"La fiaba della buonanotte" di Lucio Figini (parte sesta)


marsiglia

 

XI.
– Oggi non staremo insieme.
È Lue, la mia crocerossina.
– Come mai? Mi stavo abituando alla tua compagnia.
– Devi andare con lui – mi fa cenno nella direzione del bambino lupo.
È assurdo non potergli affibbiare un nome, ma non sembra un problema suo.
– Ormai puoi camminare. Anche correre.
– Mi hai cucito due giorni fa. Potrebbero riaprirsi le ferite o potrei perdere conoscenza.
– Non fare il bambino, David. Se svieni, lui ti riporta al campo e se sanguini ci penso io.
Qui il tempo acquista un significato personale. Il ritmo non è frenetico come in città, ma non si può perdere neppure un secondo. Ci si concentra sul momento, tanto da farlo diventare un’eternità, ma i momenti si accavallano velocemente.
Mi saluta. Le scompiglio i capelli. Lui è lì. Piantato per terra al limite del campo.
Un cenno. Un invito a camminare. Entriamo nella Foresta, seguendo il torrente. Lo seguo. Non parla per la prima mezz’ora. Il panorama di quella mattina appena nata è sempre uguale. Piante, boschi, acqua che s’illumina di mille riflessi. Poche nuvole e un’alta collina all’orizzonte.
– Non rischiamo di trovare qualcuno?
Silenzio.
– Quelli del Villaggio hanno già perlustrato questo lato del perimetro.
– Come lo sai?
Silenzio.
– Li ho seguiti.
– Ti piace poco parlare, vero?
Silenzio.
– Non molto.
Ci stiamo avvicinando al monte.
– Cosa c’è oltre?
Silenzio.
– Non lo so. Ci sono guardie che controllano la linea.
Sudo sotto la felpa. Le gambe iniziano a cedere e il rumore del suo silenzio m’innervosisce.
– Sei abbastanza stanco. Possiamo fermarci.
Poi fa una cosa strana: inizia a imitare il verso del cinghiale. Corre in cerchio, struscia le foglie, grufola e sbatte i tronchi più sottili.
– Cosa stai facendo?
– C’è uno di loro che spesso si addentra in questo lato della Foresta, in cerca di cinghiali.
– E allora smettila.
Non mi ascolta.
– Sembra che sia l’unico a non avere paura – aggiunge – anzi, a volte riesce persino a non farsi uccidere e a riportarne uno al Villaggio.
È la frase più lunga che gli abbia sentito pronunciare.
– Voglio tornare.
– Troppo tardi.
A quanto pare è lui il mio maestro. Deve insegnarmi a sopravvivere, o semplicemente valutare se posso essere utile per i loro piani.
– Sono ancora ferito e senza neppure un’arma. Se dovessero accorgersi della nostra presenza, siamo fottuti.
Le parole sono dirette al vento, perché è scomparso. Ho compreso il suo gioco: dovevo essere senza forze, senza speranza. Disarmato e solo.
Vedo l’uomo sbucare da dietro una pianta. Riconosco le fattezze. Capelli rasati ai lati e lunghi al centro. Non troppo alto ma tozzo. Soliti pantaloni militari e una voluminosa balestra in mano. Tocco involontariamente le gambe, è lui ad avermi disegnato una strada tra carne e muscoli, quando ero appeso al palo. Gli manca parte del lobo di un orecchio.
– Porca puttana – si rivolge a se stesso.
Mi alzo a fatica e mi appoggio al tronco.
– Sono fortunato, meglio te che un cinghiale – continua.
Alza la balestra ed io chiudo gli occhi. Dovrei fuggire, proteggermi dietro un albero, ma non faccio nulla. Non un fiato. Non un gemito. Non un pensiero. Aspetto di morire in silenzio.
– Che cazzo! – ancora la sua voce.
In un istante un’ombra nera vola sulla schiena del mio carceriere e gli strappa di mano l’arma.
– In due. Vigliacchi di merda.
Il bambino senza nome si è già allontanato.
Si accuccia tra le foglie e mi rivolge una sola frase – Ora sta a te.
– Ok. Prima il bastardo – urla l’uomo avvicinandosi.
Muoviti David. Immaginazione. Freni inibitori. Il mio corpo come arma. Conoscere il mio corpo. Conoscere i suoi punti deboli. Cazzo se ho paura. Mi spiace, Iris.
Il primo pugno in faccia mi resetta. Cado all’indietro. La schiena contro un ramo. La testa a terra. Le mie mani sul viso. La sua forza. Il mio sangue. I suoi calci nello stomaco. Le mie lacrime. Il suo ghigno.
Sono chiuso a riccio nell’utero di mia madre. Ma non mi sento per nulla protetto, non fa caldo, c’è solo buio. Non sono pronto, Aleksandra. Non sono motivato. Oppure semplicemente non ho fantasia.
Si avvicina, muso a muso, e io apro gli occhi. Vedo le sue pupille nelle mie. Sento il fiato che sa di birra. Mi sputa in faccia e allunga la lingua verso la mia guancia, muovendola come un ossesso.
– Sai di buono, piccolo cinghialino. Questa sera ti spelliamo e ti cuciniamo.
Buio nella mia anima. Buio tra i miei pensieri. Buio tra le pieghe dei miei ricordi.
E poi accade.
Iris entra nelle mie corde come una ventata d’aria fresca. Nel letto, prima di salutarla, le annusavo dietro l’orecchio, proprio nell’attaccatura dei capelli.  È qui, la stessa fragranza mi penetra il cervello.
La mia mano entra nella bocca di quell’animale. Le unghie macerano la lingua e ci metto tutta la mia forza per strappargliela. Nulla da fare, ma la vedo dondolare penzoloni tra le labbra. Sangue sulla mia faccia, non il mio per una volta.
L’altra mano trova un ramo appuntito tra le foglie e, prima che lui capisca cosa stia succedendo, glielo infila in un orecchio. Molle come un lombrico infilzato. Veloce come una coltellata nello stomaco. Doloroso per lui. Indifferente per me.
Lo allontano dal mio petto. È un pesante maiale che si dibatte per il dolore. Solo un animale, come me d’altronde.
Il bambino mi guarda con un sorriso malizioso.
Muore lentamente, ma noi non stiamo a guardare, non gli diamo il colpo di grazia. Lo lasciamo soffrire. Non pensavo bastasse così poco. Un ramoscello, tutta la mia forza in un solo attimo, il suo cervello spappolato.
Vomito sopra di lui prima di allontanarmi.
– Andiamo.
Guaiti che non si attenuano. Gli alberi ci osservano. Il fiume è pacifico. Il cielo è sempre lo stesso.
– Non possiamo lasciarlo così.
Silenzio.
– Andiamo – inizia a camminare ed io devo allungare il passo per stargli dietro.
Nessuno parla durante il ritorno.
Il campo ci aspetta identico. È ora di pranzo. La tavola è imbastita, Aleksandra è seduta come sempre a capotavola. Lue si alza e mi corre incontro. Il bambino lupo sparisce.
– Cosa ti è successo?
– Io…
– Stai più attento la prossima volta, poi tocca a me rattopparti.
Con tutti i problemi su cui dovrei riflettere, il mio unico cruccio è come fa una bambina, dell’età di mia figlia, a utilizzare il verbo rattoppare.
– Scusa.
– Andiamo nella tenda un momento, ché il mangiare diventa freddo.
La penombra mi rasserena. Il letto è morbido e le dita di Lue sono delicate.
– Me lo dici o no cos’hai combinato?
– Abbiamo incontrato un cinghiale e mi sono difeso.
– Guarda come ti ha conciato la faccia – mi porge lo specchio.
Labbro superiore spaccato, ferita sotto lo zigomo destro, qualche graffio ad aggiungersi sulla guancia, già ridotta male. In fondo pensavo peggio. È proprio vero che una faccia può raccontare una storia.
– Mi fa male lo stomaco.
– Fai vedere – alza felpa e maglietta – speriamo bene, non posso fare nulla se ci sono delle ferite dentro.
Mi applica una crema dal pessimo odore e mi regala un sorriso.
Le tocco il mento con la mano e alzo quegli occhi verdi nella mia direzione.
– Piccola Lue – non riesco a non dire – non so cosa farei senza di te.
Due bambini senza genitori, senza legami se non una mamma psicotica e due modi così diversi di affrontare il dolore e la deprivazione. Lue è un cannibale affettivo. E chissà tutti gli altri, cosa devono aver subito. Cazzo no. Non me ne frega nulla. Io devo tornare, voglio tornare, e loro sono solo zavorra che mi rallenta.
– Che c’è?
C’è che ho ucciso un uomo, che sono un assassino, un bastardo, un animale senz’anima. C’è che ho scoperto di poter essere peggiore di quanto immaginassi. C’è che è stato meglio di una canna o di una dose di morfina.
– Nulla.
– È passata, non devi avere paura.
Il suo viso è sereno, mi ricorda l’espressione di Iris e tutta la dolcezza che porta con sé, tutta la dolcezza del mondo, di qualsiasi mondo si tratti.
– Andiamo a mangiare. Ci aspettano.
Mi guardano come non hanno mai fatto. Come se fossi uno di loro. Il bambino ha fatto rapporto.
Mangiamo in silenzio. Polenta con carne in scatola. Pessimo gusto e un gran male a divaricare la bocca. È una sera speciale. Si festeggia il ritorno di un iniziato. O il funerale di uno stronzo.
Finito il pranzo, Aleksandra scocca un bacio sulla fronte a tutti i bambini, me compreso. Poi si avvicina e sussurra – Oggi hai fatto un grande gesto.
– Ho solo ucciso uno sconosciuto. Non mi sembra una gran cosa.
– Non era un semplice uomo. Quando Patrick gli diceva di un nuovo arrivo, andava da solo nella boscaglia, sperando di trovare un bambino. Si divertiva, amava essere il primo. Quasi tutti i bambini l’hanno conosciuto.
– E non solo – aggiunge – ha avuto un ruolo importante nella sua vita – indica il bambino della Foresta.
Non voglio sapere i particolari. Dopotutto è una serata di festa.
– Mi ha usato per vendicarsi.
– Dovevamo capire se eri davvero motivato.
– E se potevo esservi utile in qualche modo – la interrompo.
– Nessuno fa nulla per nulla. Dovresti saperlo, tu non sei da meno.
– Non poteva ucciderlo lui?
Si avvicina e il suo odore sa di legno e humus.
– Lo avrebbero capito. Non voleva rischiare la sicurezza del campo.
– Io invece sono solo un fuggitivo che ha avuto fortuna.
– Penseranno che volessi superare la sorveglianza e raggiungere la cima. Abbiamo guadagnato ancora qualche giorno.
– E ora so – aggiunge – che la tua motivazione supera i tuoi principi.
Aiuto a sistemare i rifiuti tutto il pomeriggio. Perché sono io stesso un rifiuto. Scatole di tonno, scatole di carne, scatole di fagioli, scatole e scatole di ogni tipo di verdura. Siamo bestie all’ingrasso, qualcuno ci nutre e forse ci osserva. Siamo pesci in un acquario. Piccoli scarafaggi che si mangiano per il piacere di chissà quale dio.
XII.
Mattinata dedicata alla riabilitazione e alla pulizia. Da qualche parte bisogna pur gettare i rifiuti biologici. Poco tempo per riposare e ancor meno per chiacchierare. Pomeriggio destinato alla raccolta di legno secco. Fascia in mano, mi muovo per il campo, come un falegname che poco a poco sta perdendo lo sguardo urbano.
La sera arriva inaspettata, ma nessuna buonanotte per i bambini. Un falò, il più grande che io abbia mai visto, proprio al centro della piazza. Lue mi confida eccitata che ci sarà il cinema e sono proprio curioso di scoprire cosa intenda.
Il fuoco è alto nel cielo. Illumina i loro visi. Caldo secco. Conto otto maschi, nove femmine e due adulti. Occhi in attesa: vitrei, immaturi, senza innocenza.
Sono il nano della terra di mezzo, che ha perso tutto ciò in cui credeva. Alice che ha seguito il Bianconiglio nel paese delle meraviglie. Sono l’Ulisse dei poveri, che ha perso il favore degli dei.
Li osservo. Non so nulla di loro, se non che hanno sofferto. Derelitti, che tentano di scordare il loro passato nel Villaggio. Abusati di ogni etnia. Nel mondo di fuori, come lo chiamerebbe Aleksandra, spesso ho avuto a che fare con traumi di questo genere. I peggiori in assoluto.
La risposta del motore psico-emotivo di un essere in formazione è quanto di meno prevedibile esista. Se un bambino ha subito un maltrattamento nell’età in cui il contatto fisico è necessario per trasmettere il calore emotivo, fondamentale per una sana crescita, tutto il suo essere si sconvolge. L’abuso fisico si fonde con quello psicologico e viceversa.  E se ad abusare è stata una figura di riferimento, peggio ancora, se ci può essere un peggio, perché la testa e il cuore trasformano il sesso nell’unico mezzo per essere amato o per amare.
Ho svolto anche questo, come lavoro. Mi sedevo attorno a un tavolo, come sto facendo ora attorno al fuoco, e iniziavo a fare la mia parte. Con i colleghi studiavo il modo migliore per essere terapeutico, con questi piccoli pazienti. E invece continuavo a pensare che, malati o meno, i loro carcerieri erano dei maledetti figli di puttana, che non meritavano di vivere.
Ora è diverso. Non devo nascondere nulla.
– Chiudete gli occhi. Questa sera vi racconterò una storia. La storia di Dorothy.
Penso a Iris e a come vorrei averla qui, accanto a me e al falò, ad ascoltare. Lei ama le storie. Questo fuoco mi sta riscaldando il cuore e forse con lei riuscirei, almeno per una sera, a non sentire quel freddo che viene da dentro e che mi accompagna da quattro anni. Da quando mi ha lasciato solo. Da quando Dio si è mostrato essere solo un’eventualità.
– Era una bambina che viveva in una città americana, in una casa con gli zii e un cane di nome Toto. Sapete cos’è l’America?
– Un continente – risponde Lue.
– Diciamo di sì.
– Immaginate Dorothy che gioca con il suo amico Toto – pausa – quando di colpo il cielo si fa scuro.
Sento Lue che si stringe al braccio.
– Il vento soffia forte e Dorothy e Toto si rifugiano in casa. Ma un ciclone avvolge la casa, la solleva e la porta via.
Spio dalle fessure delle palpebre e vedo che tutti hanno gli occhi serrati. Aleksandra invece è lì, in piedi. Quasi danza attorno al fuoco mentre racconta, mimando con le mani e creando il suono del vento con la bocca.
– Viene scaraventata in un mondo fantastico, in un luogo che chiamano la Terra Blu dei Mastichini. Ma la sua casa atterrando schiaccia una strega: la strega dell’Est.
Percepisco i loro respiri affannosi e attenti.
– Perché dovete sapere che Dorothy è caduta in un mondo magico, dove vivono quattro streghe. La strega buona del Nord e la strega buona del Sud, la strega cattiva dell’Ovest e la strega cattiva dell’Est, ormai defunta.
Nessuno fiata.
– Come ringraziamento per aver ucciso una delle due streghe cattive, la strega del Nord le regala un paio di scarpette d’oro e le chiede cosa desideri di più. La bambina vuole con tutto il cuore tornare dagli zii, nella propria casa.
Crepitio di legna. Fumo che fugge verso la Via Lattea ed io che non riesco a tenere chiusi gli occhi.
– Voi sapete qual è la vostra casa?
– Qui – in coro – questa è la nostra casa.
– La casa – continua – non è un luogo in particolare ma qualsiasi luogo che susciti un’emozione di calore e sicurezza. E cosa fa nascere questa emozione?
Nessuno risponde.
– Voi. La nostra casa non è fatta di legno o scatole viaggianti, ma di persone. In futuro potreste essere sballottati in altri luoghi, ma non dovete perdervi mai di vista. Stare insieme sarà per voi la vostra casa.
Ascolto e imparo, come uno scolaro vecchio e stanco che deve ripartire da zero.
La mano di Lue scivola dal mio braccio alle dita. Non ho mai potuto offrire a Iris una compagna di giochi come lei. E da anni non assapora il calore di una casa.
Quante cose abbiamo perso e quanto poco abbiamo guadagnato. Aleksandra è stata addestrata per vivere fuori dal Villaggio o dalla Foresta che sia. E ora vuole fare lo stesso con i suoi figli adottivi. Ma non è ancora pronta e loro ancora meno. Il mondo di fuori è peggio di quello che pensa. Qui almeno i colori sono chiari. Me la immagino in una clinica psichiatrica etichettata come borderline. E penso al mio amico lupo ridotto ancora peggio, a mangiare topi nelle discariche di qualche grande città.
– Dorothy voleva tornare, ma non è mai così facile. Dovrà compiere un lungo viaggio in una terra sconosciuta, fino a un potente Mago, l’unico a poterla aiutare.
– E ce la farà? – ancora la voce di Lue.
– Piano, Lue, piano. La storia è ancora lunga. Molti saranno i pericoli prima della fine del viaggio.
– Poverina. Sempre da sola…
– Sh! – in coro. Lue è una chiacchierona e, seppur senza aprire mai gli occhi, continua a interrompere.
– Non sarà sola – intervengo – la accompagneranno tre nuovi amici.
Aleksandra mi guarda ed io chiedo scusa, ma non ce l’ho fatta a stare zitto. Il Meraviglioso Mago di Oz era uno dei miei romanzi preferiti da ragazzino.
– David ha ragione, bambini. Lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta e il Leone Codardo. Ha dimenticato però il cagnolino Toto.
– E perché la vogliono aiutare?
Questi bambini sanno già che nessuno fa nulla per nulla.
– Ognuno di loro ha un motivo. Lo Spaventapasseri vuole un cervello, poiché non ce l’ha, il Boscaiolo vuole un cuore, visto che è di latta e spera di diventare umano, e il leone Codardo secondo voi cosa desidera?
– Diventare coraggioso – in coro.
– E il Mago è così potente che può realizzare tutti i loro desideri.
Meglio del cinema. Meglio della psicoterapia di gruppo. Meglio di ogni altra cosa mi venga in mente.
– Ora inizia la parte più paurosa, ve la sentite?
Neanche a chiederlo. Anche perché non ricordo bene la storia, sono trascorsi troppi anni.
– La strega buona bacia sulla fronte Dorothy e le promette che questo bacio magico la proteggerà durante il viaggio.
Tutti i viaggi sono pericolosi. E ogni strada è un viaggio. Di conseguenza il pericolo sta ovunque. Questa mattina ho tolto la vita a un uomo. Non l’ho semplicemente ucciso, ma l’ho fatto con gusto. Legittima difesa, direbbe Marc, ma ciò non rende meno orribile la cosa. La mia crocerossina ci ha messo mezz’ora per togliere il sangue, che mi è penetrato sotto le unghie quando gli ho strappato la lingua. Ed io mi sentivo in colpa, non per aver ucciso un uomo, ma per averle dato altro da fare.
– Appena iniziato il viaggio – le sue parole si perdono nell’etere – la nostra combriccola di strampalati eroi incontra i Kalidah, esseri con le sembianze d’orso ma con la testa di tigre. Perché dovete sapere che i mostri esistono davvero e tutti noi li abbiamo incontrati. Esistono nella Foresta, nel Villaggio, in ogni luogo esistente.
– E nel mondo di fuori – aggiungo senza rendermene conto. Io e Lue non riusciamo proprio cucirci le labbra.
– Ovunque – continua – esistono creature che possono farci del male, e spesso si nascondono sotto sembianze umane. Qui, nel mondo di Oz, i mostri sono ben visibili e sono forti e cattivi.
Silenzio. Respiri e ricordi pesanti.
– Ma non bastano a fermarli. Né a fermarci.
Spio il suo sguardo famelico.
– Ora immaginate un campo di papaveri, uno sterminato tappeto rosso, un mare calmo, smosso solo da leggere onde di vento, ma un vento dal profumo inebriante. Un odore capace di addormentare chiunque lo aspiri. Un odore magico dal quale bisogna allontanarsi al più presto, altrimenti si rischia di non risvegliarsi per l’eternità.
Sono rapito da quell’immagine, percepisco quasi l’aroma. Mi chiedo se sul fuoco Aleksandra non abbia gettato anche qualche foglia di marijuana.
– Vi racconterò di come Dorothy e i suoi nuovi amici hanno affrontato il più subdolo dei loro avversari. Perché i pericoli possono anche avere fragranze dolci, ma non meno mortali.
Continuo ad ascoltare in rispettoso silenzio. Penso alla maga Circe, a quanto un luogo possa diventare infimo se ci si lascia cullare dalla comodità e dalle lusinghe. Non sarai la mia Circe, questa non sarà la mia isola di serenità, ma solo una tappa del mio viaggio di ritorno.
– Giungono quindi a un campo di papaveri magici e cadono in un sonno profondo. Ma non tutti, solo la bambina, il cane e il Leone. Lo spaventapasseri non è un essere umano e neppure il Boscaiolo di latta, non possono respirare e di conseguenza addormentarsi.
Silenzio. Crepitio. Fruscio del vento tra gli alberi.
– E per questo motivo proprio loro due riescono a salvare Dorothy e Toto, ma non il Leone, perché troppo pesante. È solo grazie all’aiuto della regina dei topi campagnoli, che il Boscaiolo di Latta aveva salvato uccidendo un gatto selvatico, che il Leone sarà messo in salvo.
Aleksandra racconta ancora della città di Smeraldo, di occhiali magici, del Mago di Oz e di come a ognuno di loro sembri un essere diverso.
Il seguito alla prossima puntata.
La serata termina con me che prendo Lue addormentata tra le braccia e la porto alla tenda. È leggera come fosse di carta, ma è di carne e ossa, non il personaggio di un racconto di L. Frank Baum. Adagiandola sulla branda, mi chiedo cosa ci faccio in quest’assurda situazione. Chiudo gli occhi e spero di sognare o di svegliarmi, non che faccia quella gran differenza.

 


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