"La fiaba della buonanotte" di Lucio Figini (parte terza)


marsiglia

 

V.

Fitta al fianco. Luci di candele. Superficie soffice sotto la schiena. Il mio uccello che pulsa.

Non abbiamo alcun potere sui sogni.

Le mani sono libere e la prima cosa che faccio al risveglio è grattarmi la testa. Quel che resta dei miei capelli non supera le tre dita di lunghezza.

– Pidocchi – è il bambino lupo a parlare.

– Che schif…

– Dagli un po’ d’acqua – una voce diversa.

Si avvicina a quattro zampe e getta tra le mie mani una borraccia. Bevo con calma, non ho più voglia di vomitare. Le gambe sono fasciate e pulsano, ma almeno sono attaccate al corpo.

– Dove mi trovo?

– Tra amici – ancora non lo metto a fuoco.

Cerco di alzarmi. Cedo ancor prima che il mio cervello mentalizzi il movimento.

Gli occhi, poco a poco, si abituano alla penombra. Il luogo dove mi trovo è ampio una cinquantina di metri quadrati. Un solo stanzone delimitato da pareti di tenda. Un braciere che sputa scintille verso un buco sul soffitto e una fila di brandine vuote. Io coricato sulla prima. Un catino con acqua e sangue di fianco, sopra un comodino improvvisato. Il pavimento, il soffitto, persino l’aria che mi circonda sa di verde. Sono nudo, se non per un paio di mutande grigie, che chissà per quale motivo immagino in dotazione all’esercito. Parte del dorso è fasciata.

Non sento freddo.

Ha tutte le caratteristiche di una tenda militare ed io mi sento un reduce di guerra.

– Chi sei? Fatti vedere!

– Sono il Maggiore.

In molti attorno a me. Una decina o più. Vanno dai tre ai tredici, quattordici anni, o giù di lì. Chi ha parlato è il più vecchio. Ha i capelli rossi, lunghi e raccolti a formare una treccia.

Le troppe domande muoiono in un silenzio che viene da dentro.

– Mangia – indica una ciotola, colma di una poltiglia verde.

– Grazie.

– Lei ti vuole parlare.

Il sapore non è male. Minestrone di verdure, poco salato ma con una punta di piccante.

– Da dove vieni? – è una bambina alta poco più di un metro a parlare.

– Intendi negli ultimi giorni o da quale parte del mondo?

Incertezza nei suoi occhi.

– Da Marsiglia – rispondo – abitavo in un piccolo appartamento, con ogni tipo di comodità – parlo più a me stesso.

– Cos’è un appartamento?

– Dico, stai scherzando.

– Smettila Lue, lascialo stare. Non devi risponderle, se non ti va.

– Non preoccuparti, mi piacciono le bambine curiose.

– Sei qui per aiutarci?

– Non so aiutare neppure me stesso, figurati una mandria di mocciosi.

Il bambino lupo è nascosto in un angolo. Si avvicina, mi toglie la ciotola vuota, mi annusa vicino al collo, poi si allontana.

– Non ci sono adulti?

– Nostra madre non ha mai portato nessuno qui – è ancora il Maggiore a parlare, il tono non è amichevole – sei il primo.

Poi lei entra.

E si fa silenzio.

I capelli sono neri e scendono oltre le spalle. Voluminosi. Spettinati. Il viso è una tempesta a ogni passo. Labbra carnose e occhi scuri. Un demone dell’inferno che non supera i trent’anni. I bambini la guardano estasiati.

Nessun dubbio. È colei che mi ha scopato durante la mia prima notte in quest’assurdo mondo.

La tunica scura arriva fino alle caviglie. Si apre davanti, lasciando intravvedere pantaloni mimetici aderenti, rotti all’altezza delle ginocchia.

Si siede a terra, con le gambe incrociate.

– Cosa vuoi da me? – parlare senza singhiozzare è la cosa più difficile che debba fare, da quando sono stato rapito. Nella fortunata ipotesi che si tratti di rapimento.

Sorride. Denti candidi come il latte.

– Cosa vuoi ancora? – ripeto – rispondi per favore.

– Non iniziare a piangere come un bambino – la sua voce sa di legno.

– Vaffanculo.

– Bel modo di ringraziare.

– Forse sei stata tu a consegnarmi a loro.

– Bene. Inizi a smettere di frignare e a usare la testa.

– Dove sono?

– A casa mia. Sei un ospite.

– E tu chi sei?

– Il mio nome è Aleksandra, ma mi chiamano la Veggente.

– Perché sono qui?

– Ho mandato uno dei miei a salvarti.

– Intendo il vero motivo per il quale sono stato rapito.

– Io mi sono limitata a volerti qui.

– E non solo…

Fa un cenno e il Maggiore si avvicina con una tazza fumante.

– Bevi adesso. E riposati, ci sarà tempo.

Vorrei altre risposte, ma dopo il sapore amaro del the sulla lingua riesco solo a scorgere il sorriso di quella donna. In quel momento il mondo accanto a me scompare.

– Sveglia – la bambina, che hanno chiamato Lue, mi sta solleticando il collo con una bambola fatta di legno e foglie.

– Sei sveglio?

– Credo di sì, adesso smettila.

Provo ad alzarmi, ma ancora niente.

– Sei svenuto e ti abbiamo lasciato dormire.

– In stato d’incoscienza, intendi. Mi avete drogato?

– Stai coricato adesso, le gambe sono ridotte male e se s’infettano, sono guai. Non è facile trovare antibiotici.

– E tu che ne sai di queste cose? Avrai sette anni.

– Sette e mezzo. E sono la tua infermiera.

Andiamo di bene in meglio.

– Lue, questo è il tuo nome, se non ricordo male. La bambina curiosa.

– Non sono curiosa, sono attenta. Almeno questo dice nostra madre.

– Piacere, Davide. O David, a questo punto poco m’importa.

Indossa capelli castani chiari e lineamenti nordici. Naso sottile, labbra sottili, fessure degli occhi sottili. Mi sorride come fossi il suo nuovo animaletto domestico.

È magra da far paura, ma non sembra denutrita, solo di costituzione esile. Pettinata così, con i capelli raccolti, ricorda una ballerina classica, se non fosse per i movimenti da scaricatore di porto.

– E così sarai tu a occuparti di me? In quale università hai studiato?

– Sono piccola, ma capisco quando mi prendono in giro.

Solo in quell’istante, a quelle parole, mi accorgo che per la prima volta da giorni non sono a testa in giù ma coricato comodamente, al caldo e con una piccola infermiera che mi accudisce.

– Scusami, Lue. Ho passato brutti momenti.

– Lo so. Gli uomini del Villaggio sono cattivi. Io ero con loro – abbassa lo sguardo – prima che nostra madre mi portasse via.

– Ti ha rapito?

– Mi ha salvato.

– Tu da dove vieni?

– Sono sempre stata nel Villaggio. Le persone si occupavano di me, a modo loro.

Dal suo sguardo immagino come.

– Sai che anch’io ho una bambina?

– Come si chiama?

– Iris. Ha quasi la tua età.

– E adesso dov’è? – mi sta sostituendo la fasciatura alle gambe. È un’ottima infermiera. Fa parlare il paziente per distrarlo.

– Spero con mio padre. Insomma, suo nonno.

– Io non ho mai avuto un padre e neppure un nonno.

La gamba è ridotta male. Ed è bastato il ricordo di Iris per ridurre male quel che resta di me.

– Tutti hanno un padre.

– Io no – risponde in modo risoluto – ma ho tanti fratelli e sorelle. E una mamma.

Stringe con forza il legaccio della fasciatura.

Fastidio. Dolore. Testa in un frullatore.

– Hai detto che arrivi da Marsiglia. Hai mai visto una nave? Di quelle con le vele?

– C’è un vicolo che costeggia Vieux Port dal quale si vedono sia le navi che il mare sconfinato. È il porto più vecchio della città.

– E di tutta la Francia – m’interrompe.

– Sì. È vero. È una delle prime cose che ho scoperto dopo che mi sono trasferito dall’Italia.

– Lo so. Mi piace studiare.

– Qui?

– Aleksandra ci insegna com’è di fuori. Dice sempre che non dobbiamo dimenticarlo, perché un giorno potrebbe servirci. Io so tutto della Francia e anche qualcosa dell’Italia. Roma soprattutto, la Cappella Sistina e il Colosseo, e anche il Foro.

È una chiacchierona e questo è un male.

– Dove sei nata?

– Nel mondo. Ci ha spiegato che noi siamo nati in tutte le parti del mondo, ma che ci siamo ritrovati nel Villaggio. Eravamo molto piccoli e pochi di noi ricordano la vita di prima.

– Perché lei vi ha preso?

– Te l’ho detto. Per salvarci. Ma non può salvare tutti. Molti se li portano via gli uomini grigi.

– Adesso basta – il Maggiore è entrato all’improvviso – non sappiamo se possiamo rispondere alle sue domande.

– Lui ci aiuterà, non ricordi?

– Per ora siamo noi ad aiutare lui.

Occhi azzurri. Fierezza. Sfida.

– È quasi notte. Lei vuole che non ti alzi fino a domani. Perciò basta domande e dormi.

– Immagino che tutti ubbidiate sempre ai suoi ordini.

– Non puoi capire. Siamo una famiglia e ci aiutiamo. Non c’è bisogno di dare ordini. Per te invece è diverso – tira fuori dalla tasca laterale un pugnale e con l’altra, con maestria, mi porge la solita tazza fumante – non sei dei nostri.

– Adesso bevi – finisce.

Ed io bevo, ma questa volta non prima di mettermi comodo. So che l’oblio mi raggiungerà in un battito di ciglia.

 

VI.

Meraviglia. Incazzatura. Curiosità e fame. I sapori del risveglio.

Le gambe sono ridotte male, ma reggono il corpo. Approfitto di non essere un prigioniero, ma un ospite. Raccolgo i jeans, gettati in fondo al letto, e mi vesto. Camminare è strano e faticoso. Non sono più abituato ad avere la testa sulle spalle.

Non vedo il sole, dal buco sopra il braciere, ma la luce che entra sembra quella del mattino presto. La tenda è più piccola di quello che mi era parso, in un attimo sono all’uscita.

Supero la soglia. Freddo pungente e raggi caldi sulla pelle. Tre roulotte, un camper, qualche tenda e un capannone. Il tutto disposto a cerchio. Al centro uno spazio vuoto, simile a una piazza, e dietro alberi fitti, una boscaglia. Sento il rumore non troppo distante di un torrente. Chiunque abbia scelto questo luogo per accamparsi ha pensato a tutto.

Credo che il capannone sia adibito a scuola e insieme mensa. I rifiuti sono accatastati in perfetto ordine nelle vicinanze. Forse la tenda dove alloggio vuol essere un ospedale e le roulotte i dormitori. In un angolo vi sono dei giochi, artigianalmente costruiti in legno. Un cavallo a dondolo, un’altalena e un’amaca, sorretta da rami incrociati.

Cammino lentamente, silenziosamente e sento la voce della donna. Tiene una lezione. In lontananza mi colpiscono parole come elicotteri, automobili, barche e altri mezzi di locomozione, poi altre che indicano sostanze di propulsione: benzina, gasolio, vento.

La luce del giorno mi regala la prova. È tutto vero. Non sono una decina, ma quasi il doppio, perfettamente silenziosi, seduti e attenti. Nessuno si accorge di me.

Osservo affascinato quel campo profughi, per niente improvvisato, e percepisco un ordine, una pulizia, un piano dietro tutto questo.

Poi il bambino lupo sbuca da dietro al camper, corre da lei e le sussurra qualcosa all’orecchio.

– Subito al sicuro! E non vi muovete finché non vi chiamo – urla la donna.

Il più grande fa strada. In un attimo tutti spariscono. Lei corre al camper e ne esce immediatamente, nascondendo qualcosa.

Quattro uomini arrivano dal sentiero. Davanti a tutti c’è lui, il capo. È più piccolo di quel che credevo.

Mi butto tra i rifiuti. Odore di carne avariata e verdura marcia. Contenitori e contenitori di cibo in scatola, aperti.

– Di’ ai tuoi di non entrare.

A un cenno si fermano, prima del campo.

– Devo parlarti, Veggente.

– Allora parla.

Il capo si guarda attorno.

– È da qualche tempo che non venivo. Ti sei sistemata bene.

– Ti presenti solo quando hai bisogno.

– Questa volta non è per una profezia, né per un consiglio. Il tuo ragazzino ha conciato male uno dei miei.

– Non ti sei mai interessato agli altri, Patrick. Cosa vuoi in realtà?

– Sempre diretta, la mia Aleksandra.

– Non ti conviene esagerare.

Si siedono sotto il capannone, a pochi metri da me.

– L’ha aiutato a scappare e credo che sappia dove si trova.

– Non so di cosa parli.

– Non prendermi per il culo. Fuori dal Villaggio nessuno si muove senza che tu lo sappia.

I suoi uomini sono immobili. I bambini scomparsi. Il tempo immobile.

Nessuna soggezione in lui.

– Qui non c’è nessuno. Prendi la tua gente e vattene, prima che mi dimentichi la nostra vecchia amicizia, se così si può chiamare.

– Lo vogliono. Non posso più proteggerti se lo aiuti. Se loro tornano e non lo trovano, ci saranno rappresaglie.

– Cosa ti fa pensare che io abbia bisogno della tua protezione?

La gamba inizia a sanguinare, ma non mi muovo.

– Possiedono tutto questo, non dimenticarlo.

– Possiedono voi, non me o i miei ragazzi.

– Ascolta, fino a ora abbiamo fatto finta di nulla. Insomma, ti abbiamo coperto, forse anche per pulirci la coscienza.

– Siete dei fottuti bastardi ed io non sono da meno. Non sperare di avere ancora una coscienza.

Lui stringe i pugni.

– Allora diciamo che tu ci hai aiutato spesso e nessuno si è mai opposto apertamente a farti tenere i bambini. Hanno paura di te, credono che tu possa leggere il futuro e lanciare anatemi. Che tu e i tuoi siate demoni dell’inferno. Però non dimenticare che io ti conosco – la voce si fa sottile – Aleksandra, te lo chiedo come favore personale, ora è diverso.

– Perché sei convinto che io conosca quell’uomo?

– Mi ha parlato di una donna che ha incontrato nella foresta, non puoi essere che tu.

– Sì. Sono incappata in un uomo e me lo sono fatto ma nulla di più. Ho imparato a non affezionarmi.

– È da anni che non portavano all’interno un adulto. Non c’è da scherzare, è una cosa grossa.

– Ho smesso di preoccuparmi di ciò che fanno.

– Non dimenticare dove sei e chi ti permette di continuare a vivere, a te e a quelli che ti ostini a chiamare figli.

Aleksandra infila la mano sotto la tunica.

– Sarà meglio che torni al Villaggio.

– Mi spiace che tu la metta così, mi spiace davvero. Dirò ai miei uomini di cercarlo fino al confine, non può farcela, visto come lo abbiamo ridotto. Ci vorrà un paio di settimane per perlustrare tutto il perimetro, poi, se non me lo portano – guarda i suoi uomini – tornerò.

Lei continua a osservarlo, mentre si allontana. Solo allora i bambini compaiono e si mettono a ferro di cavallo attorno alla propria madre.

– Puoi uscire – si rivolge ai rifiuti, si rivolge a me.

Le gambe non si muovono.

– Aiutatelo, prima che svenga dalla paura.

Il bambino lupo e il Maggiore si avvicinano, mi prendono per gambe e braccia. Il culo striscia per terra. Sono un sacco di merda. Un peso morto.

– Riportatelo dentro.

– Lasciatemi, cazzo. Posso camminare.

– Piantonate la tenda: non deve uscire per tutto il giorno.

– Hai rischiato di mandare tutto a puttane – questa volta si rivolge a me.

Chiudo gli occhi. Mi lascio trasportare fino alla branda. Sono stanco. Dolorante. Svuotato. Il problema non è avere le risposte ma farsi le domande giuste, avevo detto ai miei studenti non molto tempo prima.

Mi avevano guardato come si guarda un saggio, nonostante avessi poco più della loro età. Di tutto ciò non rimane nulla. In questa terra di mezzo non mi è servito a molto parlare. Non mi è servito a molto chiedere.

La mia stella, amore mio, saprà trovarmi? Ho inventato una storia di fantasia per non confessarti, in una notte lontana secoli, che anch’io ho paura di morire da solo. Che non posso giurarti che rivedrai tua madre, perché è probabile che non esista nulla oltre a questo. Nessun angelo, nessuna terra promessa, dove ritrovarsi un giorno. Nessun disegno di Dio dietro la sofferenza. Solo noi due.

Ginocchia piegate, le mie. Accoccolato vicino, il mio piccolo fiore. Profumo di shampoo e di cloro, Iris deve essere stata in piscina. Gioca con i capelli, li arrotola e arrotola e così facendo mi solletica la fronte. Prende la mia mano e la usa come guanciale. Si struscia come un gatto e mi chiede quanto le voglio bene. Più della mia stessa vita, amore mio. Battito di due cuori nel silenzio della stanza.

– Ehi, stai bene?

– Non lo so, Iris. Non lo so.

– Sono Lue.

Sono a casa, nella camera con mia figlia, e non riesco a svegliarmi dall’incubo più surreale della mia vita. O sono in un campo profughi in mezzo al nulla, perennemente drogato da una mamma che insegna il cannibalismo ai propri figli, e sogno una vita diversa. Una vita con ancora una figlia e, perché no, già che ci sono, anche una moglie.

– Come stai?

– Bene.

Mi guarda meravigliata.

– Hai avuto la febbre alta.

– Ora sto meglio.

– È tutto il giorno che ti muovi nel letto.

– E tu mi sei sempre stata vicina?

Sorride, ma ha il viso stanco.

– Grazie, Lue.

– Sembri diverso.

– Devo vedere Aleksandra. Chiamala. È importante.

– A quest’ora è nella Foresta.

– Per favore, vai ad aspettarla e, appena rientra, dille che vorrei parlarle.

Lue mi lascia solo ed io mi sveglio, ma mi sveglio davvero.

Osservo il fuoco che cerca il cielo. Lo stesso cielo che copre qualsiasi luogo e che forse sta osservando mio padre. A quest’ora Marsiglia si muove frenetica. Impiegati, operai, spacciatori, il bene e il male della città tornano a casa, alla propria casa, alla propria vita, credendo che il domani sarà migliore, che cambierà qualcosa. Invece non cambia mai nulla. Per loro, almeno. Affaticarsi giorno per giorno con il solo intento di dimenticarsi la morte. Non è solo difficile ma patetico.

Mio padre mi ha seguito dall’Italia in una nazione estranea, masticando solo un poco la lingua. Ora che sono solo penso a lui e a cosa debba aver provato. Dopo la morte di mia madre si è chiuso in una dolce solitudine, come se non avesse più bisogno di nulla, solo dei ricordi. Una moglie e una figlia in poco più di un anno, rammento ancora le sue parole, mi rendi il papà più felice del mondo. Lasciare la nostra casa non deve essere stato facile. Ma i ricordi si portano nel cuore, ora lo comprendo, non nei muri di una casa.

L’immagine di mia madre, che mi osserva mangiare e sorride a mio padre, non sfuma col tempo o col dolore, non si nasconde tra i rumori della gente. Quel sorriso è lo stesso di mia figlia e mi dice che c’è ancora almeno una cosa da fare.

 


Lascia un commento