"La fiaba della buonanotte" di Lucio Figini (parte prima)


 

marsiglia

 

I.

I suoi battiti sulla guancia: la colonna sonora della mia vita.

Peccato che il cuore non abbia voce.

– Papà, ho paura.

– Di cosa hai paura, amore?

– Ho  paura di diventare vecchia e di morire.

– Sei ancora piccola, non devi preoccuparti di queste cose.

– Sì, ma diventerò come i nonni e tornerò tra le stelle. Non voglio, papà.

Il mondo si ferma e con esso parte del mio vivere.

– Manca ancora tantissimo tempo e poi non devi aver paura.

– Ma io non voglio rimanere sola.

– Non rimarrai mai sola.

– Non è vero, tu diventerai vecchio prima di me. Non voglio andare in cielo da sola.

Nessun dio mi ha preparato a questo.

– Amore, vuoi ascoltare una storia?

– Sì, papà.

Mi corico nel piccolo spazio che mi concede.

– Questa storia inizia tanto tempo fa, quando ancora tu non eri tra noi.

– E dov’ero?

– I bambini prima di venire al mondo sono su una stella. Non una semplice stella ma la loro personale.

La sento respirare nel buio.

– Devi anche sapere che non sono i genitori a scegliere i propri piccoli ma il contrario. Ogni bambino sceglie per sé una mamma e un papà.

– E come fa?

– Per lungo tempo tu e la tua stella avete viaggiato per l’universo e oltre.

– Continua, papà.

– Vi sono mondi che qui sulla terra non possiamo vedere, ma che esistono. Tu li hai visitati, anche se ora non ricordi. Dove le fantasie dei bambini prendono vita. Terre dove gli animali hanno la voce degli uomini e gli uccelli costruiscono città tra le nuvole. Mondi paralleli al nostro dove i pesci parlano, le pietre cantano e le piante suonano il flauto col vento. E altro ancora.

– Che bello. E dove sono?

– Te l’ho detto, alcuni sono nell’universo, altri vicino a noi, anche se noi non possiamo vederli, perché non siamo più sulla stella.

– È come una magia?

– Sì, amore, è come una magia.

– E poi cosa è successo?

– Ti divertivi tantissimo e continuavi a ridere, giocare, cantare e sognare, finché una notte…

– Una notte?

– Una notte tu e la tua stella stavate passando proprio accanto alla nostra casa. Io e la mamma guardavamo la tv, stretto uno all’altra. Faceva molto freddo, tu non lo sentivi perché il calore della stella ti riscaldava, ma noi eravamo accartocciati sotto una coperta di pile. Stavamo ridendo.

– Io cosa facevo?

– Tu osservavi dalla finestra in silenzio.

– E poi? E poi?

– Poi la stella ti ha portato a riposare in un campo coperto di neve. All’alba avevi un viso riposato ma un’espressione seria.

– Perché? Ero arrabbiata?

– No, anzi, eri felice, avevi la faccia di chi riflette su qualcosa d’importante. La stella se ne era accorta e ti chiese cosa avevi.

– Ed io cosa ho risposto?

– Che volevi come papà e mamma quell’uomo e quella donna, ma eri anche triste perché avevi paura di non rivederla più. Lei rispose che non dovevi essere triste, che ti avrebbe portato da noi, ma che vi sareste rivisti in futuro. Ti avrebbe aspettato, senza portare nessun altro bambino, in attesa fino al giorno del tuo ritorno.

– La storia è già finita, papà?

– Non ancora, ma se sei stanca, dormi pure, domani continueremo.

– No, papà, ti prego, raccontami ancora. È lì che mi aspetta? E mi porterà ancora a vedere quei posti fantastici? Ci andrò da sola?

– Pazienza, amore, una domanda per volta. Allora… – respiro, raccolgo le poche confuse idee e continuo.

– Per prima cosa la stella ti aspetta ancora.

– E come fa a sapere quando io divento vecchia, come mi trova?

– Lei ti vede sempre perché siete unite. Le persone diventano vecchie nel corpo, ma il cuore rimane sempre giovane come quello di un bambino. Il tuo cuore è legato al suo.

– E poi? E poi?

– Non posso raccontarti questa parte della storia, perché non è ancora stata scritta, la stai scrivendo tu. Diventerai grande, conoscerai la vita, farai bellissime esperienze e passeggerai per il mondo.

– Ma dopo cosa succede?

– C’è un luogo magico, dove tutte le stelle ogni giorno, in quell’ora che precede l’alba, s’incontrano.

– E com’è fatto?

– È un segreto. Se vuoi che te lo dica devi promettere che non ne farai mai parola a nessuno.

– Lo prometto – risponde frettolosamente.

Mi avvicino al suo orecchio.

– No, amore, devi promettere seriamente, non lo dirai a nessuno, mai – le soffio delicatamente sugli occhi.

– Lo prometto – ripete solennemente.

– Non è facile da spiegare. Ci sono alberi maestosi, giardini fioriti dai colori inaspettati, c’è un fiume, una montagna innevata, giochi di ogni tipo. Le persone dai vari mondi verranno lì a incontrarsi.

– Ci sei stato?

– La mia è una stella un po’ birichina. Una notte in sogno mi ci ha portato. Non potevo farmi scoprire dagli altri, perché non sarei dovuto essere lì, ma qualcosa sono riuscito a vedere.

– In sogno?

– Sì, amore, il sogno è l’unico modo per raggiungerlo.

– E la mamma ci sta già aspettando là? L’hai vista?

– Sì. E quando verrà il momento, la raggiungeremo per stare per sempre insieme.

– Mi manca.

– Lo so, amore. Anche a me manca.

– Facciamo un patto? Prometti che non te ne andrai presto sulla tua stella? Che starai ancora tanto tempo con me?

– Te lo prometto.

– Patto fatto? – allunga la mano nel buio.

– Patto fatto.

Poi le annuso dietro all’orecchio. È il nostro gioco segreto, come ogni sera, prima di salutarla.

Mi guarda, sorride e mi regala la frase più dolce che un padre possa sperare.

– Grazie, papà, non ho più paura.

Io sì, non le dico.

Io sì.

 

II.

Muscolo cardiaco che rallenta e mia figlia addormentata accanto. Mi alzo in silenzio. Il mondo continua a respirare, ma oggi vorrei poter scegliere di non farlo.

– Pa’, Iris si è addormentata.

– Esci?

– Sì.

– Non esagerare. Hai una figlia.

– Credi che non lo sappia? Ti chiedo di tenerla una sera l’anno, nient’altro.

– Non intendevo questo.

Giacca di velluto sulle spalle. Jeans. Sciarpa di cotone. Barba di un paio di giorni.

– Grazie, pa’.

Marsiglia è silenziosa in questo periodo dell’anno, soprattutto a quest’ora. Caldo che tarda ad arrivare. Vento che spira dal mare e solletica la faccia.

Il locale la sera ha un aspetto diverso. Non è il solito dove faccio colazione, dopo aver portato a scuola la piccola. La notte lo veste di colori malinconici.

Molte persone. Troppe persone. Una luce rumorosa e tanta voglia di bere. E dire che sono astemio.

– Ciao – è Luc, il barista.

– Qualcosa da bere. E continua finché non ti fermo.

Allunga la mano verso i superalcolici e mixa un cocktail di liquidi colorati, dei quali ignoro l’origine.

– È oggi?

– Lascia stare.

– Naturalmente non è importante il sapore…

– Basta che sia forte – finisco la frase per lui.

– Mi spiace, amico.

Non siamo amici. Eppure il vedermi ogni mattina ha creato un qualche legame. E naturalmente una sera l’anno, da quattro a questa parte. Conosce già la procedura. Alcol, più alcol, più alcol. E ancora alcol.

– Invece per me una birra – la voce arriva da dietro.

– Dicevo io che in questa città è impossibile restare soli.

– Ma se sei l’uomo più solitario che io conosca.

– Marc – alzo il bicchiere in suo onore.

– David – risponde, mimando il gesto.

– Il mio nome è Davide, voi francesi proprio non ce la fate.

– Arrenditi amico, sei in Francia da sei anni ormai.

– Non ti chiedo cosa ci fai qui.

– Sono un poliziotto, devo controllare gli ubriaconi. E poi sono il tuo migliore amico, forse l’unico che ti è rimasto.

– Non è serata.

– Senti – la sua mano sulla mia spalla – non dobbiamo per forza parlarne. Starò qui, accanto a te, in silenzio.

Suono di labbra che ridono. L’assolo al pianoforte di Point Blank di Springsteen nelle orecchie. Tintinnio di bicchieri. Due ragazzi su un tavolo da biliardo. Ed io che ho voglia di piangere.

– Ci ha lasciato quattro anni fa.

Marc indirizza lo sguardo sulla birra chiara.

– Lo so, mi spiace.

– Me lo sento dire da anni, ma non cambia molto.

– È orribile quello che ti è capitato, ma hai ancora la piccola Iris. E una vita davanti.

– Io sì.

– Lo capisco che non è facile.

I miei occhi. I suoi. Un’amicizia che non serve a nulla in questi momenti.

– Su questo hai ragione. Non è facile, anzi non è stato né facile né veloce. Ha sofferto, sai?

Abbassa lo sguardo.

– Scusa. Tu non c’entri nulla. Mi sei stato sempre vicino.

– E continuo a esserlo, anche quando fai lo stronzo.

Secondo bicchiere. Nella gola il liquido ha un pessimo gusto, ma inizia a fare il suo lavoro.

– Posso darti un consiglio?

– Spara. Tanto mi hai già rovinato la serata.

– Dovresti parlarne con qualcuno.

– Perché? Dopotutto lavoro, mi lavo, mangio e cerco di far ridere mia figlia almeno una volta al giorno.

– Sì, ma almeno con me ammettilo che stai male. Non hai più conosciuto nessuno.

– Nessuna, forse intendevi – lo interrompo.

Lui non molla.

– E l’unica sera dell’anno che esci è per ricordare lei, ubriacandoti. Sono passati quattro anni. Poco a poco devi ricominciare.

Vorrei spaccargli quel muso comprensivo contro il bancone.

– Sai la cosa più drammatica?

Lui si scola in un sol fiato la sua birra, per non guardarmi in faccia. Io il terzo bicchiere.

– È che – continuo – io sono uno psicoterapeuta. E sai cosa dico alle persone che hanno subito un lutto?

Mi guarda.

– Che i fattori essenziali per superarlo sono il tempo e le interazioni costruttive con le persone che costituiscono il nucleo affettivo – parole di un automa.

– Mi sembra una bella cosa.

– Sono un mare di cazzate. Se hai amato davvero, il dolore non passa mai. E non si supera, s’impara solo a fingere meglio, col tempo.

E giù anche il quarto.

Tra le parole che sporcano l’aria, la musica, il frastuono dei passi, il tintinnio dei bicchieri sui tavoli, una voce maschile irrompe sui miei non pensieri.

È seduto a un tavolo. Può avere poco meno della mia età. Alto. Robusto. Stempiato. Faccia da stronzo. Con vicini una donna e un bambino.

– Come si fa a portare un bambino qui a quest’ora? Avrà l’età di Iris.

Un urlo. Uno schiaffo. Il pianto del bambino.

– Lascia perdere – è Marc a parlare.

Un altro schiaffo.

– Fai qualcosa. Sei un poliziotto, no?

– Te lo ripeto, lascia stare. Non sono affari nostri.

Mi prende un braccio e lo schiaccia sul bancone, obbligandomi a restare seduto.

– Ma che?

Si avvicina anche Luc.

– Ascolta il tuo amico. Non voglio casini nel mio locale. Quell’uomo è Akim Pashkyeen.

Mi libero con uno strattone. Sono in piedi. Fatico a camminare, ma il gesto è stato così improvviso da trovare impreparati Marc e il barista.

Gli sono a un metro. Le persone si allontanano, neanche fosse il diavolo sceso sulla terra. Non si è accorto di me, troppo preso a impartire la dura lezione a un bambino che non supera i sette anni.

– Lascialo stare.

Si gira. Mi guarda come fossi un cagnolino che gli vuole pisciare sui pantaloni.

– Che cazzo vuoi?

– Che la smetti di picchiare quel bambino.

– Sei pazzo o solo ubriaco? Sai chi sono?

– Un uomo che picchia un bambino.

– E tu vorresti insegnarmi come educare mio figlio? Vai a fare in culo da qualche altra parte.

Solo ora mi accorgo che nessuno mi ha seguito.

Mentre lui sferra l’ennesima sberla al bambino, io intervengo e quasi senza volerlo gli blocco il braccio.

Silenzio attorno a noi. La donna è una statua di gesso. Bionda. Magra. Naso sottile. Labbra carnose e gonna troppo corta. Le persone sono scomparse. Il locale si è svuotato.

Lui si alza in piedi e mi sferra un pugno che sembra una martellata in faccia.

Sapore di sangue. Superficie solida sotto la schiena. Testa sul pavimento. Non sono mai stato un grande incassatore.

Torreggia su di me. Soli in un’isola deserta. Il bambino è terrorizzato, la donna inespressiva.

In quel momento penso ai miei amori: Iris ed Elodie. In quella manciata di minuti, nella stessa sera di quattro anni prima, ero di fianco a lei e la osservavo spegnersi.

Con tutta la forza sferro un calcio diretto alle sue palle, come un calciatore dilettante alla sua prima partita di campionato.

Lui, qualsiasi sia il suo nome, il suo potere, la suo forza o la sua stronzaggine, cade come una mela marcia. Si stringe quel che è rimasto della sua virilità con le mani. Piange e si mette in posizione fetale.

Il bambino osserva il suo dio trasformarsi in uomo. Un uomo di terra e merda.

– Non hai in mente in che guaio ti sei cacciato – la voce della donna ha un accento straniero. Non è rabbiosa, ma quasi compassionevole.

– Non ho iniziato io – farfuglio.

Non risponde. Abbraccia il bambino come solo una madre sa fare e chiude gli occhi.

Il tempo si ferma.

Torno al bancone e continuo a bere. Allungo una mano e mi servo da solo. Sono stanco e non giurerei di non star sognando.

– Ci sei?

È ancora Marc.

– Dobbiamo andarcene. Presto, dai.

– Forse ho esagerato. Mi porti in caserma?

– Non dire cazzate e muoviti. Non c’è tempo. Uno come lui non può essere qui da solo. Le sue guardie avranno visto uscire la gente.

– Che dici? Sta arrivando la polizia?

– Sei proprio andato. Sono io la polizia e ti dico che dobbiamo solo sperare che non sappia mai il tuo nome.

Mi prende sotto le spalle e ce ne andiamo.

La strada è deserta. Le gambe faticano a muoversi. Il parco illuminato è lo stesso dove porto Iris a giocare, ma a quest’ora è scomparso anche l’eco delle risate dei bambini.

Le luci di un grosso fuoristrada sulla nostra rotta e lo stridio delle gomme sono le ultime cose che ricordo.


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