"La morte di S.B. – La prima indagine di Galeazzo Trebbi" di Massimo Fagnoni


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Estate del novanta, per radio passavano ancora All Night Long di Lionel Richie e Trebbi ripensava al 1984, al suo ritorno a Bologna, dopo 15 mesi di servizio di prima nomina. Prima il corso ufficiali a Bracciano e poi dodici mesi da sottotenente per i carabinieri, negli stadi a ordinare le cariche contro tifosi squilibrati. Un anno impegnativo e alla fine decise che non faceva per lui l’Arma, troppe regole, poi non l’avrebbero tenuto, troppi amici comunisti nel suo passato e negli anni ottanta non bastava avere giurato fedeltà allo Stato per potere fare l’ufficiale nei carabinieri a vita, bisognava non avere amici di estrema sinistra, e magari essere moderatante di destra. Trebbi non era mai stato comunista e nemmeno fascista o democristiano, troppo scettico per legarsi a un qualsiasi carro, troppo pragmatico per credere nella politica, ma decise che voleva diventare uno sbirro e fare il poliziotto nella sua città, perché una volta che hai indossato una divisa e hai percepito le diverse possibilità di essere che ti può donare l’uniforme o rifiuti il ruolo o ne accetti le responsabilità, lui a trent’anni pensava di potere cambiare le cose, facendo la differenza, fermando i cattivi, salvando gli innocenti.

A trent’anni non era ancora abbastanza cinico da vedere il lavoro di poliziotto sotto la giusta luce e il suo compagno di squadra, Giorgio Vincenzi, non aveva ancora deciso di svelargli la realtà, preferiva la scoprisse da solo, nel tempo.
Trebbi lavorava alla omicidi da un anno dopo cinque anni di volante, e di morti ammazzati non ne aveva ancora visti, fino a quel giorno d’estate.
Stava intingendo un cornetto vuoto nel cappuccino delle dieci di mattina al bar Billi di via De Coubertin 1, a due passi dalla salita che conduce a San Luca. Nella sala biliardi Vincenzi era intento alla partita a flipper del mattino, a quarant’anni, con due bimbi piccoli e la moglie in costante depressione post parto, trovava lo spazio per ricrearsi solo al lavoro e amava molto il flipper del bar Billi, uno di quelli più moderni del periodo.
Era un flipper con Indiana Jones e il tempio maledetto e riproduceva fedelmente una scena del film, Giorgio amava il personaggio e gli piacevano i suoni e la musica che usciva dal flipper, Trebbi trovava il tutto troppo rumoroso per le dieci di mattina.
Il teledrin gli vibrò nella tasca del giubbotto di jeans mentre stava bevendo acqua gassata per togliersi dalla bocca il retrogusto dolciastro del cappuccino.
Trebbi chiese a uno dei fratelli Billi se poteva usare il loro telefono fisso per chiamare la questura, era ancora nella fase dei giochi di ruolo, quando aveva un senso teatrale recitare la parte del poliziotto che deve intervenire subito perché qualcuno lo sta cercando urgentemente.
In realtà in questura gli anziani si divertivano spesso a chiamarlo al cerca persone con falsi allarmi perché nel 1990 lui era l’unico che si preocupasse di essere sempre rintracciabile, anche al bar.
– Trebbi, mi avete cercato?-
-Sì, dì al tuo capo pattuglia che dovete recarvi con sollecitudine alla Certosa, all’ingresso vi aspetta uno dei servizi cimiteriali, ha trovato un cadavere e sembra morto ammazzato-
– Marra, mi stai prendendo per i fondelli … che due maroni però-
Marra scoppiò a ridere, una bella risata cavernosa, con un bel suono quasi musicale, una risata che nel tempo Trebbi riesce ancora a rievocare.
-No, questa volta è tutto vero, scugnizzo, strappa Vincenzi dal flipper che sento la colonna sonora di Indiana Jones da qui e muovetevi, voi siete i più vicini al cimitero-
Marra era sovrintendente capo allora e sarebbe diventato anche ispettore se un cancro non se lo fosse portato via dieci anni più tardi.
Trebbi sentì il cuore accellerare i battiti, un morto ammazzato, il suo primo omicidio a due passi dal bar Billi, servito praticamente a colazione, dal bar all’ingresso della Certosa circa trecento metri, potevano andare a piedi, volendo.
Marra conosceva bene Vincenzi, le sue dinamiche familiari e il grande amore per il flipper, allora non era necessario nemmeno il cerca persone per rintracciare i propri uomini, bastava conoscerli uno a uno per sapere dove rintracciarli a qualsiasi ora.
Trebbi con una certa fatica riuscì a strappare Vincenzi dal potenziale record giornaliero e dopo dieci minuti si ritrovarono al cospetto di uno degli operatori cimiteriali della Certosa, uno spreco di cristone grande e grosso, con due occhi bovini paciosi e il sorriso di chi ha fatto pace da tempo con i vivi e con i morti.
– Venite, vi accompagno- disse con voce pastosa e calma come se fosse in procinto di guidarli a una gita culturale.
La scena del crimine era già stata delimitata da una cordella che il personale utilizzava durante gli scavi delle tombe, sul posto era presente un altro becchino, magro come un chiodo che stava fumando nervosamente una nazionale senza filtro.
– Non era mai successo prima, mai, è una cosa terribile- riuscì a biascicare fra un tiro e l’altro della sigaretta.
Trebbi indossò un paio di guanti in lattice che teneva sempre in tasca e si avvicinò al cadavere, un uomo di circa cinquant’anni lungo disteso sopra una lapide, con ancora un mazzo di tulipani nella mano destra e il cranio fracassato da una vanga che giaceva sporca di sangue a un metro dal cadavere.
– Direi che non ci troviamo di fronte a un suicidio- sbottò Vincenzi e giú a ridere come se la battuta fosse quella del secolo, che neanche il Trio Reno avrebbe potuto inventarsela.
I due becchini lo guardarono, quello piú grosso con il consueto sorriso sornione e imperscrutabile, l’altro invece aggrottando le sopracciglie folte con una smorfia scandalizzata sulle labbra tumide.
– Mi perdoni agente, un po’ di rispetto per il morto-
Trebbi chino sul cadavere guardò Vincenzi con occhi stretti, poi rivolto ai due becchini fece un gesto con la mano esplicito e i due uomini si allontanarono di una ventina di metri.
-Ma sei fuori?-
-Era per sdrammatizzare-
-Ascolta io ti voglio bene, tu sei il mio capo, ma questo è il mio primo omicidio vero e ho bisogno che tu faccia la persona seria una volta nella vita-
Vincenzi fece una faccia strana, i baffoni che ostentava in quel periodo, e che gli davano l’aspetto di un Tom Selleck emiliano, fremettero di sincera indignazione.
-Devi prendertela calma pulcino, ne vedrai di morti da stancarti, più dei due becchini, e non riuscirai sempre a rendere loro giustizia.-
– D’accordo Colombo dei poveri, intanto io direi, omicidio volontario o preterintenzionale, d’impeto, chi gli ha spaccato il cranio ha usato la vanga dei cimiteriali che mi dovranno spiegare come mai era qui-
-Non era qui, era in quella tomba fresca alle tue spalle-
Trebbi si voltò e notò la montagnetta coperta da poco.
-Probabilmente uno sepolto ieri, hanno dimenticato la vanga, e l’assassino l’ha presa e ha colpito la vittima alle spalle mentre …-
-Mentre era inginocchiato e stava appoggiando i tulipani, un bel mazzo di tulipani-
Concluse Trebbi estraendo da uno zainetto che si portava sempre al lavoro una Polaroid, una di quelle che serviva a fare le istantanee stampandole immediatamente.
-Guarda che la scientifica sta già arrivando- brontolò Vincenzi.
-Certo ma io voglio memorizzare alcuni dati, e le fotografie sono il metodo migliore.-
Trebbi fotografò la tomba e rimase colpito dall’immagine della morta Sara Bulgarelli, 1975-1989, un bel visino tondo, occhi scuri, capelli castani, troppo giovane, pensò.
Poi fece una fotografia alla carta d’identità del morto dopo averla sfilata con attenzione dal portafoglio dove giacevano alcune banconote circa centomila lire, non poteva essere una rapina finita male.
Il morto si chiamava Lauro Menarini, insegnante di professione, celibe. Nato a Bologna nel 1940.
-Oggi era l’anniverario- gli fece notare Vincenzi.
Trebbi ricontrollo la data sulla tomba, 10 luglio 1989.
– Il primo anniversario-
In quel momento comparve una piccola folla a circa cinquanta metri.
-Sta arrivando il circo- sussurrò Vincenzi.
-Andiamo- disse Trebbi.
Incrociarono gli uomini della scientifica con macchine fotografiche e le tute bianhe monouso, dietro c’era il commissario Carrisi, che in queste vicende di cronaca nera ci sguazzava, prendendosi sempre il merito di indagini fatte da altri, a seguire il fotografo del Carlino e quello dell’Unità, alcuni giornalisti, le telecamere di una televisione locale, insomma un drappello festoso di circa venti persone.
-Che mi dite?- ringhiò piano con accento volutamente siciliano il commissario.
-È presto- rispose Vincenzi, poi fatti pochi passi rivolto a Trebbi gli sussurrò -terrone mafioso-.
Trebbi per la prima volta quel giorno sorrise.
Mentre il Carlino, il giorno successivo, dedicava la prima pagina di Bologna all’omicidio del professore di ginnastica Menarini, uno dei più amati dai suoi studenti presso il Laura Bassi istituto magistrale di via Sant’Isaia, frequentato soprattutto da giovani ragazze bolognesi, Trebbi stava controllando lo stesso quotidiano dell’anno precedente presso l’Archiginnasio, uno dei luoghi della cultura bolognese prediletto dal Trebbi studente di Legge fuori corso,

Durante la pausa pranzo, mentre Vincenzi si nutriva di panini a forma di esse piccanti e si preparava a battere il suo record giornaliero a flipper, lui stava mettendo insieme i fili di un’indagine tanto trasparente da fare male al cuore.
La giovane Sara si era gettata da una finestra del liceo Laura Bassi un anno prima senza lasciare un biglietto di spiegazione, un motivo, una frase consolatoria per il padre oltretutto vedovo da poco. Si era parlato e scritto di depressione della giovane a causa del suo scadente andamento scolastico, soprattutto dopo la morte della madre, scomparsa per un oscuro male a soli trentacinque anni.
Una storia banale, una depressione adolescenziale, capita più spesso di ciò che si immagina, a volte si risolve con un problema alimentare, a volte con una ribellione ai genitori, al sistema, alla scuola, a volte sfocia in un ribellismo politico, o nell’uso smodato di alcol o sostanze stupefacenti, a volte non si risolve e induce il giovane o la giovane al gesto estremo.
Tutto previsto e a Trebbi tornò in mente il grande successo di Cocciante, canzone d’amore, certo, e si colpì con energia la fronte non ancora calva, producendo un piccolo eco nella grande biblioteca dove alcuni universitari si voltarono curiosi.
Non fu difficile rintracciare l’abitazione della famiglia Bulgarelli, dove non esisteva piú da un anno nemmeno lo scheletro di una famiglia, ma dove sopravviveva l’unico superstite, Antonio Bulgarelli, professione operaio, da alcuni giorni in malattia per problemi nervosi ricorrenti.
Erano le 15 di un caldo pomeriggio dell’11 luglio 1990 quando Trebbi spinse il campanello di casa Bulgarelli, in via Berretta Rossa 17, a due passi dall’ospedale Maggiore.
L’uomo che aprì la porta di casa non aveva un aspetto dignitoso, barba di alcuni giorni, una canottiera un tempo bianca, adesso gialla di sudore sotto le ascelle, i pantaloni di un pigiama azzurrino a strisce bianche degno di un ricovero ospedaliero definitivo, anch’essi bisognosi di un candeggio energico, e anche l’appartamento sembrava in procinto di implodere, dominato da un odore acre di sudore e fumo freddo, le tapparelle abbassate a nascondere quel piccolo purgatorio al mondo.
Bulgarelli guardò Trebbi con occhi socchiusi, sembrava un tossico dopo la prima pera del pomeriggio.
-Che c’è?- chiese senza mostrare in realtà curiosità o interesse nella risposta.
Trebbi mostrò il tesserino da poliziotto, con la sua faccia giovane e rasata quasi sorridente.
-Capisco … entri- rispose l’uomo.
-La casa fa schifo più o meno come la mia esistenza- concluse Bulgarelli con lo stesso tono monocorde muovendosi con lentezza strascicata verso un tinello ingombro di cose gettate a caso ovunque, da capi di abbigliamento a fotografie, a generi alimentari, bottiglie di vino vuote, un campo di battaglia senza vinti o vincitori, solo desolato e puzzolente.
Trebbi si sedette nell’unica seggiola libera e apparentemente pulita.
-Che è successo Bulgarelli?-
-È venuto per arrestarmi?-
-Le domande le lasci fare a me-
-Posso fumare?-
-Apra le finestre però, non si respira qua dentro-
-Può farlo lei? Non ho la forza-
Trebbi cominciò a tirare su le tapparelle con energia misurata, erano delle belle tapparelle verdi e l’aria calda della giornata estiva entrò nel tinello portando ossigeno e mostrando impietosamente le macerie di un’esistenza.
Bulgarelli accese una ms, e si lasciò cadere su una poltrona lisa.
-Sara si era innamorata-
-Del professore?-
-Del professore-
-Lui era un pedofilo? Molestava le ragazzine e lei l’aveva scoperto-
-Macché … Era un donnaiolo certo, ma se la faceva con le colleghe, con le madri delle studentesse, con le bidelle, ma mai una voce sulle ragazzine-
-Quindi?- chiese Trebbi spiazzato.
-Quindi Sara si era innamorata di lui, ci stava male, malissimo perché lui l’aveva rifiutata, le aveva spiegato che non andava bene, che doveva pensare ai suoi coetanei, che era un reato anche solo desiderare una minorenne, per un insegnante, ma lei non si rassegnava, ho trovato tutto qui, dopo …- e mostrò a Trebbi un diario, uno di quelli da ragazzina, con tanto di lucchetto e in copertina una Barbie abbracciata a un cuore stilizzato.
-L’ho letto, dopo, dovevo cercare di capire, dice che ho fatto male?-
Trebbi fece di no con la testa e intanto un fastidio limaccioso cominciava a muoversi nello stomaco, preludio di una gastrite che poi lo avrebbe accompagnato fino ai giorni nostri..
-Ma allora perché? Bulgarelli, perché?-
-Perché è per colpa sua che Sara si è ammazzata, per colpa sua-
-Ma si è comportato nell’unico modo possibile.-
-Avrebbe dovuto parlarne con me, avrebbe dovuto darle qualcosa, magari fingendo, non so doveva impedirle di fare quella cosa-
-Era solo un professore di ginnastica, non uno psicologo, e forse nemmeno uno psicologo avrebbe potuto prevedere, prevenire, lei ha ammazzato una brava persona, uno che era andato al cimitero per sua figlia, perché probabilmente era dispaciuto, magari ci stava male-
Bulgarelli annuì e cominciò a piangere senza emettere un suono, allungò i polsi magri verso Trebbi, e rimasero così fermi, immobili nella stanza impregnata da tutto quel dolore, da quell’assenza definitiva di energia vitale.
Quando finisce la speranza non esiste possibile espiazione e questa fu la prima lezione che Trebbi apprese nel suo nuovo lavoro.
-Facciamo così- mormorò Trebbi cercando a fatica le parole.
-Adesso torno in questura, recupero il collega e torno qui, ad arrestarla, ha circa un’oretta per riflettere sul da farsi, ma qualsiasi cosa decida non ci deve andare di mezzo nessun’altro … Intesi?
Bulgarelli non comprese subito cosa intendesse Trebbi, poi un debole sorriso affiorò sulle labbra screpolate e bruciate da troppe sigarette, fece un gesto verso il poliziotto, forse il desiderio di ringraziarlo, ma Trebbi arretrò, Bulgarelli era troppo intriso di sudore e sofferenza per potere riuscire a toccarlo.
Mentre scendeva le scale un brano di Battiato lo sorprese consolandolo, Cerco un centro di gravità permanente, cantava, e Trebbi annuì, anche lui era alla ricerca dello stesso luogo e non sapeva a quel punto se l’avrebbe mai trovato.
Bulgarelli si tolse la vita fra le 15 e trenta e le 17 di quello stesso pomeriggio impiccandosi al tubo della doccia, e questa fu sicuramente la prima indagine svelata di Galeazzo Trebbi, oggi investigatore privato.


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