“La magia del teatro” di Marvin Menini


Questa è una storia di amore e sofferenza, passione e volontà, felicità e condivisione.
Come tutte le grandi storie d’amore che si rispettino.
Non si può dire dove abbia inizio. Potremmo farla cominciare in un’auto sospesa tra mare luna ed ulivi, oppure in un pomerigg d’inverno, o in una calda estate in mezzo all’odore del disinfettante. Non importa il luogo, solo il perché.
La risposta che scaturisce da due labbra che si incontrano, e capiscono che non ne potranno desiderare altre per tutta la vita.
Le storie d’amore non hanno tempo, inizio, età.
Ma parlano per noi.
Ed anche questa, ha molto da raccontare.
Parla di tutto quello che due persone hanno da dirsi. Parla di sogni, amore, quotidiano. Parla di condivisione totale uno dell’altro. Parla di due cuori e due anime che pulsano e fremono all’unisono, si sentono a distanza e come le radio a transistor emettono un sottile ronzio che solo quelle orecchie percepiscono.
Parla di sesso, amore, momenti di incredibile dolore ed inesauribile allegria. Parla di speranza, felicità, parole sussurrate e gridate al cielo. Parla di notti con una birra in mano. Parla di sigarette fumate una dietro l’altra a raccontarsi. Parla di sorprese, scherzi, gelosia, inseguimenti. Parla di ogni luogo, ogni viaggio, parla di arredamento e cambiamenti, non solo esteriori. Parla di forza donata e ricevuta, parla di lunghe camminate mano nella mano attraverso la vita. Parla di quadri, Monet, Magritte e libri. Parla di Signori degli Anelli, di Principi delle Maree, di Sud America ma anche di New York, Parigi, rane e ragni, lacrime salate, lacrime dolci rucola e cipolle.
Parla di musica in amore ed amore che è musica. Perché solo la musica entra dentro come l’amore, e crea ricordi, sensazioni, voglia di vita e pelle. Pelle, che lascia l’odore su quello che sfiora. Sui capelli, sulle mani, sul viso.
Parla di scelte, coraggio, decisioni e lenzuola. Racconta della neve, del tempo, di tatuaggi e lettere. Telefonate interminabili, notti passate a parlare, mani tese verso l’ignoto e la paura e verso la felicità. Sussurra frasi di canzoni, scelte, decisioni, e del potere dell’amore.
Parla di pomeriggi passati per strada, caffè al volo. Parla di un maglione sporco di rimmel, dell’odore di un portone. Parla del profumo e del sapore di labbra, brioches vuote e focaccia, chewing gum e acqua naturale a temperatura ambiente.
Parla del potere di scriverne la parola fine.
E parla di un grande palco, con scenografie ben definite e disegnate. Sembrerebbe a prima vista un quartiere popolare: case ammassate su case, un singolo albero per raccogliere i passeri della zona che si stipano tra i rami e pigolano. Qualche cane che abbaia in lontananza, il cigolio di una corda per stendere.
Lui le aveva giurato amore eterno. Lei aveva sorriso, e socchiudendo gli occhi aveva risposto
-“Sai che non credo ai per sempre”.
Le aveva passato la mano nei capelli. Una carezza dolce, delicata, lunga. Avrebbe voluto baciarla. Ma non era il momento. Non era la sua scelta. Lui in realtà, aveva scelto da parecchio tempo.
-“Ti dimostrerò che i per sempre esistono. Ed anche i mai. Perché non ti lascerò mai andare via.”
Si abbracciarono.
E nel silenzio, l’occhio di bue che li illuminava si spense di colpo.
E giù il sipario.
Di colpo, dal cielo rotolò un fragore improvviso, in crescendo. Gli applausi scroscianti degli spettatori.
Una spettatrice immagina il seguito. E’ giovane, romantica. Ha appena lasciato alle spalle l’adolescenza e qualche chilo di troppo. E si scopre giovane donna, bella, desiderata dai coetanei con i quali, con un pizzico di civetteria, gioca e ama passare per frivola. Anche se in realtà ha un grande cuore romantico. E sogna il matrimonio dei due protagonisti. Perché lei sa che si sposeranno. Si amano troppo. E’ inevitabile. E’ il destino che li ha uniti.
Vede un matrimonio in un prato. Lei, con un vestito lungo di lino e qualche fiore tra i capelli. Ai piedi un paio di infradito. Lui, un completo color tabacco semplice. Si potrebbe immaginare che lui ha sempre odiato il marrone. Ma, quel giorno, sembra il colore più bello e luminoso del creato. E poi, lei gli direbbe che tabacco e marrone sono due colori distinti, che non capisce nulla come tutti gli uomini quando si tratta di colori. Vede lui strizzare l’occhio ad una testimone di lei, lo vede con gli occhi luccicanti. E si commuove, persa in questo sogno. Lasciamola in pace.
Qualcun altro seduto in platea, magari con qualche anno in più sulle spalle, magari con qualche lunga relazione fallita dentro all’armadio, potrebbe essere meno ottimista. Potrebbe immaginarsi lacrime, tempo, dolore. Potrebbe pensare che quello in realtà sia un addio e non il finale. O forse, un nuovo inizio. Perché come il vicino gli suggerisce tra gli applausi “Non c’è rinascita senza morte, non c’è cambiamento senza fine. Questo è per me il messaggio dell’Autore.”
La donna in terza fila, con lunghi capelli neri ed appena trentenne, lascia esplodere la fantasia.
Immagina New York sotto la neve, Central Park, un anello donato in ginocchio a meno quattro: mentre lei siede su una panchina in ferro battuto riverniciata di verde da poco e lui sta lì in ginocchio, con il collo che pulsa per l’emozione e le vene che sembrano esplodere. No, forse non è New York; forse è Parigi e siamo davanti alle Ninfee di Monet. Ma a lui… a quello sul palco… ma chi lo dice che ama Monet?
Qualcuno nel loggione si è annoiato. Un altro esce con la lacrima appesa all’angolo dell’occhio come una margherita su un burrone. Pensa al suo amore perduto e che forse quella sera era meglio starsene a casa, altro che svagarsi un po’ con il teatro. Che tanto le cose non cambieranno e lei non tornerà. Vorrebbe per l’ennesima volta correre a casa sua, citofonarle. Urlarle amore, minacciare gesti clamorosi. Che poi… chi minaccia… ma perché lo fa? Non è forse l’ultima, disperata, richiesta di aiuto? Non è forse un modo per dire “Non ho altro mezzo stupido quanto vuoi, infantile quanto vuoi…ma non so più come fare a dirti che ti amo e che ho bisogno di te…”?
Il critico in prima fila è perplesso.
Trova il tutto il solito polpettone amoroso trito e ritrito. Scritto male, dialoghi lacunosi, finale a malapena stucchevole e scontato. Si stupisce del successo di questa commedia ed esce dal foyer con il cipiglio, pensando “ah, ma domani lo stronco, vedrai”. Soltanto noi e pochi altri sappiamo l’odio che cova per l’Autore. Era il suo braccio destro tanti anni fa ma è stato cacciato. Diceva di essere più bravo di lui, diceva. Che erano sempre le stesse storie, mai un pizzico di novità o cattiveria. Che l’uomo non è così buono come lo rappresentava il suo Capo. Che era troppo facile tentarlo e farlo cedere per sua natura. Alla fine non ha ottenuto nulla, solo un pizzico di fugace celebrità. Adesso non gli rimane che covare tutto questo livore dietro ad un foglio di carta. La commedia è finita, tra poco anche gli ultimi spettatori usciranno dalla sala e lasceranno scivolare via il dolore. L’allegria, i dubbi dei personaggi. Rientreranno nelle scatole della proprie vite, e penseranno a tutto ciò che hanno visto come ad un sogno.
E l’Autore?
I più malinformati pensano addirittura che non esista. Che i personaggi si animino da sé, che le loro storie scorrano senza una logica ed un fine.
E’ bello mettere in scena un’opera teatrale – pensò l’Autore. Lascia intendere tutto quello che c’è stato prima, permette di raccontare una storia, delineare il carattere dei personaggi e plasmarli.
Eppure, lo spettatore è libero di scorrere gli eventi futuri attraverso la propria fantasia.
Se la ride, da sopra il palco. Ha creato i personaggi, li ha animati e dato loro vita. Gli ha donato un volto, un carattere e le loro nevrosi.
– “E pensare che anche l’occhio di bue è esattamente dove volevo che fosse”.
Gli applausi scemano, il sipario cala definitivamente dopo l’ultimo commiato degli attori e la sala è di nuovo inghiottita dal silenzio.
Dietro le quinte, il buio lascia intravvedere i visi dei due interpreti principali, a malapena, come se fossero una barca nella notte più buia in mezzo al mare, in lontananza; con la luce della lampara al posto degli occhi.
Lui si accende, finalmente, una sigaretta :
-“Ma tu, avresti risposto così?”
Lei si passa una salvietta sul collo, per togliere il film di sudore che la avvolge, fastidioso come un pile in Agosto. Luci e costumi di scena. Pesanti da portare. E caldo.
-”Che intendi dire?”
-”Tu…da donna… avresti risposto così o l’avresti baciato? Rinunciare per paura all’amore più grande della tua vita… che sciocchezza, non ti pare?”
-”Ma lei, scusa, mica rinuncia. Deve solo capire. Tutto li. E’ questa l’essenza del loro commiato.”
-”Ok, ho capito. Ma tu. Avresti risposto così o no?”
La donna ci pensa un attimo, si guarda le unghie della mano destra e si stacca delicatamente una pellicina da un dito con la punta degli incisivi superiori.
-“Non lo so. Mica era la mia storia, no?”
-“Si, ma se lui ti avesse detto le stesse cose, tu avresti risposto allo stesso modo?”
Lei schiocca le la lingua sul palato, ed alza gli occhi verso l’apice del cranio, come per guardare direttamente i pensieri mentre si formano.
-“In effetti, nemmeno io credo ai “mai” ed ai “per sempre”. Ma se ci crede lui, forse può bastare per entrambi, no?”
-“Si, a volte si. A volte assolutamente no. L’amore non è un interruttore da accendere e spegnere. O c’è, o non c’è. Se non c’è, uno non può fare tutto da solo”
-“Ma a volte l’amore lo scopri quando una persona l’hai persa. Mi verrebbe da dire per sempre”.
Lui rise.
-“Ma nessuno lo si perde mai per sempre”. Calcò la frase, per dare maggiore enfasi al gioco di parole. E continuò.
-“D’altronde, se mai e per sempre non esistono, non esistono nemmeno gli addii, non ti pare?”
-“Già. Vabbè, vado a farmi una doccia. Sono esausta per questi discorsi filosofici. Non te la prendere eh? A domani sera”
-“Buonanotte”
L’attrice si allontanò lentamente. Lui spense la sigaretta sotto la suola della scarpa e gettò il mozzicone nella pattumiera. La chiamò ad alta voce, lei si fermò. Sbuffò, con un minimo di sufficienza e l’espressione tipica delle persone annoiate dai discorsi.
-“Ma tu… Lo so, è una domanda sciocca e già sentita. Ma ecco, credi siano meglio i rimorsi o i rimpianti?”.
Lei si girò, e gli strizzò l’occhio .
-“Questo dovremmo chiederlo all’autore”.
-“Dai. Magari lo faremo. Ciao…”
-“Ciao”
“Bella domanda!” pensò l’autore da sopra. Aveva ascoltato tutto il dialogo in silenzio e ben nascosto dalle postazioni dei macchinisti dietro ai riflettori. Beh, diciamo che gli veniva facile nascondersi. Non è che si facesse vedere molto volentieri. Aveva un dono innato per farsi inseguire e lasciare che attori e spettatori si lambiccassero il cervello sul suo aspetto. Un po’ come Charlie, il misterioso protagonista di Charlie’s Angels. Rise di gusto, divertito dall’idea. Non a caso, anche quella serie televisiva era frutto della sua vena creativa.
-“Rimorsi, rimpianti… quante domande che si fanno… sono solo attori! Perché non pensano a recitare, che i copioni li scrivo io? Però, certo che ogni tanto hanno delle idee geniali. Come quelli qualche anno fa, che si misero a parlare di predeterminazione e libero arbitrio e volevano che io gli rispondessi a tutti i cosi. Mi aspettarono una notte intera, poi se ne andarono convinti che io non gli volessi parlare. Ma non hanno mai capito la verità… E che ne so? Io scrivo, queste domande mica me le faccio.”.
In teatro non c’era più nessuno. Spense lui le luci, come sempre. Le avrebbe riaccese per primo il giorno dopo. Come sempre. Aveva la mania di attivare per prima quella grande, al centro del palco. Un occhio di bue potente, che lasciava irrompere di colpo tutta la luce in un millesimo di secondo.
Si allontanò, fischiettando, senza nascondere una certa fretta. Troppi copioni da scrivere: e gli attori giusti da selezionare.


Lascia un commento