver paura e cercare di difendersi.

– Non cercare di psicanalizzarmi – lo interrompo.

Mi osserva come solo un padre sa fare.

– Non è questo, lo sai, ma non mi piace vederti con un’arma in mano, non è da te.

– Siedi. Devo dirlo almeno a una persona.

Appoggia i gomiti sul tavolo di legno, tinteggiato di bianco. Non è ancora vecchio, ma è molto vicino a diventarlo. È sempre stato un padre saggio, quando combinavo dei guai non mi sgridava, a quello ci pensava mamma. Mi chiamava e spiegava a cosa mi avrebbe portato quel dato comportamento, scendendo nei particolari per ore. Preferivo le sgridate.

– Non sei obbligato. Marc mi ha detto tutto, hai fatto ciò che pensavi fosse giusto fare e ne hai pagato le conseguenze.

– L’unico gesto eroico della mia vita e in più da ubriaco, sono stato uno stupido.

– Ti hanno dato una lezione e lasciato andare. Non m’intendo di queste faccende, ma credo sia improbabile che tornino.

Allungo la mano verso la sua.

– Non è tutto.

Sono un fiume in piena che ha rotto i margini. Non ci vuole molto, alla fine tutta la mia avventura non supera l’ora di resoconto serrato. Tralascio il sesso con Aleksandra. Gli parlo del bambino lupo, di Patrick, dell’uomo che ho ucciso, del Villaggio, di come una donna abbia costruito qualcosa in quell’inferno e di quanto poco io ci abbia capito. Solo citare il suo nome mi fa male.

Non parla, non chiede, quasi non respira.

– So solo che le persone del Villaggio sono consenzienti, tengono i bambini e li fanno crescere sani. Poi degli uomini, credo militari, tornano e ne portano via uno alla volta. Per non so quale destino. Aleksandra invece è diversa, si è ribellata e cerca di proteggerli. Ma io me ne sono andato, non so cosa sia successo dopo e non m’interessa. Volevo solo tornare da voi.

Si alza. Apre un’anta della credenza e prende una bottiglia di amaro.

– Pa’, io non… lo sai.

Ma lui riempie due bicchieri.

Silenzi tra noi.

– David – inizia – mi stai raccontando un incubo. Sembrano le allucinazioni di un uomo drogato da psicofarmaci. Non sai quanto ti vorrei credere, ma…

Mi alzo, col bicchiere pieno di grappa in mano. Lo rovescio nel lavandino. Poi scopro la gamba.

– Queste suture sono state imbastite da una bambina di poco più dell’età di Iris. Il suo nome è Lue. È dolcissima e ha subito tutte le brutture del mondo. Questa bruciatura è stata una sigaretta di uno stronzo, le abrasioni che sono rimaste sulla guancia invece sono state causate dal trascinamento sulla terra, legato come un porco al macello. Questo segno al torace invece… – fortunatamente sono interrotto.

– Basta.

– Pa’, è tutto vero. Devi credermi.

– Lasciami solo, ti prego.

Torno in camera e tiro ancora fuori la pistola. Nella Foresta forse non avrei fatto la differenza con questa. Sarebbero stati comunque troppi.

Letto morbido sotto la schiena. Iris che tra un’oretta tornerà da scuola, Elodie che impregna di ricordi l’aria che respiro.

– E adesso cosa pensi di fare?

Quasi non lo sento entrare.

– Nulla. Cosa dovrei fare? Non sono nessuno, non posso fare la differenza, dovrei tornare lì e provare a salvarli? Li ho abbandonati, lasciati al loro destino, ma io non c’entravo nulla con il loro mondo. Sono solo un professore, maledizione, tu dovresti conoscermi meglio di tutti. Non sono uno stramaledetto eroe.

Il suo sguardo. La luce del pomeriggio che filtra dalle persiane. La mia pistola stretta tra le dita, mentre parlo.

Lui chiude gli occhi per trattenere le lacrime. Come se avesse carpito qualcosa che non voleva sapere, come se mi vedesse nudo e mi trovasse pericolosamente diverso.

– Intendevo solo – sussurra – se pensi di raccontare tutto anche alla polizia. Il resto – abbassa lo sguardo sulla pistola – lo hai detto tu. Io non me lo sarei mai neppure immaginato.

Psicologia del cazzo.

– Non vi lascerei mai.

Ma lui è già uscito.

– Papà – inizio a urlare – forse hai ragione, forse mi sento in colpa, ma ci ho pensato. Ci deve essere un’organizzazione internazionale, credo che anche Marc e la polizia abbiano le mani legate. Se no mi avrebbero trovato.

Lo seguo. Lo abbraccio da dietro. L’odore dei suoi capelli mi riporta indietro di una trentina d’anni.

– Hai davvero ucciso un uomo?

– Sì – rispondo vicino all’orecchio.

– Non deve essere facile conviverci.

È facilissimo, invece, forse la cosa meno complicata che abbia fatto in quel luogo. Nessun rimpianto. Io, che non sarei riuscito a uccidere neppure un fagiano, ho strappato la lingua a un altro essere umano, senza batter ciglio.

È più difficile convivere col suo ricordo e di quella mandria di mocciosi.

– Adesso pensiamo a Iris, tra poco entrerà con Michelle.

Quando meno me lo aspetto, scopro quanto possa ancora imparare da lui.

 

Michelle è la dirimpettaia. Trent’anni. Maestra d’asilo. Mora di capelli e di carnagione. Lineamenti dolci. Una decina di chili di troppo e una gran voglia di vivere. Da quando è morta Elodie, si è affezionata a Iris. Supera la soglia come un tornado, con la bimba per mano. Urlano una canzone che non conosco. Esuberanza allo stato puro. Sono mare in tempesta. La mia ancora di salvezza. Un ritorno improvviso al qui e ora.

– Papà, papà, ho preso 10 nel dettato. 10, capisci? Non ho fatto neppure un errore.

Mi salta in braccio senza pensarci, tanto sa che io la prendo. Si fida ciecamente. Male alle gambe, dove inavvertitamente urta nello slancio con il piede. Le ferite non sanguinano più, ma il dolore rimane.

– Sei stata così brava?

Sorride. Il suo naso è a un centimetro dal mio. Mima un sì. Osservare i suoi occhi da così vicina fa quasi male. Sa di cioccolato, di vita, di dolcezza.

– Allora ti meriti un premio.

– Veramente… – la voce di Michelle ci interrompe.

Mi volto verso di lei.

– Niente, niente – Iris mi gira la testa a forza.

– Mi sa che qual cosina l’hai già avuta. Provo a indovinare, forse una fetta di torta al cioccolato?

– Tuo padre è un vero mago. Abbiamo fatto merenda, non so se può considerarsi un premio.

Iris stringe così forte da levarmi il fiato.

– Facciamo così – la faccio scendere delicatamente – ora vai a cambiarti, ti metti la tuta da sola e le ciabatte.

Mi guarda con uno sguardo capriccioso.

– Nel frattempo – continuo – mi concentro per una magia.

– Sì, sì, papà. Sotto il cuscino, dai.

È un nostro gioco. Sono un mago che può far comparire vestiti, libri, giochi, sotto il suo cuscino. È nato quando Iris era piccola, ora ha scoperto il trucco, ma fa finta di nulla. È una specie di magia, dopotutto.

Passi leggeri. I suoi, che volano in corridoio.

– Saluta Michelle, prima – ma è già lontana.

– Non c’è problema. È bello vederla felice.

– Ti ringrazio davvero.

– Queste ultime settimane non sono state facili, David. Non ha detto una parola. Abbiamo provato di tutto, io e tuo padre, ma niente. Al massimo mi lasciava sedere in camera, ma non si alzava dal letto. Non sono stata molto d’aiuto.

– Le sei stata vicina, questo conta. Lo hai fatto da quando… insomma hai capito.

Iris torna con un piccolo orologio in mano, bianco. Estasiata.

– È resistente all’acqua, per la piscina. Lo puoi usare domani, per la lezione.

Mi ringrazia come se quell’orologio da 15 euro valesse quanto un tesoro prezioso.

E forse lo vale.

 

XIX.

 

Il poligono è il mio rifugio.

Le giornate sono lunghissime con Iris a scuola. Alla mia età s’inizia a rallentare il tempo, sperando di goderlo con le persone che si amano, null’altro dovrebbe essere importante. Vorrei andare a scuola, portarla a casa e coccolarmela all’infinito.

Marc oggi mi ha accompagnato. È un ottimo tiratore, non lo immaginavo, forse perché non è mai stato tra i nostri argomenti preferiti. Non mi ha mai parlato del suo lavoro e a me non è che interessasse. Cercava di portarmi fuori, farmi incontrare gente. È una specie di zio acquisito per Iris, o forse qualcosa di più. Ha trentotto anni e una carriera in ascesa. È l’unico amico che mi rimanga, ma ancora non riesco a dirgli tutto.

Luce bianca. Un tunnel di tiro. Un box con strutture portanti rafforzate. Ventole di aspirazione per gas e micro particelle di piombo. Cuffie per i timpani.

Sono consentite tre posizioni di tiro: coricato, in ginocchio, in piedi. Io preferisco quest’ultima. Ho capito perché nei film i poliziotti tengono con due mani la pistola: è pesantissima. Io peso settanta chili per un metro e settantacinque. Nell’ultimo mese sono dimagrito dieci chili e ne ho ripresi non più di quattro, ma quasi non riconosco il mio corpo. Si è asciugato e irrobustito. La mia Colt 1911 mi sembra comunque un macigno. Col tempo ci si abitua, dice Marc, ma è già la terza volta che sparo e non è cambiato molto.

Sparare non è quel granché difficile. Il grilletto è leggerissimo e alla fine basta mirare e premere, stando attenti al rinculo. Aveva sicuramente ragione l’armaiolo.

Un cenno di Marc. Abbasso l’arma in sicurezza e mi libero delle cuffie.

– Te la cavi bene.

– Non direi. Mai al centro.

– Hai sempre preso il bersaglio, spesso vicino al centro.

Osservo il suo, di bersaglio, e mi scappa un sorriso.

– Non quanto te.

– È da anni che mi alleno, non puoi pretendere. E m’incazzerei se non fosse così, mica io vengo a divertirmi con i tuoi pazienti, anche se a volte mi piacerebbe.

– Credimi, per come sto svolgendo il mio lavoro ultimamente, non capirebbero la differenza.

Ci prendiamo un caffè nella sala bar.

– Non avrei mai pensato di vederti con un’arma in mano.

– Sei la seconda persona che me lo dice nell’arco di pochi giorni. È solo un gioco.

– Un gioco pericoloso.

– Ammetto che così mi sento più sicuro, dopo quello che è successo.

Ha i capelli corti, ma non quanto i miei. Bei lineamenti. Vestito sempre in giacca sportiva. Mi supera di quasi dieci centimetri, in altezza. Ne ero geloso ai tempi, ma poi ho capito. Elodie diceva che un uomo deve eccitarle il cervello quanto il corpo, e questo, per mia fortuna, non capitava spesso. Poi è nata nostra figlia e tutto è cambiato. Osservare una donna portare nel mondo qualcosa di tuo rende relativo tutto il resto. Tranne la morte.

– Hai mai ucciso un uomo? – chiedo a bruciapelo.

– No. Solo ferito gravemente.

– Quando è stato?

– Una decina d’anni fa. Durante una rapina. Ho sparato alle gambe per fermarlo. Il mio lavoro non è come credi, la maggior parte del tempo lo perdiamo in casi banali. Ma a volte purtroppo capita.

Mi avvicino.

– E la vera malavita? Droga… spacciatori… siamo a Marsiglia in fin dei conti.

– Quello sì. È una pestilenza sempre in crescita, cambiano solo gli stupefacenti: sempre più droghe sintetiche che ti fottono il cervello anche con una sola dose. Diciamo che sono stato fortunato, poche sparatorie nella mia carriera.

Proseguo con indifferenza.

– E poi schiavismo. Prostituzione di donne e bambini.

Il suo sguardo.

– Sì, anche. Ma questo cosa c’entra?

– Non mi hai più parlato di Akim Pashkyeen.

Silenzio.

– Si crede che suo padre, Serge Pashkyeen, sia uno dei più importanti importatori di cocaina. A capo di diverse attività illegali – mi punta dritto negli occhi – ma pensavo che volessi chiudere questa storia.

– Ed è vero. Solo che a volte…

– Non è facile dimenticare, lo so. Però insistere non ci porta da nessuna parte. Dobbiamo lasciare tutto alle spalle. Sei tu lo specialista, non ti sto dicendo nulla che tu non sappia già – allunga la mano verso la mia – ce la farai. Sei forte, hai superato situazioni anche più difficili.

So bene a cosa si riferisce.

– Possibile che sappiate chi è e cosa fa e non possiate fare niente?

Un respiro profondo come il mare.

– A volte parli come un bambino. Non siamo tutti corrotti, che tu ci creda o no, ma quando si parla di una multinazionale con un potere che va oltre i nostri confini, non è semplice. Io diventerei uno dei personaggi più famosi delle forze dell’ordine, se riuscissi a fermare uno dei più grossi trafficanti di stupefacenti. E non mi spiacerebbe, ovviamente.

– Allora qual è il problema?

– Le prove. Ogni volta che becchiamo un piccolo spacciatore quasi mi spiace per lui. I pesci grossi sono intoccabili. È cambiata la malavita. Le società non sono fittizie ma reali, con diversi ambiti di commercio e un potere di contrattualità a livello internazionale.

– E se ci fosse qualcos’altro?

– Spiegati.

– Se esistessero realtà che non conosciamo, dove ancora si torturano le persone come se fossimo tornati al Terzo Reich?

– Non capisco dove vuoi arrivare.

– Da nessuna parte, mi sembra solo strano subire il trattamento che ho subito, solo per aver umiliato uno stronzo in un bar.

– Non era uno qualsiasi. Ancora non ti entra nella testa? Tra lui e un malavitoso qualunque c’è la stessa distanza che separa il Papa dal pretucolo di uno sperduto paese di montagna.

– Devi iniziare a fidarti di me – continua – non permetterò che ti succeda più nulla, a te o alla tua famiglia.

– E come pensi di fare? Hai appena detto che sono intoccabili.

Sorride.

– Faccio il possibile, come sempre. Tre dei miei uomini a turno stanno davanti a casa tua, ventiquattrore su ventiquattro. E credimi, non è stato facile giustificarlo con i superiori.

– Non me n’ero accorto.

– Questa, infatti, era l’idea. Sono i migliori della mia squadra.

– Allora toglili e mettili a piantonare la scuola di Iris. Non deve capitarle nulla.

Si avvicina al mio orecchio e fa l’unica cosa che non mi aspetto: non mi manda a fare in culo.

– Va bene. Va bene. Adesso calmati, sono dalla tua parte.

La mente è un percorso colmo di ostacoli. E il più delle volte misteriosi. Così, al mio ritorno, mi ritrovo d’innanzi al PC, con un nome russo, che mi ha causato tanti guai, digitato sullo schermo.

Akim Pashkyeen. Non ci vuole molto per rivedere la sua brutta faccia in un paio di convegni a scopo benefico. Si sente al sicuro. Serge Pashkyeen è suo padre. Su quest’ultimo invece è più difficile reperire informazioni. Scopro solo la presenza di una multinazionale col suo cognome, che si occupa di progetti ingegneristici, tra la Francia, la Russia e il Venezuela. Cerco di capirci di più, ma questi progetti ingegneristici sembrano consistere in misteriosi software che l’azienda crea e rivende in tutto il mondo.

Uffici suddivisi in tutti i territori. Scarico un paio di PDF e rimando il lavoro di verifica a un’altra volta.

M’iscrivo a tre social network e una chat, senza batter ciglio. Uno prettamente lavorativo e il resto di socializzazione, per quanto si possa condividere attraverso uno schermo. Mi ci vuole mezz’ora per trasformarmi in due donne e due uomini. Foto scaricate a caso dagli angoli più nascosti dell’etere e il gioco è fatto. Una studentessa di venticinque anni, psicologa, per lo meno so di cosa parlare, una donna in carriera di trentacinque, laureata in psicologia del marketing, un’insegnante delle elementari sui trenta, un ingegnere informatico di mezz’età con molta esperienza nel settore. Tutte donne sensuali, ma senza eccedere.

In uno dei social il mio uomo non ha filtrato le informazioni e scopro, senza dover neppure chiedere l’accesso ai suoi dati, che ha trentasette anni, una simil laurea in ingegneria, acquisita in una delle scuole a pagamento più costose della Francia, una moglie di nome Nicole, un figlio e l’hobby delle barche da velocità e della caccia. Vita interessante. Ha quasi cinquecento contatti, quattrocento venti donne, nessuna paura di farsi riconoscere, a quanto pare, e la voglia di mostrarsi. Nella foto del profilo ha un fucile in mano e l’aria di chi è nato con la strafottenza stampata nel DNA.

Mando un messaggio allo stronzo e uno alla moglie dello stronzo, da tutti e quattro i personaggi del mio spettacolo. Poi mi scaldo una tazza di latte caldo, annaffiato alla cannella, e aspetto.

Iris è a lezione di flauto a quest’ora. Mio padre dorme sul divano, davanti alla tv, e Aleksandra probabilmente sta preparando la lezione per l’indomani, o è uscita nella Foresta a fare provviste, Lue invece…

 

Da quando ho deciso di dormire da solo, lasciando la bimba al suo orsacchiotto preferito, faccio brutti incubi o sogni così piacevoli da rendere il risveglio un inferno. Sono eccitato, con lei nelle vene. Il suo corpo pieno di cicatrici, la sua bocca dischiusa e i capelli, quei capelli selvatici e carnosi. La sua lingua che lavora su di me come volesse mangiarmi, perché di questo si tratta, non solo di fottersi, ma di cibarsi l’uno dell’altra.

Due realtà. Una dolce, fatta di abbracci, coccole, profumi di una vita che mi è stata tolta, ma che da poco ho imparato a ricordare non solo con dolore. E poi una realtà bastarda, fatta di terra e sangue, di tutto ciò che Dio ha dimenticato di descrivere nel suo piano misterioso.

Io in mezzo. Una piccola scheggia di idiozia sbranata da due cagne.

Oppure un semplice caso di schizofrenia.

 

XX.

 

Inizia per gioco.

Sono un pessimo investigatore, ma un ottimo pazzo, dei migliori, anche perché ho la testa di uno psicoterapeuta e una spiccata ossessione per risolvere i problemi. Di fronte a me una lista di nomi, che indicano le diverse sedi nelle tre nazioni, della multinazionale Pashkyeen. Grazie alle poche informazioni, che Marc si è lasciato sfuggire, non ci vuole un genio a capire che attraverso un commercio legale di software, le sedi hanno il monopolio di una fetta di mercato illegale.

Caracas, Puerto Cabello, Amuay, San Cristobal. Poi dall’altra parte del mondo. Mosca, San Pietroburgo, e così via. Il pianeta in fondo non è così immenso. Al centro invece la Francia. Marsiglia naturalmente, Parigi, Nantes, Tolosa, Lione, Morxcec: una rete capillare.

Ci metto quattro ore a controllare minuziosamente ogni dato di questo stramaledetto file, ma nulla. Prendo in mano il telefono e compongo tutti i numeri che recupero, in Francia almeno. Lascio stare il Venezuela e Mosca, per ora, il mio inglese è arrugginito. Alla fine, gli uffici non sono più di una quarantina, una voce diversa risponde a ogni squillo ed io ripeto la solita identica litania. Sono un giovane laureato in ingegneria informatica e vorrei fissare un incontro per portare un curriculum. Quasi tutti mi rispondono con gentilezza, indicandomi un indirizzo di posta elettronica dove inviarlo; si sarebbero, all’occorrenza, fatti vivi. Tre uffici mancano all’appello, due a Tolosa e uno a Morxcec, ma per oggi basta.

Ho rinunciato a tutti i pazienti, tranne il signor Martin, giusto per tenermi in esercizio. La pensione di mio padre basta ampliamente per le nostre esigenze. Sempre che non acquisti altre pistole, ma per ora la mia Colt è sufficiente.

Un pasto veloce e via a dilettarmi col mio nuovo hobby. Controllando la posta elettronica trovo una notifica. Il social e le chat sono collegati direttamente alla mail.

Un messaggio di un certo Akim. È bastato un giorno perché Valentine, la bella trentacinquenne dallo sguardo innocente e le tette di una pornostar, nelle foto nascoste da un completo nero, facesse il proprio lavoro. Uno su quattro, non male.

Il bastardo mi scrive quanto sia improbabile non ricordarsi di una bella donna come me. È una gran fortuna che gli uomini pensino sempre con l’uccello. Chatto per una mezz’oretta, come fosse la cosa più normale del mondo. Cerco di entrargli in testa, non ci vuole molto.

Sono una responsabile del marketing e come tale non posso non conoscere il suo cognome, gli chiedo se è imparentato con il magnate Serge Pashkyeen. Risponde che è suo padre. Se ha qualcosa d’interessante da proporre dovremmo vederci, io mi occupo dell’azienda in questa parte del globo. Ma io non fisso nessun incontro, troppo presto. Non saprei come cavarmela. In una decina di messaggi l’uomo si è già proposto, questo evidenzia una personalità vicino al maniacale.

Oppure è un semplice puttaniere, che si fa quotidianamente di coca.

– Ancora al computer?

– PC, papà, i computer sono morti negli anni ottanta.

Sorride.

– Che cosa combini?

– Chatto.

Mi osserva come fossi un alieno.

– In cosa ti stai trasformando?

– È solo la modernità, pa’. Comunico con altre persone.

– Guarda che non sono ancora totalmente rimbecillito, lo so cosa vuol dire. Mi meraviglio solo che tu stia una mattina intera a farlo.

Mi alzo e lo seguo a pranzo.

Io e lui. Soli.

– Sto facendo una ricerca.

– Di che si tratta?

– Un’analisi sul comportamento. Come i social network possano portare a galla alcuni aspetti dell’individuo, in pratica quanto uno schermo e una tastiera facciano da filtro e insieme protezione. Penso che escano parti di noi nascoste.

Avvicina la sedia.

– Finalmente. Hai intenzione di scrivere un saggio? Testi per una pubblicazione. Da utilizzare in sede, magari.

– Può essere, ma per ora è solo un’idea.

M’invento il problema della lingua, non essendo ancora ferrato nel francese.

– Avrei bisogno di qualcuno che mi aiuti. E magari, perché no, integrando con una traduzione in inglese.

– Per il francese, puoi chiedere a Michelle, credo se la possa cavare.

– Vediamo, pa’.

Mentire non è difficile come pensavo, neppure a mio padre.

Spaghetti con passata di pomodoro e un paio d’uova strapazzate, non c’è niente di meglio.

Pranziamo in silenzio. Osservo dalla finestra un cielo azzurro, costellato da nuvole bianche, maggio è il mese che preferisco, e sta finendo. Il Mediterraneo porta una brezza leggera, che invade le mura. Il mare sconfinato mi ha sempre regalato l’idea del nulla. Un nulla che si riempie di teorie, parole, rituali e azioni quotidiane insignificanti, per dimenticare.

I tetti di Marsiglia sono coperti da un ventaglio di vecchie antenne e nuove parabole, mi chiedo come fosse un secolo fa. Viviamo solamente l’eco del romanticismo di allora. Ho voglia di uscire la sera, di rientrare nel mio solito caffè, salutare Luc e cercare quel figlio di puttana che ha dato il via a tutto. E invece sono blindato a casa mia e ogni volta che metto il naso fuori non posso evitare di guardarmi attorno. Marc mi ha proibito di allontanarmi la sera, senza di lui, ancora un po’ di tempo per far calmare le acque. Sono in prigione nella mia mente, nel mio quartiere, nella mia stessa casa.

– A cosa stai pensando?

– Che la vita è strana. C’è voluta quest’orribile avventura per farmi passare più tempo con te.

Si toglie gli occhiali. Azzurro intenso nel suo sguardo e un’espressione dolce.

– Te l’ho sempre detto che bisogna prendere solo il bene dagli avvenimenti e dalle persone.

Trascorro un paio d’ore a dormire, poi pulisco la pistola, mi faccio una doccia e aspetto Iris. Il pomeriggio a fare i compiti, dopo la merenda. Basta PC, basta chat, basta pensieri, solo lei, solo noi.

 

Il momento in cui mi corico accanto a mia figlia, prima che si addormenti, è quello che più amo e insieme temo. Le escono le domande più impegnative alle quali abbia dovuto rispondere.

– Papà, hai avuto paura?

– Certo, amore. Ma non è una brutta cosa. Prepara la tua mente. E non solo.

Il suo sguardo innocente.

– Devi sapere che tutto il nostro corpo si modifica quando abbiamo timore di qualcosa, anche gli animali sono così. Il sangue si avvicina al cuore, che è pronto a pompare a mille per affrontare la fuga o l’aggressore. La paura ti aiuta a capire se una cosa è pericolosa.

– E così poi non la fai.

– Non proprio. Così puoi scegliere se farla o no.

– Qual è stato il momento in cui hai avuto più paura nella tua vita? Quando quelle persone cattive ti facevano male?

Accarezza, appena sopra al mio occhio, la bruciatura di sigaretta.

– No. Non è stato quello.

Appoggia quei suoi occhi immensi sui miei.

– Ti ricordi – continuo – l’estate scorsa? Io correvo e tu mi seguivi in bicicletta. Di colpo non ti ho più sentito, mi sono girato ti ho visto immobile.

– Mi sono spaventata tanto – interrompe – mi faceva male il collo, poi mi sono addormentata e mi sono svegliata in braccio a te.

– Sì, amore, quello è stato il giorno in cui ho avuto più paura.

– Mi hai salvato.

– Su, non esagerare. Non è successo nulla, ti ho solo liberato dalla sciarpa che si era infilata nelle ruote – in realtà è svenuta per qualche secondo ed io ho perso un paio di secoli di vita.

– Come hai fatto a sapere che stavo male?

Sorrido.

– Sono un mago, no?

– Sì, papà, il mio preferito.

– Perché, ne conosci altri?

– No. Ma se tu fossi davvero un mago salveresti tutti i bambini del mondo?

– Sì, amore, lo farei.

Mentire a Iris non è facile come mentire al resto del mondo. Soprattutto quando le escono dai neurotrasmettitori domande assurde e quanto mai penetranti. Sono solo un uomo con una pistola e una paura fottuta di non essere all’altezza delle sue attese.

Lei si addormenta ed io riprendo il mio hobby.

Quasi tutte le sedi della multinazionale sono situate in grandi città, tranne tre. Dopo diversi tentativi, rimane un solo ufficio irrintracciabile telefonicamente ed è posto in una zona poco popolosa della Francia sud-occidentale, a non più di tre ore di strada da Marsiglia. Morxcec è un paese tra le colline, vicino alla costa dell’Oceano Atlantico. Riprendo tra le mani la stampa del PDF, con le informazioni più specifiche, ma questo non aiuta. Navigo senza sosta fino a scoprire che in quest’ultimo vi è sì una sede, ma non solo, anche un cantiere di estrazione del marmo. Alquanto strano un sito simile nel sud della Francia.

Vorrei saperne di più e dopotutto non è così difficile.

Invio un messaggio personale al mio nuovo amico, per chiedere informazioni rispetto all’ufficio sull’ufficio di Morxcec. Mi spaccio come originaria di quei luoghi. Lavorare per voi in quella sede sarebbe un sogno.

Dieci minuti dopo, la risposta. Potere della rete e degli ormoni. È infastidito dal lei e dalla formalità, ma più che motivato a sostenere un incontro di persona. Aggiunge che certamente si sarebbe trovato un accordo, ma non in quella sede. Infatti è stata chiusa, anche se nel sito ufficiale della multinazionale risulta ancora aperta.

Saluto velocemente, con quelle allusioni che solo alcune donne sanno fare.

Earth è uno strumento fantastico. Scrivo il luogo che m’interessa e ci sono sopra in un secondo, velocità di rete volendo. È un paese di 700 anime, circondato da colline e boschi. Un paio di fiumi nelle vicinanze, qualche cima non elevata. Mi prendo tutto il tempo che ho bisogno. Perlustro il paese e ciò che ci sta attorno. Vi sono solo boschi e oltre ancora boschi.

La Terra è davvero piccola, nulla sembra tuttora misterioso, basta avere uno strumento satellitare in mano e più di ventimila anni di storie esplorative vanno a farsi fottere. In quel preciso istante la mappa si trasforma in una macchia opaca. Avevo letto di luoghi strategici militari, oscurati, ma pensavo che si trattasse del Pentagono o del Cremlino, non della campagna francese.

Poi lo vedo, appena prima della macchia scura.

Mi avvicino il più possibile, cliccando sul mouse, ma non è facile comprendere di cosa si tratti. Forse un insieme di piante. L’una appiccicata all’altra, seguono una linea, che s’insinua nel territorio oscurato. Potrebbe essere il famoso cantiere, non ha molto senso.

Come non ne ha che uno stronzo come me arrivi laddove altri non sono arrivati. Ma dopotutto, quando si ha potere di vita e di morte su interi stati, quando la polizia non si attiva neppure di fronte a un rapimento, quando un uomo solo, o pochi uomini, possono muovere il mercato di due continenti, non è necessario nascondersi troppo.

La lampada irradia di luce gialla la scrivania.

Sono le due di notte. Il letto è vuoto, mio padre dorme nella stanza accanto. Improvvisamente l’aria diventa solida.

 

 


Lascia un commento