"La messa è finita" di Massimo Fagnoni


Questo racconto è tratto dalla raccolta “Solitario bolognese:  La luna e  la neve e altri racconti”
Giraldi Editore 2013

Don Lorenzo Rossi sta riordinando in sagrestia, ripone gli abiti di scena, la messa è appena finita e lui la ripercorre alla moviola, cerca nella memoria i punti deboli. Omelia perfetta. Ha ricevuto i complimenti dei fedeli, gli affezionati che lo seguono tutte le domeniche, soprattutto Bianca Ansaloni, che non sbaglia una messa domenicale. Donna affascinante Bianca, sempre elegante, curata, quel candore del viso, nemmeno un velo di trucco, collo lungo, pelle liscia che s’intravede fra il colletto del tailleur color panna e i corti capelli neri. Nel momento della comunione ha posato con delicatezza l’ostia consacrata sul palmo piccolo della mano pulita, liscia. Non ha lavorato un solo giorno in tutta la sua santa vita, quanti anni potrà avere Bianca? Trentacinque? Non importa. Ha sposato Giacomo Baroni, della Fratelli Baroni Infissi, uomo grasso, volgare, e ricco in maniera imbarazzante. Lui non entra mai in chiesa ma le offerte per la ristrutturazione della parrocchia sono sempre generose. Lorenzo si rende conto di provare un’attrazione non molto spirituale per Bianca ed è la prima volta che accade con tale prepotenza. In realtà la donna è troppo presente nella vita comunitaria, con il catechismo, poi durante le feste di beneficenza, poi, un po’ alla volta, in tutte le attività parrocchiali, con la sua dolcezza, con quegli occhi da Giovanna D’Arco prima di salire sul rogo e quelle mani che incontrano le sue, dita lunghe e sottili che lo sfiorano per richiamare la sua attenzione. Lorenzo s’inginocchia davanti al piccolo Cristo raffigurato in un quadretto all’interno della sagrestia e chiede di nuovo perdono dei suoi peccati. Si concentra come faceva da fanciullo, quando cominciò a stabilire quel rapporto di fede che lo ha portato fino alla parrocchia del quartiere più esclusivo della città. È ancora  giovane, quarant’anni, laureato in filosofia, ha lavorato in fabbrica un anno per compenetrarsi con la vita operaia, ha vissuto un’estate in missione in Africa, si è speso in ogni modo per diffondere la fede, la sua fede, anzi, la fede in Cristo. Si concentra, cerca la fiamma dentro di sé, non trova nulla, solo gli occhi di Bianca che lo scrutano discreti, sorridenti. Sono occhi grandi, neri, profondi. Una smania nuova percorre lo stomaco di Lorenzo che s’inginocchia davanti al piccolo Cristo in croce chiedendo perdono sottovoce per i suoi innumerevoli peccati. Qualcosa si è rotto dentro, lo avverte. Inizialmente pensava fosse una crisi momentanea, una di quelle stagionali che ha sempre affrontato con coraggio, perché la carne è debole e lui è pur sempre un uomo, ma da qualche tempo il male lo assedia da troppi fronti, non gli dà tregua. Lorenzo decide di fare una doccia. Pulizia del corpo, pulizia della mente e forse dello spirito. Lascia che l’acqua fredda scivoli sulle spalle larghe (merito del nuoto diceva suo padre, che Dio lo abbia in gloria). Dopo la doccia infila una tuta di cotone leggero, nera, regalo dei parrocchiani per Natale. Le pecorelle del suo gregge sono facoltose, lo viziano, lo seducono con le tentazioni della carne e della gola, non si rendono conto che lui rimane un soldato di Dio, votato alla povertà, all’obbedienza. Suona il telefono della Canonica dove vive per scelta in totale solitudine. «Don Lorenzo?» Riconosce subito la voce e un brivido corre sulla pelle ancora calda di doccia. «Sono io.»
«Sono l’Anceschi, assistente sociale del Comune…» «Mi dica.» «Mi ha telefonato ora l’operatrice socio-sanitaria che segue sua madre, ha voluto prima parlarne con me, non voleva disturbarla durante la messa della domenica.» «Quindi?» «Sua madre… non è pensabile accudirla con le poche ore di assistenza domiciliare, è necessario ricoverarla in una struttura appropriata o in Canonica da lei.» «Qui non è possibile», risponde veloce, secco, quasi gridando. «Immagino, allora non vedo alternative, possiamo ricoverarla qualche giorno in ospedale e appena si libera un posto farla entrare a Villa Quieta, è convenzionata e presto si libererà un posto.» Qualcuno sta per morire, quello è il posto di mia madre, il posto di un moribondo in un luogo orribile. «La messa è finita, oggi ho tempo, andrò io a verificare le sue condizioni, poi ne riparliamo domattina, che ne dice?» Silenzio dall’altra parte. «Non c’è problema, si ricordi che appena si libera il posto a Villa Quieta è necessario procedere se non vuole che il suo letto venga preso da un altro anziano in difficoltà. La stiamo agevolando per l’intercessione di Monsignor…» «So tutto, non è necessario fare nomi per telefono, la chiamo domattina, stasera dormo da mia madre e poi vediamo che succede.» «D’accordo.» Lorenzo rimane con la cornetta sudata in mano, il cuore batte veloce. Vergogna, tristezza e amarezza si mescolano insieme, tolgono l’appetito trasformandolo in acidità che sale amara verso la gola. I pensieri rallentano, gli occhi belli si riempiono di lacrime. Si accascia sul piccolo scranno di legno e paglia vicino al telefono, rimanendo con la testa fra le mani a singhiozzare piano, per non farsi sentire da Dio. Con la vecchia Panda, bianca e rugginosa, Lorenzo si avvia veloce verso la Bolognina, dove vive sua madre. Entra nella vecchia corte Acer, ingombra di carcasse di auto rubate, buche nell’asfalto vecchio e consumato, frotte di bambini multicolore rumorosi e sudati. Non c’è molta differenza fra questa corte fatiscente affacciata sul grande cortile sparpagliato e il ghetto di un qualunque paese sottosviluppato. Gli odori sono acri e intensi, folate di carne cucinata all’aperto sopra griglie improvvisate, puzzo di plastica bruciata, profumo di cous cous, cumino, carvi, nigella, e harira, caratteristica zuppa di verdure e legumi del Marocco, preparata tradizionalmente durante il Ramadam. Sono aromi intensi, entrano nelle narici occidentali mescolati insieme, si attaccano alle papille gustative annullando qualsiasi altro aroma e sapore. Lorenzo lo sa bene, è stato in Marocco, ha mangiato alla tavola di molti nordafricani. Il quartiere sta cambiando, non si sentono più i profumi della carne cotta nel brodo, di lasagne al forno, di tortellini, di arrosti. Nuove culture, nuovi stili alimentari. Lorenzo scende dall’auto. Subito alcuni bambini lo circondano, urlano, sorridono, gli tirano la giacca nera, i pantaloni. Lui è il prete buono, neutrale come la Croce Rossa, e spesso distribuisce caramelle all’anice e lecca-lecca. Oggi no, oggi va di fretta. Sorride nervoso, accarezza una testa di capelli crespi e scompare nell’atrio del palazzo dove vive sua madre e dove è cresciuto anche lui. Sulle scale due magrebini, magri e scuri di vene in rilievo e narici frementi, stanno fumando eroina da sopra una stagnola nera di accendino. Hanno occhi rossi e gialli di itterizia o qualche altro malanno, guance scavate, mani lunghe e unghie nere, alzano la testa spaventati, poi riconoscono il prete e sorridono.
Denti macchiati, gengive pallide in rilievo, sembrano esperimenti venuti male, scherzi di laboratorio. «Don Lorenzo…», uno borbotta, con un filo di bava che scende sui pantaloni lerci. «Posso passare?», chiede il prete nervoso e scuro in volto. I due uomini sono abituati a riconoscere il disgusto negli occhi degli altri, non si vergognano di nulla, ma il prete lo rispettano. Il prete lo rispettano tutti nel quartiere, perché è buono e giusto, quindi si alzano, non senza un piccolo sforzo, escono come ladri dal palazzo scivolandogli accanto, lasciando dietro una scia di sudore rappreso nell’aria. Lorenzo sale i gradini quattro a quattro con le lunghe gambe magre, da pugile leggero. Entra in casa e il consueto odore va subito in circolo, colpendo prima l’olfatto, appiccicandosi agli occhi stanchi, penetrando prepotente nello stomaco. È odore di povertà, sa di pannoloni accatastati, di acido e dolce mescolati insieme, minestra di cavolo e brodo di dado in polvere, quello con le stelline o gli anellini. I mobili sono gli stessi da sempre, c’è nel lungo corridoio l’identica macchina da cucire che usava sua madre per i piccoli lavori domestici, una Singer da museo, con il pedale interno. Lui si nascondeva in quella minuscola tana quando sua madre non la utilizzava, doveva essere davvero piccino per potersi accucciare lì dentro, piccolo, magro, con pantaloni corti e neri e un fodero chiuso in vita con una piccola colt di metallo e plastica pronta a sparare ai cattivi. L’appartamento è uguale a se stesso, lui è cambiato. La voce arriva dal piccolo schermo, è una voce pungente di donna televisiva, sta raccontando qualche storia truce che parla di mostri che mangiano bambini dopo averli violentati o di soubrette-prostitute che hanno appena cambiato fidanzato dopo avere deposto in tribunale contro un ex presidente del Consiglio. Sua madre è appisolata in una vecchia poltrona polverosa di acari e pelata ai bordi dalle unghie di un gattaccio che come lei dorme beato sulle sue ginocchia artritiche. Lorenzo si ferma immobile in un angolo della stanza, dalla finestra arrivano le urla più o meno gioiose o minacciose della gente che popola il cortile. Il sole filtra nel piccolo soggiorno disadorno. La donna ha una testa disordinata di capelli bianchi che avrebbe bisogno di uno shampoo e di una permanente. Il viso è disteso, rughe come solchi intorno agli occhi chiusi e mani giunte in grembo, incurvate dall’artrite, le gambe sono distese sopra un basso tavolino di legno. Il gatto lo avverte: alza il muso nero, apre un occhio, lo identifica da qualche dato per lui archiviato nel suo data base e riabbassa il capo cominciando a ronfare. Lorenzo accarezza piano la testa ingarbugliata della madre. Com’è diventata piccola, lei che sosteneva l’intera famiglia, che ha accompagnato suo padre fino al suo ultimo respiro rantolante e che ha sempre incoraggiato il figlio nelle sue scelte, anche quando non le condivideva o non le capiva. Adesso è lì, dorme, sembra serena. È già così lontana. Lorenzo si siede al tavolo tondo di finto legno dove la domenica la famiglia si riuniva per mangiare i passatelli e il lesso che sua madre accompagnava con una salsa verde che non si trova in commercio, una ricetta tutta familiare, mai eguagliata altrove. Non sa quanto tempo rimane lì, senza fare nulla. Rimane a respirare l’aria rarefatta e viziata dell’appartamento. Un tempo la sua vita era tutta in quel luogo, oggi è altrove, in una parrocchia nel quartiere più bello di Bologna, affacciato sulle colline, dove anche i borghesi devono chiedere il permesso a Dio prima di esportare capitali in Svizzera. Poco importa che siano di sinistra o destra, i denari devono essere accumulati, nascosti, investiti, speculando sui poveracci, estorcendo affitti da capogiro, tagliando teste, senza regole, senza confini. Lui li conosce quei borghesi, li assolve. Ascolta nei confessionali i borbottii di uomini quasi vecchi che credono di potere vivere in eterno facendo sesso con le amiche diciottenni delle figlie, con gli amici dei figli, con transessuali mostruose, con prostitute eleganti, poi la domenica s’inginocchiano davanti a lui, e si confessano. Lorenzo, come una spugna, assorbe il male, lo assimila, cerca di espellerlo, cerca di perdonare, di dare conforto. Si affida a Dio. Come in quel film, Il miglio verde. C’era quell’enorme uomo di colore che assorbiva le malattie e le sputava fuori, facendole scomparire, alla fine anche lui vittima dell’uomo, accusato ingiustamente di un crimine mai commesso. Quanto ancora può sopportare l’ipocrisia dei suoi piccoli borghesi? Pedofili potenziali, prevaricatori sociali, tutti intrisi di cattivi propositi, senza il minimo indizio di Dio. Lorenzo guarda l’orologio e si rende conto di avere trascorso tre ore seduto a respirare l’umidità della casa della sua infanzia. Accarezza la testa di sua madre che al rallentatore si risveglia. «Lorenzo…», sussurra con voce impastata di saliva. «Mamma…», risponde con un sorriso. «Che ore sono?» «Quasi le cinque di pomeriggio.» «Ho dormito tanto…» «Si vede che ne avevi bisogno.» «Ti voglio bene.» «Anch’io.» Il sole scende lento nel cortile frantumato come dopo un bombardamento. Lorenzo con una spugna tiepida lava i piedi di sua madre, le massaggia le caviglie gonfie, le lava i denti, le lava i capelli, la cura come se fosse una bambola scomponibile, misurando ogni gesto come fosse l’ultimo. Lei lascia fare, si fa coccolare dal suo unico figlio, si rilassa, e alla fine, dopo avere indossato una leggera tuta bianca pulita, si rilassa di nuovo sulla poltrona.
«Sei bravo Lorenzo, si vede che ti ha fatto bene lavorare con i negri in Africa, sei diventato più buono. Con me non eri così tenero prima.» «Forse hai ragione mamma… forse hai ragione.» Scende la sera fra i suoni del quartiere, il sottofondo della televisione e una strana pace che accompagna Lorenzo fino a cena. Prepara un brodo leggero, insalata, due fettine di carne in padella e si muove fra il piccolo cucinotto e il soggiorno quasi senza pensare. Taglia la carne nel piatto di sua madre e lei, con gli occhi fissi nel nulla, lascia fare, come se fra loro i ruoli fossero sempre stati quelli, lui ad assisterla e lei a farsi accudire. Mentre masticano piano, nella luce gialla della lampadina a basso consumo, la donna guarda Lorenzo che sta ascoltando uno sproloquio di Bossi in televisione. «Don Giovanni, come mai è venuto a trovarmi? Deve darmi qualche brutta notizia o l’estrema unzione?» Lorenzo sospira, sua madre se n’è andata di nuovo, come capita sempre più spesso ormai. «Mamma non sono don Giovanni, sono Lorenzo, tuo figlio.» Lei lo guarda, inclinando un poco la testa canuta, gli occhi sbiaditi iniettati di sangue. «Perché sei vestito da prete?» «Perché sono un prete», risponde cambiando canale (Bossi lo disturba, soprattutto perché non si capisce cosa dice quando parla). «Ti avevo detto che avrei preferito vederti medico, come tuo zio.» «Sì, ricordo, ma alla fine hai accettato la mia scelta mamma, e anche papà se n’è fatto una ragione.» «Dov’è tuo padre? Scommetto che è in sezione come al solito, mi sa che deve avere una di quelle galline che gli fa la ruota intorno.» «Quelli sono i pavoni, mamma. Non ricordi proprio dov’è papà?»
Lei lo guarda e inclina le labbra screpolate verso il basso, poi muove piano la testa da destra a sinistra. Lorenzo ci pensa un attimo. «È in sezione, ma torna presto, lo ha promesso.» Lorenzo lava i piatti, nella luce bassa del cucinotto, mentre sua madre è davanti alla televisione dove sta andando in onda la cinquecentesima puntata di Un posto al sole, ma lui dubita che sua madre sia concentrata sulle vicissitudini dei napoletani più amati d’Italia. Dopo avere rassettato la cucina esce nel piccolo terrazzino affacciato sulla corte, l’aria è fresca, domani sarà una bella giornata, accende una sigaretta, una delle cinque o sei che si concede al giorno, e si siede in uno sdraietto sopravvissuto a diverse crisi di governo. La testa di sua madre se ne sta andando definitivamente e lui non può farcela da solo a sostenere il peso di una demenza senile galoppante. Alle dieci di sera solleva la madre addormentata e la porta nella sua camera, è leggera come un bambino.
«Parlo con l’assistente sociale Anceschi?» «Sono io.» «Sono don Lorenzo, ricorda? Eravamo d’accordo che ci saremmo sentiti oggi.» «Certo don Lorenzo, mi dica tutto.» «C’è poco da dire, i momenti di disorganizzazione stanno aumentando, non credo ci siano altre soluzioni possibili.» «Sapevo che sarebbe stato d’accordo.» «Se avessi la possibilità economica, mi procurerei una persona giorno e notte, ma sono solo un prete.» «Vedrà che sua madre si troverà bene.»
Mentre corre nel circuito dell’antistadio, ripensa al viaggio di sua madre verso Villa Quieta, il suo ultimo viaggio probabilmente. Era tranquilla, lucida, leggermente assonnata, si è appoggiata alla sua spalla nel taxi che si muoveva piano in mezzo al traffico cittadino. La villa è in collina verso Pianoro, un vecchio albergo ristrutturato, dove il muschio cresce sui muri esterni nascosto dall’edera. Lorenzo era in divisa da prete, a volte conta ancora qualcosa, ma la direttrice, una signora bassa e tarchiata, sembrava già essere al corrente di tutto, grazie alle informazioni ricevute dalla segretaria del Monsignore. Mano nella mano Lorenzo ha accompagnato sua madre in una cameretta abbastanza accogliente, con la televisione, il telefono interno sul comodino, alcune stampe non particolarmente originali alle pareti, fra le quali spiccava un lago con un pescatore al centro, e un’altra con un cane da caccia con un’anatra stropicciata fra le mandibole. «Siamo al mare?», ha chiesto sua madre. «Una specie, mamma, qui ti seguiranno, avrai le cure migliori, la fisioterapia, l’animazione, vedrai che bello, e poi ti lasciano tenere il gatto.» Ricorda di avere posato la gabbia con il gattone nero al suo interno, vicino al letto. Anche lui sembrava un poco spaesato, ma appena uscito dalla gabbia ha individuato una piccola poltrona e ha ricominciato a ronfare. Magie della vecchiaia che spesso si accontenta di un angolo dove nascondersi e non cerca nuove vie di fuga. Dopo essersi accertato che tutti gli indumenti di sua madre fossero nell’armadio, dopo avere parlato con la direttrice e un paio di assistenti, dopo avere visitato la sala ricreativa, e la grande biblioteca, Lorenzo è tornato in camera dove sua madre stava guardando una vecchia puntata di Attenti a quei due. Lorenzo si è seduto sul bordo del letto e un’improvvisa stanchezza lo ha colto alla sprovvista, forse è così che ci si sente quando si sa di stare abbandonando qualcuno al suo destino. «Mamma, adesso devo andare.» «Torni a prendermi a fine vacanza?» «A fine vacanza.» «Se vedi mio figlio… Lorenzo, digli che l’aspetto.» «Lo farò.» Lei lo guardò, occhi spenti, sorriso distante, tenue come un tramonto sul Navile. «Perché mi ha abbandonato?»
Ora Lorenzo sta correndo, le lacrime scivolano via dal viso come l’acqua dai tergicristalli in autostrada, vanno a scomparire sulla pista di sabbia arancione senza lasciare traccia. L’ha davvero abbandonata, adesso potrà dedicarsi ai suoi fedeli, alle feste di beneficenza, all’oratorio, ai corsi di catechismo, alla stagione estiva che sta per cominciare. Potrà dedicarsi a tutto, lui, il prete bello amato dai suoi fedeli, desiderato da alcune giovani donne insoddisfatte, talmente perfetto da sembrare quasi finto. Da una parte la chiesa, quella di tutti, quella di Dio; dentro la chiesa lui, al centro esatto, come un sole con i pianeti a ruotargli intorno, ma improvvisamente tutte le cose che sembravano fondamentali sono passate in secondo piano davanti al corpo in disfacimento di sua madre. Ha quasi ottant’anni, è tempo di morire, ma forse non è questa la cosa che lo disturba. L’idea di vedere sua madre rinchiusa in una casa di riposo mediocre e dovere anche ringraziare monsignori e amici degli amici, questo gli dà fastidio, non ha scelto la carriera religiosa per avere privilegi, non ne ha mai avuti.
La sera telefona a quel famoso monsignore, suo professore in seminario. Sono diventati amici, lui era la sua guida, lo è ancora, s’incontrano in pizzeria da Marechiaro, all’inizio della salita che porta a San Luca. «Sei stato uno dei miei migliori allievi.» «Tu invece il migliore insegnante del seminario, a volte studiavo solo per renderti fiero di me.» «Tu studiavi per rendere orgoglioso Dio, per potere andare in mezzo al suo gregge e portare la sua parola.» Lorenzo beve un lungo sorso di birra, dopo avere masticato l’ultimo pezzo di Capricciosa, si pulisce la bocca con un tovagliolo di cotone bianco e osserva il suo interlocutore. Più che un monsignore sembra un sergente dei marines: occhi azzurro ghiaccio, capelli bianchi tagliati a spazzola, naso volitivo e mento quadrato, poche rughe sorridenti intorno alla bocca stretta e denti bianchi di persona che non ha mai fumato, un militare mancato, un uomo forte. «Non parli mai della tua vita.» «La mia vita è qui, ora, insieme a te.» «La tua famiglia?» L’uomo allarga le braccia, questa sera è in abiti civili, una corta giacca di jeans, una felpa leggera rossa, sembra un cinquantenne giovanile, in realtà è più vecchio. «Io vi amo tutti, voi che siete in questa pizzeria, voi siete la mia famiglia», mormora sorridendo il monsignore. Lorenzo scoppia a ridere. «Questa l’hai rubata a Moretti, nella Messa è finita.» «A proposito, ti va se andiamo a vedere il suo ultimo film a casa mia, Habemus Papam?» L’appartamento del monsignore è in collina, l’ha ereditato dalla famiglia facoltosa dalla quale proviene e della quale non parla mai, è in uno stabile protetto da guardie private, dove un tempo vivevano i suoi genitori. La sua casa è piena di librerie ricolme di libri. Dopo la morte dei suoi, ha modificato l’appartamento, trasformandolo in una biblioteca spesso aperta per i sempre meno studenti del seminario e studenti di filosofia, cattolici o non cattolici poco importa. «Stai cercando di racchiudere in casa tua tutto lo scibile umano?» Il monsignore butta la giacca sopra una vecchia poltrona di pelle nera nella grande sala che si apre subito dopo la porta d’ingresso. «Forse sì. Forse mi sto preparando al nuovo medioevo, sai quel periodo cupo nel quale c’erano solo i conventi per preservare la cultura, la civiltà, mentre intorno la peste e la follia imperavano?» «Berrei un goccio del tuo rum, molto poco medioevale», risponde Lorenzo lasciandosi cadere su una poltrona al centro della grande sala, di fronte a un grande schermo piatto. Rimangono lì a bere e chiacchierare fino a tardi, alla fine Lorenzo è troppo ubriaco per tornare a casa e il monsignore lo accompagna verso una delle camere destinate agli ospiti. «Che figlio sono stato?», borbotta mentre l’amico lo sostiene appoggiandolo sul letto ancora vestito. «Il figlio che tua madre voleva, e che concepì con tuo padre.» «Se mi fossi laureato in medicina sarei potuto diventare un medico ricco, e adesso potrei provvedere personalmente a lei, non abbandonarla a Villa Quieta, perdonami, un posto veramente squallido.» Il monsignore ride. «Non devi scusarti, lo so, ho potuto inserirla solo lì, anche le mie conoscenze poco possono di fronte al grande esercito di anziani bisognosi di cure.»
Lorenzo già dorme, russando piano, l’amico lo copre con una corta coperta di lana ed esce dalla camera.
La mattina dopo Lorenzo si sveglia con un cerchio cane alla testa, un dolore pulsante che parte dalla fronte per terminare la sua corsa alla base della nuca, avanti e indietro come un flusso di corrente alternata. La casa del monsignore è fresca di sole e silenziosa. Sul tavolo bianco immacolato della cucina trova il tostapane, i toast pronti per essere infornati, succo d’arancia, un’aspirina effervescente vicino a un bicchiere d’acqua e un biglietto giallo: Fai colazione e quando esci chiuditi la porta alle spalle, che il Signore sia con te. Lorenzo riesce a sorridere nonostante l’emicrania intermittente e per prima cosa prepara l’acqua con l’aspirina. Quando esce è già mattina inoltrata, alla messa del mattino c’era il suo secondo in comando, don Andrea. Ufficialmente don Lorenzo si è preso alcuni giorni per occuparsi di sua madre. Ufficiosamente sta passeggiando per una strada in discesa che dalla vicina collina costellata di ville signorili porta verso la città. Arrivato in via Murri si avvia lungo la strada per cercare una fermata dell’autobus, ha ancora il vestito da prete, vuole andare a casa e cambiarsi, farsi una doccia e ricominciare la settimana per cercare di capire cosa fare della propria vita. Lungo la strada scorge prima una piccola folla sotto uno dei palazzi più alti della strada e, oltre la folla, i vigili del fuoco, con le scale, il telo teso sotto il palazzo con alcuni uomini in divisa a reggerlo, un’auto della Municipale, i carabinieri, un’ambulanza, le televisioni locali, insomma una scena da film. Curioso si avvicina alla piccola folla. Un vigile del fuoco lo vede e gli fa cenno di avvicinarsi. «Padre, c’è uno squinternato sul terrazzo del palazzo, vuole buttarsi, sono due ore che stiamo trattando, ma niente da fare, perché non fa un tentativo lei?» Lorenzo fa di no con la testa, non si sente certo in grado di dissuadere qualcuno, non oggi. Si avvicina un ispettore della Municipale. «Era ora, abbiamo chiesto un’ora fa che mandassero un prete, sembra che l’uomo sia cattolico, per favore padre sbrighiamoci, se si butta da quell’altezza si sfracella anche se cade sul telone dei vigili del fuoco.» «Guardi, deve esserci…» L’ispettore lo afferra per un braccio e quasi lo trascina in mezzo alla folla che si allarga come il Mar Rosso davanti a Mosè, non lo ascolta neppure. Svelti salgono in ascensore insieme a infermieri e poliziotti, il viaggio è breve nella puzza di sudore e adrenalina vaporizzata. Sul terrazzo invece il vento scompiglia i capelli, porta aria di primavera. Il sole è talmente luminoso da far male agli occhi, ci sono decine di persone in divisa da una parte e sullo sfondo, sul cornicione, con i piedi nudi sporgenti nel vuoto, un uomo in camicia bianca, pantaloni neri, lo stomaco prominente proteso verso il nulla. Quanti anni avrà? Si chiede Lorenzo, cinquanta? che importanza ha? Guarda l’ispettore, occhi truci nascosti dall’ombra del berretto bianco. «Dovete lasciarci soli.» L’uomo annuisce e fa un cenno. Tutti indietreggiano e svaniscono nel budello di scale, riempiendo il ballatoio antistante il terrazzo. Quando il terrazzo è completamente vuoto Lorenzo si avvicina all’uomo. «Cosa stai facendo?» L’uomo suda copiosamente nonostante la leggera brezza e l’inconsistente camicia di cotone. Volta il capo e guarda di sbieco il prete. «Prete mi devi perdonare perché sto per buttarmi di sotto.»
«Il suicidio è peccato mortale.» «Non per tutti, so che ad alcuni l’avete perdonato, avete celebrato anche il funerale.» «Come ti chiami?» «Giorgio… Giorgio Coletti.» «Mi puoi intanto dire perché vuoi fare questa sciocchezza, Giorgio?» «Banale, sono semplicemente rovinato.» «Hai una famiglia?» «Separato, quella vacca di mia moglie non avrà più gli alimenti, almeno, e questo è uno dei motivi per i quali mi ammazzo volentieri.» «I figli?» «Quelli sono due stronzi impuniti, li ho mantenuti fino a oggi, per loro mi sono svenato, per loro ho fatto degli errori fondamentali, poi non mi sono arrivati dei soldi che dovevo avere, insomma, sono pieno di debiti e la mia vita fa schifo.» «E pensi di risolvere tutto con un bel volo in diretta?» «Certo, aspettavo solo un prete, perché se c’è un Dio, lui mi perdonerà quando avrà saputo tutto quello che ti sto raccontando, tu confessami e facciamola finita.» «E se tu non dovessi morire?» L’uomo, barba irta di peli male rasati, e profonde occhiaia di persona che non dorme da giorni, guarda meglio il prete e gli urla: «Che cazzo stai dicendo?» «Se ti butti e quelli sotto riescono ad attutire la caduta, magari ti spezzi solo la schiena e rimani un vegetale in un letto a farti accudire da una qualsiasi badante ucraina che provvederà a te in un posto orribile fra schiaffi e sbobba tiepida e nauseabonda per il resto dei tuoi giorni, cambiandoti il pannolone pieno di merda solo quando decide di farlo e offendendoti nella sua lingua perché non ti decidi a crepare. Se dovesse andare così? Non ci hai pensato?»
«Non è possibile, se mi butto da qui è morte certa.» «Io se fossi in te cercherei un metodo più sicuro, lamette da barba in una bella vasca d’acqua bollente, dopo avere ingurgitato una bella dose di Lexotan, una bottiglia di Chivas, due bei tagli per il lungo, e te ne vai senza soffrire, in silenzio, con meno clamore.» «Ma che prete sei tu? Tu non sei un prete, sei un malato di mente.» Lorenzo lo saluta. «Se fossi in te ci penserei.» Poi si gira e fa per andarsene. «Accidenti a te, non lasciarmi qui da solo.» Lorenzo si volta. «Se vuoi torniamo giù, in mezzo agli altri stronzi, insieme.»
I giornalisti si avvicinano al prete del giorno, mentre l’ambulanza porta via il mancato suicida. «Come l’ha convinto padre?» «Cosa gli ha raccontato?» Lui guarda i microfoni, le telecamere, sorride. «Le cose che ci siamo detti appartengono al segreto del confessionale, e ora se volete scusarmi…»
Lorenzo cammina lungo i viali alberati, maggio può davvero essere il mese più bello dell’anno. Il traffico veloce gli scivola accanto mentre costeggia i giardini Margherita, un vento sottile scompiglia i pensieri, gli entra sotto l’abito leggero. Chissà se Giorgio racconterà mai le cose che ci siamo detti, pensa Lorenzo sorridendo. Le strade del Signore seguono sentieri imperscrutabili. Forse anche la mia presenza, ora, in questo tempo, in questo luogo, ha un senso, uno qualsiasi, forse. In quell’istante una scolaresca di bambini attraversa ordinatamente il viale per entrare nel parco, stanno cantando un brano che lui non conosce. Si tengono per mano come per non perdersi, qualcuno ride, qualcuno piange, sfilano davanti a lui come in un sogno, e un’insegnante gli sorride. Il momento è talmente perfetto che vorrebbe fermarsi in quell’immagine, per sempre.


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