“La panchina verde” di Luigi Guicciardi


Lo conoscevo bene, ormai. Alto, magro, poco più di quarant’anni; sempre in giacca e cravatta. Usciva di casa alle tre, ogni volta che l’ho visto, fino alla fine dell’estate, prima che cominciasse a piovere: dalla villa di fronte al parco, quella coi pilastri viola e col giardino attorno. Faceva sì e no trenta metri, quasi fosse già stanco, e si metteva a sedere sempre lì, sulla panchina verde, l’unica di quel colore, vicino alla fontana. Sarebbe bastato un niente per fare conoscenza, e cominciare a parlare; un gesto, un sorriso. Ma non è mai successo. Io aprivo il giornale, quello scroccato al mio vice, Muliere, e lo guardavo al di sopra dei fogli, prima di mettermi a leggere, come per incoraggiarlo; lui mi fissava a lungo, indeciso, poi guardava altrove, che so, un punto dietro le mie spalle, o per terra davanti a sé, tormentandosi le mani o scuotendo un po’ la testa. Non faceva di più. E io pensavo intanto che tutti abbiamo, nascosto dentro, un segreto pudore, che ci mette a disagio agli occhi degli altri.

Anche adesso è lì, davanti a me. Ma sotto un acero del suo giardino, con la faccia nell’erba. Lo hanno già coperto con un telo, quelli della scientifica, ma ho fatto in tempo a guardarlo bene. Il maglione ocra e i jeans, una mano sotto il corpo e l’altra contratta, rattrappita; lo sfregio di sangue alla tempia destra, e la pistola. Una Beretta nera, mezzo metro più in là, lucidata dalla pioggia. Nelle tasche non ha niente.

“Non avrei dovuto lasciarlo solo neanche un momento…” singhiozza piano la signora; adagio come la pioggia che scende fine, quasi impalpabile. “Ma non ci credevo, no… Non credevo che la depressione…”

Annuisco, comprensivo, mentre lei torna a singhiozzare.

“Era depresso, ma sereno, in questi ultimi giorni. Sembrava consenziente, o almeno rassegnato, a rientrare in clinica.” Si ferma, titubante. “Non potevo immaginare…” E giù di nuovo a piangere.

A me vengono in mente le parole di un collega. “Quelli che si ammazzano lasciano sempre qualcosa. Un biglietto, un messaggio. Di solito lo fanno.” E allora chiedo, con dolcezza:

“Ha trovato una lettera, per caso?”

E siccome non parla:

“Uno scritto, voglio dire…”

“Non lo so, non sono entrata. Ero andata a messa e lui era lì, davanti alla tivù. Sono stata fuori poco…” Fa un gesto, a cercare l’orologio; a giustificarsi, quasi: “…e appena tornata l’ho visto…” Deglutisce, prende fiato. “Non ci ho neanche pensato, a entrare in casa…”

Io guardo il cielo, poi gli alberi del parco, sopra la spalla di lei. E anche la panchina verde. Un paese di campagna, penso. Dove tutti si conoscono.

“Allora sono corsa qui vicino, dal signor Tosi. Una… no, due case dopo questa. E’ da lì che ho telefonato…”

“E’ vero.” Un uomo con l’ombrello, dal viso rugoso, parla dietro di noi, a confermare. Chissà da quanto ci sta ascoltando. “La signora è venuta da me sconvolta e mi ha detto che il marito si era sparato. Ho chiamato subito la polizia.”

“Credevo avesse telefonato lei.” Accenno alla vedova.

Si guardano un attimo, lui e lei. Con imbarazzo, forse. Dopo, l’uomo:

“No, no, le assicuro. Ho chiamato io. Lei era troppo sconvolta.”

Ci fissiamo in silenzio, dietro i nostri fiati; poi alzo gli occhi al globo del sole. Un’arancia immobile, mi sembra, sopra la nebbiolina che ci avvolge. Mi scuoto sentendomi chiamare.

“Commissario Cataldo, noi avremmo finito…”

Accenno di sì, con la testa, che possono andare. Li vedo infilare il morto nel sacco di tela cerata, chiudere la cerniera e metterlo nel furgone. E mentre lo portano via, passando per il parco, davanti alla panchina, penso che ne ho visti altri, di morti, alla mia età, ma che mi sento ancora, come la prima volta, un inconscio avvilimento nel cuore.

“Diamo un’occhiata in casa” suggerisco. “Chissà che non ci sia qualcosa.”

La porta è chiusa e lei prende dalla borsetta la chiave. Due mandate, distinte; lo scatto della serratura metallico, stridente. Entriamo solo noi, mentre il vicino resta fuori. Ad aspettare?

E’ una villa grande, a due piani, con quell’unico ingresso. Silenziosa, pulita; impersonale. Solo il ticchettio insistente di un pendolo, nell’ingresso, scalfisce l’immobilità di quella quiete. L’aria è fredda e senza odori, a parte il profumo dei fiori. Ce ne sono molti in un vaso, sul tavolo del soggiorno, ma accentuano soltanto l’atmosfera di tristezza. Di un biglietto, poi, nemmeno l’ombra.

“Erano anni che era malato. Malato di nervi, voglio dire. All’inizio si pensava alla stanchezza, al lavoro…” sospira. “Allo stress…”

“E invece?”

“E invece no. Non era solo logorio, o la tensione di un momento. Ma un esaurimento nervoso dei peggiori…”

Adesso mi torna in mente la panchina del parco. Con lui seduto che mi fissa, indeciso, tormentandosi le mani.

“Così è cominciata la terapia. Prima dallo psicologo, poi in casa di cura.”

“Mai manifestato, come dire…” la interrompo con garbo “…propositi di suicidio?”

“No. Cioè, una volta o due in tutto. Ma più per avere un conforto, che per un vero desiderio di farla finita.” Alza gli occhi a guardarmi. “Perché parlarmene, se no?”

“Oggi però l’ha fatto…”

“E’ colpa mia. Non dovevo lasciarlo solo. Ma non si può lottare tutta la vita contro l’angoscia della solitudine. C’è sempre un momento di vuoto, dentro…”

Ha parlato d’un fiato, così tace di colpo, rossa in viso.

“Era sua, la pistola?”

“Sì. Da molto tempo.”

Mi sento a disagio, adesso, e indiscreto. Ma devo fargliela, questa domanda.

“Lo amava ancora?”

Mi sembra stonato, il suo sorriso, dopo tutte quelle lacrime.

“Dopo tanto tempo, vuole dire? Lei non può capire. Nessuno può capire se non vive con un neuropatico. Non c’è più dialogo, equilibrio.” Sospira. “E l’amore diventa pietà, compassione. Ma non è più amore.”

Ha ragione. Anni di malattia, fuori e dentro una casa di cura. Anni di depressione, sorda, silenziosa; sempre uguale. E all’improvviso, un mattino, un colpo in testa. Perché, poi? C’è già la vita che ci uccide, giorno per giorno…

E’ tutto, davvero. Mi avvio per uscire, con lei alle spalle, che tossisce. Sulla porta mi fermo, le dita sulla maniglia. Non è chiusa a chiave e si apre senza rumore, alla pressione della mano.

“Un’ultima cosa, per favore.” La fisso. “Quanto tempo è stata fuori stamattina?”

Fuori, l’aria ha l’odore della campagna, e il parco sembra più grande, senza il velo della nebbia. Sulla panchina verde c’è un filo di sole.

“Non capisco…”

“Non ha detto che è uscita stamattina? A messa…”

Per la prima volta sembra cercare la voce, e un lampo d’incertezza le passa negli occhi.

“Sì, certo… Ma non riesco a ricordare. Esattamente, voglio dire. Un’ora, tutt’al più… Ma non ha importanza, vero?”

No che non ha, adesso. Adesso che ho capito. Prima dello stub, del referto autoptico. Una donna piacente, dalla bocca sensuale mortificata dal fazzoletto, quasi a nascondersi. Un marito malato, un rapporto finito; un altro uomo, chissà.

“Non mi ascolta, commissario?”

Ma io ripenso ancora alla porta chiusa a chiave, e alla chiave che non c’era nelle tasche del morto; e già mi sta prendendo un senso di tristezza.


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