"La fiaba della buonanotte" di Lucio Figini (parte ottava)


marsiglia

 

XV.

Nessuna percezione del corpo.

Sto bene. Fin troppo per essere morto.

– È sedato ma stabile. Non si preoccupi. Cosa gli è successo?

– Non lo sappiamo. Ci stiamo lavorando – una voce familiare.

– Lei è un suo amico?

– Sì, ma sono anche un poliziotto. Non posso rivelare nulla, c’è un’indagine in corso.

– Non lo avevo capito. Le è stato accanto tutta la notte.

Rumore di una porta che si apre. Passi. Altre voci.

– Dottore, ci scusi, ma dobbiamo parlare.

Non apro ancora gli occhi.

– Che succede? – la voce di Marc.

– Niente di niente. Ho preso un po’ d’informazioni in giro, ma nessuno l’ha visto nelle ultime due settimane, o poco più. La segnalazione è arrivata dal padre. Non è rientrato a casa – l’altra voce.

– Quando riprende conoscenza, ne sapremo di più. A me dirà qualcosa, torna pure in centrale.

Confusione.

– Non preoccuparti – continua – lo conosco. Gli è morta la moglie qualche anno fa e da allora non è più lo stesso.

– Sì, ma la cosa è strana. Non si è fatto vivo per un sacco di tempo e ha anche una figlia.

– È sempre stato uno strano, non mi meraviglierei se avesse preso un treno e vagabondato per la Francia.

– E chi l’ha ridotto così?

– Cazzo, ti ho detto che me ne occupo io. Non voglio che si svegli con gente che non conosce attorno. È fragile in questo momento.

Passi lenti in lontananza, una porta che si chiude. Bocca impastata e la sensazione di aleggiare nella stanza. Ma sono ancora vivo. E sono qui, di qualsiasi qui si tratti.

Marc mi osserva dall’alto. Il suo viso è offuscato. A destra un comodino di plastica, di quelli anonimi da ospedale. Letto appena inclinato. Una parete bianca a sinistra. Una pessima copia de L’urlo di Munch e una porta di legno chiaro. L’orologio a parete indica le quattordici. Il mio corpo poco a poco si riavvicina a me.

Dolore appena accennato alla testa. Gambe immobili. Secchezza delle labbra.

– Che succede?

– Bevi e rilassati. È tutto finito. Ora sei qui e mi occuperò di te.

– Iris… mio padre… stanno bene?

Un sì accennato. Un sorriso. Mi piace come risposta.

Entra un uomo in camice.

– Bene, si è svegliato – non conosco la voce.

Marc si avvicina al mio orecchio – Stai al gioco – sussurra.

– Devo parlargli in privato, mi scusi.

– Adesso però non esageriamo. Lui è un mio paziente. Prima mi devo accertare che stia bene – la voce dell’uomo in camice bianco questa volta è decisa.

Devia Marc e si siede di fianco a me. Il suo viso è giovane, l’espressione sicura.

– Sta bene?

Mimo un sì.

– Riesce a parlare?

– Credo.

Legge la cartella.

– Dolori?

Cerco di mettermi più comodo, di alzare la schiena.

– No, ma non sento le gambe…

– Non si preoccupi, sono i postumi della sedazione, poco a poco l’effetto si esaurirà. Era ridotto male. Due costole rotte, diverse contusioni interne e quelle strane suture alle gambe.

– Ok, doc. Sta bene, sta bene. Ora ci lascia soli? – interviene Marc.

Il dottore esce, bofonchiando che tornerà, che il suo paziente ha il diritto di sapere, che il filo usato per quei punti di sutura non ha senso. Ma noi non ce ne curiamo.

– Dobbiamo parlare – Marc mi fissa.

– Non ora.

– Posso capire, ma guardati. Hai un aspetto di merda. Ancora la flebo attaccata e due ferite quasi aperte alle gambe. Non penso che ti lasceranno andare per qualche giorno, per cui mettiti comodo e raccontami quello che ricordi.

Strappo la farfallina. Gocce di sangue sul lenzuolo bianco.

– Che cazzo fai?

– Parleremo. Anche tu mi devi delle spiegazioni. Ma adesso vado a casa, con te o senza di te.

– Non riusciresti a fare due passi.

– Allora trovami una sedia a rotelle e smettila di fare lo stronzo.

Mi guarda come fossi un alieno. Poi mi dice di aspettarlo. Non è facile fidarmi di qualcuno, soprattutto dopo aver ricordato che Marc era con me quando mi hanno rapito e non ha fatto nulla.

Ma ora non importa.

Rientra dopo venti minuti, con un foglio e una sedia a rotelle.

– Devi firmarlo. Non è stato facile. È una delibera che toglie la responsabilità all’ospedale, se muori appena esci da qui. Quel medico rompipalle parlerà con i miei superiori per questa storia.

Non rispondo.

Alzarmi, per trascinarmi dal letto alla sedia, è un’impresa. Anche perché rifiuto l’aiuto del mio presunto amico.

Camice bianco aperto sulla schiena. Il mio culo nudo che si appoggia alla seduta e un male cane ai genitali. I ricordi tornano a una sedia di legno e a due bastardi che mi massacrano. I sogni generalmente non fanno così male.

Mi lascio spingere. Sono troppo stanco. Il corridoio, le infermiere prese nei loro impegni, qualche dottore, le macchinette del caffè, un vecchio coricato su un lettino. Tutto appare così stupendamente normale.

Dovrei andare alla polizia e raccontare tutto. Riflettere sulle parole di Marc al collega, ma non me ne frega nulla.

Guida troppo piano. I quartieri sembrano lunghissimi. Troppe persone, non ci sono abituato. La vita continua a scorrere. Non è cambiato nulla, l’universo si è comunque espanso fottendosene di uno come me. Sono morto e tornato in vita, ma nessuno sembra accorgersene.

– David. Almeno una cosa voglio dirtela: ci tengo a te – fa un tiro con la sigaretta, non ricordavo fumasse.

– Dobbiamo metterci d’accordo – prosegue – domani al massimo devi venire in centrale. Ci sono troppe cose da spiegare. È partita una denuncia di scomparsa.

– Loro lo sanno?

Mi guarda con aria interrogativa.

– Mio padre e la bambina lo sanno che sono tornato?

Respira profondamente.

– No.

Vedo dai finestrini il muro dell’università, tra una decina di minuti sarò a casa.

– Questa sera.

– Cosa?

Lo guardo dritto negli occhi.

– Questa sera raggiungimi a casa.

Il marciapiede. Il mio marciapiede. Il bidone della spazzatura. Gli scalini che portano all’entrata del palazzo. Cinque esatti. La porta di legno e vetro. Casa. La mia casa.

Apro lo sportello e scendo dalla macchina, senza ringraziare, senza salutare, senza pensare. E cado in terra.

Marc mi urla di fermarmi e scende di corsa. Gli faccio segno di non toccarmi.

La scimmia diventa eretta e l’uomo cerca di dimenticare che negli ultimi giorni è stato scimmia, o forse qualche gradino evolutivo in meno. Nello stesso modo mi metto in piedi e lentamente supero gli scalini, uno a uno. Poi percorro il corridoio e mi ritrovo a bussare contro la mia stessa porta.

Ho paura, di mio padre, di mia figlia, di quello che mi aspetta oltre la soglia.

 

Mio padre. Camicia a quadri, pantaloni di cotone abbondanti, il solito foulard. È vecchio. È segnato da notti insonni. È felice come non ricordo di averlo visto. Non dice una parola, ma piange e mi abbraccia. Rimaniamo in quella posizione per un tempo indefinito, poi sento le mie parole quasi solidificarsi nell’aria.

– Iris come sta?

– È in camera sua, dorme.

– Non è a scuola?

– Non è stata bene dopo… dopo che sei sparito.

Mi sento uno stronzo.

Vorrei correre da lei, ma lui mi ferma. Quasi cado. Mi sorregge.

– Non così – mi dice.

Osservo la mia immagine nello specchio all’entrata. Il cappotto di Marc sopra il camice e una faccia che non riconosco. E che potrebbe spaventarla.

– Non ha più parlato – continua mio padre – piange tutte le notti e non vuole uscire di casa, da quando…

– Mi spiace, pa’, non volevo farvi soffrire.

– Hai una faccia – non riesce a non dire.

– È una storia lunga e non bella.

Interrompe le mie parole con una mano sulle labbra.

Sorregge il mio corpo. Il bagno è a pochi metri. Mi aiuta a spogliarmi, come faceva la mamma da bambino. Siedo nel piatto doccia e apro il getto per un tempo infinito. Lui si siede per terra e aspetta. Mi asciuga trattenendo le lacrime. La mia pelle è una cartina topografica.

– Grazie di non aver chiesto nulla.

– Quando sarai pronto, io ci sarò.

Continuiamo a parlare senza parole.

Lo prego di andarmi a prendere il vecchio rasoio e un pettine. Raso i capelli a un centimetro, per lo meno hanno tutti la stessa lunghezza. Accorcio la barba, nell’impossibile tentativo di rendermi presentabile.

 

Mia figlia. Dorme alla tenue luce che filtra dalle persiane dischiuse. I capelli castani chiari di sua madre. Le guance rosa di una bambola e il respiro di chi ha il naso intasato. È accartocciata tra le lenzuola e il muro. L’abbraccio. L’avvolgo. La proteggo da tutto ciò che ora so esistere nel mondo. Il palpitare del mio cuore si adatta al suo e finalmente risento la nostra voce. Si muove. Mi prende le mani e inizia un vecchio gioco: piccoli pizzicotti sul dorso. Sta sognando. Per questo dorme tanto, per evitare di vivere e rifugiarsi nei sogni. Come la capisco. Mi addormento davvero. Non capitava da secoli.

Spazio. Sensi di colpa. Tempo. Povera piccola. Fantasia. Dopo sua madre, questo. Giochi di felicità. Prima. Dopo. Insieme. Lue. Aleksandra. Iris. Elodie. Mio padre che ci avvolge con l’abbraccio di Dio e il bambino lupo che ci protegge. Due fari nel buio della mia anima. Per un momento li confondo con una macchina che mi prende sotto, in una notte fredda.

Sono solo i suoi occhi. Verdi. Caldi. Oceanici.

– Iris.

Non risponde.

– Scusa.

Non risponde.

L’abbraccio di una figlia non ha nulla a che fare con la realtà.

Stiamo appiccicati fino ad aspettare sera. Non so che ore siano, né m’interessa. Sento profumo di passata di pomodoro e mi accorgo di avere fame.

– Ce l’avevo con te – mi dice.

Non avevo scordato la sua voce.

– Avevo paura, papà.

Silenzi.

– Paura di averti perso.

Tra noi.

– Nessuno mi può tenere lontano da te.

E spazio che ci unisce dividendoci.

– Ti voglio bene, papà.

Anch’io, amore, tutto il bene di questo stramaledetto mondo.

 

 

XVI.

Iris ha mangiato un piatto di pasta di dimensioni colossali, sotto gli occhi di suo nonno. Nessuno parla durante la cena, solo sorrisini idioti. È la prima volta che non devo fingere di essere felice, perché lo sono davvero. Ovviamente sto vivendo un momento di maniacale follia, tra poco ricadrò nella depressione, nella realtà. Una realtà che non so spiegare, che non voglio spiegare.

– Chi ti ha fatto… – Iris indica la mia faccia.

Mio padre continua a mangiare. Fa finta di nulla.

– Le persone che mi hanno tenuto lontano da te. Uomini cattivi.

– Ma tu sei forte.

– Sì, amore. E sono tornato.

Non ho la minima idea del perché mi abbiano lasciato andare, ma non serve che lei lo sappia. A quell’età il papà è l’uomo più forte del mondo, è l’unico che può proteggere dai mostri.

Un’ora dopo la metto a letto. Domani c’è scuola, le dico, ma lei insiste per stare a casa, con me. Ed io accetto.

– Ora dormi, piccola, il papà è di là, a parlare con Marc.

– È venuto tutti i giorni. Ci portava la pizza, il gelato, stava con noi a cena, ma io…

– Non preoccuparti, non era colpa tua, non stavi bene.

– Magari è arrabbiato con me. Magari lo sei anche tu. Dovevo essere più coraggiosa.

Sorrido.

– Nessuno è arrabbiato con te. È molto coraggioso ammettere di aver avuto paura.

Si stringe al collo. Odore della sua pelle. Dei suoi capelli.

– Ora però sono tornato. Adesso chiudi gli occhi.

– E se non riesco a dormire?

– Allora pensa a qualcosa di bello. Come il luogo dove s’incontrano le stelle, ricordi? Gli alberi magici, i folletti e gli gnomi, la mamma che ci aspetta là e un fiume di cioccolato in cui nuotare.

Stringe il suo pupazzo preferito: questo è il segnale che posso andare.

 

Marc mi aspetta in cucina. Sta sorseggiando grappa italiana.

– Ne avevo proprio bisogno – mi dice – sei tornato dal mondo dei morti, non puoi immaginare quanto…

Mio padre ci lascia soli. Lo sento accendere la tv.

– Chi è Akim Pashkyeen?

– David, è una lunga storia.

– Allora sbrigati, amico, perché sono un po’ stanco.

Mi guarda come se non mi riconoscesse.

– È il figlio di un potente della malavita russa. Influente a livelli internazionali.

Mi avvicino con la sedia.

– Parlami di quella sera.

Sguardo abbassato. Il suo.

– Te l’avevo detto di non impicciarti. Ma quello è l’unico giorno dell’anno che non ci stai con la testa.

Silenzio tra noi. Il telegiornale in lontananza e tanta voglia di mandarlo a fare in culo. Dopotutto lui è vivo e vegeto e senza neppure una cicatrice.

– Dopo che lo hai steso – continua – credo sia partita una chiamata di soccorso alle sue guardie, oppure la moglie ha telefonato. Non ne sono sicuro. Sta di fatto che all’uscita ci sono arrivati addosso. Tu sei in pratica svenuto tra le mie braccia. Io… cazzo, io non sapevo cosa fare.

– Bel poliziotto sei. Li hai coperti per tutto questo tempo.

– Non ho coperto nessuno. Non puoi capire. Il padre di quello stronzo ha in mano un esercito.

– Mi hai lasciato nelle loro mani.

Stringe i pugni attorno al bicchiere, mentre se lo scola.

– Non sono fiero di quello che ho fatto. Devi capire che non ero in servizio, non portavo la pistola. Erano in quattro e armati, io ti tenevo in braccio, che cazzo vuoi che facessi? Sono dei professionisti.

Qualsiasi cosa, vorrei rispondere.

Continua a parlare e scopro che mi hanno portato via in macchina, dicendogli che si sarebbero fatti vivi. Sono andati sul sicuro, mi hanno preso e hanno aspettato gli ordini.

– Ieri sera si sono fatti sentire con una telefonata. Mi hanno indicato il luogo in cui ti avrebbero lasciato, non sapevo se vivo o morto.

– E tu mi hai raggiunto.

– Ti ho trovato in un quartiere in zona Porte d’Aix, in un cassonetto dei rifiuti. Nudo e drogato. Non è stato un bello spettacolo.

Ha chiamato un’ambulanza e comunicato in centrale che durante un pattugliamento è incappato in un barbone, in seguito ha capito che ero io. Per ora non vuole che la storia finisca tra le mani dei suoi capi. Non vuole rendere pubblica la propria vigliaccheria oppure pensa che i suoi superiori siano corrotti. C’è anche una terza ipotesi, che il corrotto sia lui.

– Non posso credere che tu sia stato fermo per tutto questo tempo.

– Ti ho cercato in ogni vicolo di Marsiglia, ho fatto domande in giro, quartiere per quartiere, ma niente. Queste persone sono troppo influenti, avevo le mani legate, non mi rimaneva che sperare.

A malincuore lo ringrazio. È stato accanto alla mia famiglia. Li ha consolati regalando speranza, di questi tempi non è poco.

– In ospedale, durante la notte, hai pronunciato dei nomi in modo confuso. Prima Elodie e Iris, ma non solo, anche una certa Lue e una donna, un nome russo, che non ho capito. Chi erano?

– Solo i vagheggiamenti di un pazzo.

Gli racconto che non rammento molto di quella notte. Mi devono aver portato in un appartamento, forse di Marsiglia, e sequestrato per tutti questi giorni. Sono stato torturato in ogni modo possibile.

– E le ferite alle gambe?

– Uno di loro – rispondo a mezza voce – forse una guardia speciale, addestrata, mi ha cucito per non farmi dissanguare, ma senza anestesia. Forse faceva parte della tortura.

– Non so perché non mi hanno ucciso, forse proprio perché ho un amico poliziotto.

– O forse volevano solo darti una lezione – m’interrompe.

– Che è servita.

– La domanda più importante è: perché mi hanno rilasciato? Non ha senso – proseguo rivolto più a me stesso.

Non risponde.

Ci accordiamo per la storia da raccontare l’indomani in caserma. Mia moglie è morta quattro anni prima, nello stesso giorno della mia scomparsa. Da allora non mi sono più ripreso. Vado anche da uno psicoterapeuta, questo in realtà perché chi vuol far bene il mio lavoro deve intraprendere un percorso psicoterapico, ma non è necessario che lo sappiano: avvalora la nostra versione. Quella sera ho bevuto troppo e mi sono messo a vagabondare vicino la stazione. Stavo troppo male per tornare in quella casa. Sono partito, senza soldi e senza meta. Ho girovagato per giorni, poi sono tornato, per mia figlia soprattutto. Ma una banda di balordi mi ha trovato, spogliato per divertimento, massacrato e gettato come un rifiuto. Certo, non torna il discorso delle ferite ricucite alla cavolo, scusa Lue, ma nessuna versione è perfetta.

Pensare a Lue fa male.

– E ora? – mi chiede.

– Non voglio sapere più nulla di questa maledetta storia. Sono a casa.

– Come possiamo essere sicuri quelli ti lasceranno stare?

– Non lo possiamo. Che altro resta da fare? Cercherò di rendermi invisibile. Tu forza perché i tuoi amici poliziotti non continuino a investigare. Voglio lasciare tutto alle spalle.

– Questo è il problema minore. Alla fine sei tornato e Marsiglia è intasata di casi, casi più importanti.

Solo al quarto bicchiere riesce a chiedermelo.

– Cosa ti hanno fatto?

Gli racconto delle botte, della sedia, di me nudo, degli asciugamani bagnati, dei carcerieri che con una lama affilata mi hanno affettato come un maiale, della sigaretta spenta in faccia, di tutto ciò che ho subito. Ovviamente evito di parlare del resto. Deve pensare a un sequestro in appartamento, non a un mondo folle, che non voglio descrivere.

– Li riconosceresti?

– Servirebbe?

Il suo sguardo oltre la finestra, sulle luci della città.

– Sei cambiato.

Sorseggio caffè bollente, scacciando l’immagine di Aleksandra che tenta di accovacciarsi tra testa e cuore. Certo che lo sono, non sai quanto.

– Ho solo imparato a soffrire in modo diverso.

– Elodie sarebbe fiera di te. Sei tornato.

Mi scappa un sorrisino.

– Mi hanno sbattuto come un sacco di merda e poi gettato in un cassonetto. Ho pianto, supplicato di non uccidermi, mi sono pisciato e persino cagato addosso. Lascia stare Elodie, spero che ovunque sia, abbia distolto lo sguardo.

Peccato che lei non sia da nessuna parte. Nessuna favola per bambini ad alleggerirmi il cuore.

– Mi spiace, amico. Mi spiace davvero.

Silenzi tra noi.

– Non… – continua, masticando le parole – non ti avevo riconosciuto in quel cassonetto. E anche adesso faccio fatica. I tuoi occhi sono diversi. Sembri da un’altra parte.

– Forse sono solo un morto che cammina – rispondo.

Lascio Marc a mio padre. Lo carica in macchina e lo riporta a casa. Lui ringrazia e si scusa, ma non è serata. Dovrebbe spiacermi per quello che ha passato, forse è sincero, ma non me ne frega nulla, di lui, dell’università, dei miei pazienti, del mondo intero.

Mettermi il pigiama è surreale. Lo trovo al solito posto, sotto il cuscino. Di cotone. A righe. Rosso e viola, lungo e stretto per i troppi lavaggi.

Leggerezza dell’essere in un semplice gesto.

Raggiungo la cameretta di Iris e m’infilo sotto la coperta di pile, con lei. Inizia a fare caldo. Questa notte non ti lascio sola, questa notte non lasciarmi solo. Si sveglia e mi guarda, ma non si spaventa.

– Posso dormire qui? – le chiedo.

– Non ci stiamo – risponde – c’è anche Philip, il suo pupazzo preferito.

– Mi faccio piccolo. Solo per questa volta.

– Va bene.

Le sue manine sulla mia guancia. Le sue labbra sul mio naso.

– Buonanotte papà.

Buonanotte, amore mio.

Allungo le gambe e sento le lenzuola bloccate dal materasso. La punta delle dita si accartoccia. Il collo è storto. Il braccio scende dalla sponda del letto in modo fastidioso. Gli effetti residui degli antidolorifici finiscono. Dolori ovunque.

Ma nessuno riuscirebbe a spostarmi.

Mentre osservo i capelli di mia figlia, cerco di dimenticare chi ho lasciato alle spalle. Piccole infermiere. Veggenti. Bambini lupo e un asilo da film dell’orrore. È stato solo un brutto sogno. Un incubo da eliminare con una buona dose di benzodiazepine.

 

XVII.

Fine maggio. Dieci del mattino e il sole è già alto nel cielo.

È trascorsa una settimana dal mio ritorno e poco meno dalla deposizione al commissariato. Molte domande, ma ho subito interrogatori più impegnativi. Tutto si è svolto come avevamo previsto.

Mio padre ha portato Iris a scuola e mi ha preparato la colazione: the, biscotti e spremuta d’arancia. Ho preso una pausa da me stesso e mi sono lasciato coccolare. La fatica più grande è allontanarmi dalla bimba per tutta la mattinata.

In questo tempo mio padre non ha chiesto nulla. Ci siamo confrontati e ha accettato la scelta di interrompere il dottorato di ricerca e prendere l’aspettativa di qualche mese. Non sarebbe stato così semplice, se non fosse stato per la sua intercessione con l’università. Il suo nome ha ancora una certa valenza, anche a livello internazionale.

Non sono più uscito dall’appartamento. Una settimana in un limbo artificiale, fatto di droga sintetica, mix di benzodiazepine di diverso genere, affetto della famiglia e attenzione sul mio corpo che si sta risvegliando.

Nel pomeriggio mi aspetta il primo incontro con un paziente, nel mio studio, affittato al piano terra del palazzo.

Da due giorni ho smesso di imbottirmi, perché non sarei riuscito a sostenere alcuna seduta. L’appannamento del pensiero non poteva continuare in eterno. Faccio brutti sogni. Confusi. Che non ricordo. Incubi che mi lasciano in bocca il sapore di una colpa da scontare. Tornare a dormire, tornare a morire nei luoghi comuni dell’essere, a volte non è così semplice. Ma sono motivato, e questo può fare la differenza.

È strano indossare il solito completo blu di cotone. Allo specchio, i capelli, gli occhi, le contusioni e le bruciature mal si accostano all’abbigliamento. Il lupo si traveste da animale domestico.

Il signor Jacques Martin è un individuo particolare. Ha un consapevole disturbo ossessivo compulsivo, che ha saputo gestire al punto da non renderlo invalido. Anzi, per alcuni versi, gli è utile nel suo lavoro. È il cassiere di una delle più prestigiose banche di Marsiglia. Rimane comunque un disturbo ansiogeno, che deve essere tenuto sotto controllo, in quanto a volte a questo si somma l’agorafobia. E qui sta la singolarità.

Gestire il proprio appartamento o la piccola scrivania è relativamente semplice, ma le persone nelle strade, nei supermercati, ovunque ci sia folla, è impossibile.

I suoi meccanismi di difesa si attivano in modo esponenziale quando è emotivamente coinvolto da una qualsiasi causa esterna. Questo l’ha portato a evitare inconsciamente i rapporti sociali. E non solo. Divorziato da dieci anni, due figli che quasi non vede e un vivere accontentandosi.

– Lei non si è fatto sentire per tre settimane e tre giorni – la sua voce è nervosa – è inaccettabile.

– Buongiorno, signor Martin – rispondo – come sta?

Si muove sulla sedia.

– Non bene. Come vuole che stia. Questo non è professionale. Svanire nel nulla senza una telefonata. Si era preso un impegno.

Come non dargli ragione.

– Mi spiace, so che è imperdonabile, ma ho avuto seri problemi familiari.

Non risponde. Sta lottando tra un’empatia di livello base e la rabbia per l’interruzione di un rituale. Ovviamente vince la seconda.

– Ora come recuperiamo le sedute?

Se le metta nel culo le sue sedute, pensa di essere il solo ad avere dei problemi? È stato un po’ da solo con i suoi demoni? Bene. A volte serve. Se fossi uno psichiatra, le aumenterei la dose di farmaci e la manderei via. E andrei ovviamente contro a tutto quello in cui credo, o meglio, in cui credevo.

– Non si preoccupi, troveremo una soluzione.

Porta una giacca marrone vomito. Pantaloni grigio malta e uno sguardo da coglione. Ed io non riesco a fare il mio lavoro. Eppure ero bravo. Facevo le domande giuste, mettevo a proprio agio le persone. Entravo delicatamente dentro i loro disagi per capirne le esigenze. Per offrire loro gli strumenti per prendersi cura di se stessi, per riprogettare un futuro. Ora mi sembrano un mare di stronzate. Che cazzo di futuro può avere uno come lui? Di tollerare in modo più accettabile il vicino o il cassiere che gli sposta involontariamente la biro.

Inizio a farmi quelle domande che nessun psicoterapeuta dovrebbe farsi. Quanto lui stesso è responsabile di ciò che avviene attorno? Ok, ha un disagio, ma quanto c’è di stronzaggine dietro a questo disagio?

– Lei ha mai pensato a un altro essere umano, in tutta la sua vita?

No, ovviamente, è troppo impegnato a pensare a se stesso, questo è la base del suo problema.

– Non ha il diritto di… – non riesce a continuare. Picchetta quattro volte sulla sedia, poi si sistema il cappello, sempre quattro volte, gli occhiali, la sciarpa e finalmente blocca le proprie mani.

Mi viene alla mente una frase: peggiore di tutti noi. Con le parole e con le mani posso fare del male in modi nuovi e inaspettati. E col gusto di farlo. Una belva uccide solo per sopravvivere, un uomo lo fa per vendetta, per divertimento, o per mille motivi differenti. Perché al mondo ci sono persone che non dovrebbero essere nate, che stuprano un bambino di quattro anni solamente perché sono in grado di farlo. Io ne so qualcosa, perché ne ho ucciso uno con le mie stesse mani. Un pezzo di merda in meno.

Confusione. Incazzatura. Lacrime trattenute. Le nostre, per mille motivi diversi.

– Mi spiace. È un periodo difficile per tutti – finisco di dire.

Gli osservo le mani. Rosse e rovinate.

– Ora le cose torneranno nella normalità – proseguo – stia tranquillo.

– Ho dei problemi in bagno. Come prima. Prima delle sedute, intendo.

Nei momenti di più ansia aumentano i rituali e uno dei più pacificanti per la sua anima, e distruttivi per il suo corpo, è lo sfregarsi per ore le mani e il corpo sotto la doccia.

– Lavoriamoci un po’. Ripassiamo insieme un modo che le possa essere utile.

Respira profondamente.

– A cosa pensa quando si sente costretto a portare a termine i suoi rituali?

Silenzi.

– A tutto ciò che non è andato come doveva nella giornata. Da quando mi sono svegliato a quel momento. E a volte a cosa è andato storto nella mia vita invece, nel passato intendo.

Prendo appunti, fingendo che m’interessi.

– Per ora concentriamoci sul presente. Provi a fare due cose, la prima è ricordare un pensiero felice, non so la nascita del suo primo figlio; la seconda è portare un orologio, meglio una sveglia, in bagno. Si conceda del tempo, inizi con qualcosa che può tollerare e poi diminuisca. Quando suona la sveglia, lei smette e cambia, così fin tanto che ha concluso l’igiene.

Mi fa un cenno di assenso, ma ha ancora nelle vene la mia domanda inopportuna. Che forse è alla base di molti dei suoi problemi. Un conto è saltare le tappe, un altro è uccidere un paziente a bastonate.

– Poi, con calma, affronteremo i motivi che stanno alla base di questo eccesso di ansia. Solo quando sarà pronto, quando lo deciderà lei. Io sono qui e non mi muovo.

Basta che finisca il prima possibile questa tortura. La stanza mi sta stretta, l’aria attorno a noi è irrespirabile. Il vestito stringe.

– Per oggi la seduta è conclusa.

È la prima volta che parlo più io del paziente.

Non risponde. Si alza immediatamente e saluta. È bastata anche per lui a quanto pare.

Ho gettato nel cesso un’ora del mio tempo.

 

– Pa’, esco.

– Vuoi che ti accompagni?

– No. Vai tu a prendere Iris, per favore?

– Non c’è problema, ma stai attento.

– Un po’ d’aria non mi può fare che bene.

Marsiglia è più incasinata del solito. O almeno io la percepisco in tal modo.

L’aspetto più piacevole è la diversificazione di etnie. Visi che portano in sé colori e vite alternative, che si adattano a stare insieme, in un modo o nell’altro. La città però non è solamente questo. Il peggio è nascosto dietro questa finta normalità. Corro al mare, da settimane non lo respiro. I pochi pescherecci si preparano alla notte. Silenzioso fermento. Visi scuri, che non vogliono essere disturbati, che sembrano mal adattarsi al progresso. Come me d’altronde.

Muoversi senza pensare è terapeutico. Le parole di un mio vecchio docente mi frullano nella testa.

Se dovesse ipotizzare una percentuale, quante scelte nella vita lei ha trasformato in atto partendo dal suo lato conscio e quante dal suo lato inconscio? Bella domanda. Non abbia fretta, non basta una vita per capirlo, però ci pensi con calma e quando si sente pronto mi risponda. Le regalo comunque un consiglio, ci sono dei momenti nei quali il suo corpo si muove senza un pensiero, in tali occasioni spesso il nostro inconscio è il motore trainante. Ciò, ovviamente, non è detto che sia un bene, ma è un dato, per quanto si possa, oggettivante.

Devo ancora rispondergli, ma il mio corpo in questo istante inizia a muoversi. Ed io lo seguo.

Devio il porto, cammino lungo i vicoli per una decina di minuti per ritrovarmi in un’armeria. Dietro al bancone c’è un uomo con i capelli bianchi, pantaloni scuri e giacca a scacchi: pessimo accostamento. Dal polso spicca un Rolex. Le armi rendono, a quanto pare.

– Come posso esserle utile? – la voce è gentile.

– Cerco un coltello a serramanico. Non molto grande ma con la lama resistente.

Attorno a me la stanza è di un ordine machiavellico. Fucili da caccia perfettamente impilati dietro di lui e pistole chiuse a chiave in una bacheca in vetro. Estrae una scatola di plastica e mi mostra tre coltelli.

– A cosa le serve?

– Non lo so ancora.

Afferra il più piccolo, rosso e col manico di acciaio.

– Questo ha una doppia funzione. Vede il piccolo chiudo? Serve per rompere il vetro dell’auto, nel caso d’incidente. Ha anche il gancio per tagliare la cintura.

Scelgo quello col manico di legno, materiale nobile, che inizio ad amare. La lama è in acciaio temperato. Grigio. Un paio di centimetri di spessore nella parte più ampia, fino ad assottigliarsi alla punta. L’impugnatura è arrotondata, si prende bene. C’è persino un incavo, dove infilare l’indice, per comodità. Una sicurezza impedisce alla lama di rientrare ed è necessario forzare con leggerezza su un perno per liberarla.

– Sono cinquantanove euro. Ha bisogno d’altro?

Mi avvicino.

– Se volessi acquistare un’arma come dovrei muovermi?

Sorride.

– L’ha appena acquistata.

– Intendo un’arma da fuoco.

– Per quale motivo?

Il mio silenzio.

– Devo chiederglielo, perché è la prima domanda che le sarà fatta. Rispetto all’utilizzo ci sono procedure differenti.

– A uso sportivo – la prima cosa che mi viene in mente – è più una curiosità. A volte penso che sarebbe bello sparare al poligono. Se potesse darmi qualche informazione, le sarei grato.

– Nessun problema, ci mancherebbe. È il mio lavoro. Per prima cosa bisogna richiedere il nulla osta all’acquisto di armi da fuoco, che autorizzi l’acquisto e il trasporto. Poi sarà redatta la denuncia di detenzione armi. Specificando quante armi, che tipo, munizioni, ecc…

– Diventa complicato – lo interrompo.

– Non quanto pensa. Alla fine servono solo: due fototessere recenti, autenticate in municipio, un certificato amnestico del medico di base, una marca da bollo e l’istanza in cui descrivere il motivo per quale vuole possedere un’arma. Nel suo caso, uso sportivo appunto.

– Tutto qua?

– Dimenticavo il certificato di abilitazione al maneggio delle armi da fuoco rilasciato dal poligono di tiro e il codice fiscale. A che arma pensava?

Mi guardo attorno. Un paio di animali impagliati, diversi orologi militari, o simili, uno scaffale di bussole, uno di cannocchiali e una parete piena di munizioni. Nelle due vetrinette, che fanno da bancone, dove ho appoggiato i gomiti, ci sono diversi tipi di pistole.

– Non ne ho la più pallida idea, sono un neofito.

– Allora – mi guarda come fossi uno scolaro bisognoso di apprendere – parlando di pistole, si possono dividere in due gruppi, generalizzando: automatiche e a tamburo.

Mi indica un insieme di pistole che assomigliano a quelle dei cowboy e poi altre che ricordano i film di spionaggio.

– Se vuole uccidere uno e non farsi beccare sono preferibili quelle a tamburo, perché non rimane il bossolo, così è più difficile identificarla – strizza l’occhio.

Mi allontano dal bancone.

– Mi scusi, stavo scherzando – sghignazza – le armi non sono un problema, le persone lo sono e l’uso che ne fanno. I miei clienti sono semplici padri di famiglia che vogliono divertirsi al poligono una volta la settimana.

– Nessun problema, ma è la prima volta in vita mia che sono vicino a un’arma, non le ho mai neppure toccate.

– Entrambe – continua – hanno un loro fascino e funzionalità. Direi una certa poesia e storia.

Mi chiedo quanta poesia ci possa essere in un’arma, ma ognuno di noi ha un’idea differente di ciò che s’intende per poetico.

Mi sbatte tra le dita una pistola che assomiglia a quella dell’ispettore Harry Callaghan.

– Una Magnum.

– No – interviene – Magnum è un termine che indica, si potrebbe dire in parole povere, la potenza di fuoco, non la marca.

Sono un idiota.

– Quella che ha in mano è una Smith & Wesson, direttamente dagli USA.

È pesantissima, tutta di acciaio satinato e con la canna decisamente lunga.

– Invece la pistola nera è una Glock austriaca, quella invece è la Beretta italiana.

Il mio sguardo perso in un punto fisso del vuoto.

– Alla fine basta mirare e sparare – continua – stando attenti al rinculo e a non bruciarsi col calore.

Chiedo se i prezzi sono alti. A quanto pare dipende, per le nuove si va dai duecento euro in su. Possono essere tutte in acciaio o con parti di plastica o leghe leggere.

Non è poi molto complicato, se non si scende nei particolari. Le automatiche sono più moderne e veloci nel caricare, ma avere in mano una pistola a tamburo mi offre una sensazione d’invincibilità. Sono un bambino che sta imparando un gioco nuovo.

– Spero di esserle stato d’aiuto.

Mentre esco dal negozio, mi raggiunge ancora la sua voce.

– Un’ultima cosa, naturalmente serve un certificato medico rilasciato da un ufficio sanitario, che attesti che non si sia affetti da malattie mentali.

– Naturalmente – rispondo.

Sorrido e saluto.


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