"La Pescatrice di Voci" di Daniela Vanillo (parte terza)


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PARTE TERZA DIAGNOSI E SOSPETTI

Il mio arrivo al centro diagnostico

Ho telefonato all’Istituto ed è stato difficile parlare subito con qualcuno. Alla fine ho parlato con una assistente sociale che prendeva gli appuntamenti. Mi chiamarono dopo sei mesi per una prima visita.

Nel colloquio telefonico ricordo che mi chiesero se fosse proprio il caso di prendere un appuntamento; infatti di solito è uno specialista che, rilevando il sospetto del disturbo, indirizza il paziente verso la struttura. Io mi proponevo da sola con la mia idea.

Inoltre la lista degli appuntamenti è lunga ed i pazienti gravi in lista d’attesa, sono molti. Ma dove lo trovavo “l’intelligentone” l’esperto, che mi avrebbe dovuto indirizzare da loro se, gli specialisti incontrati insistevano con anamnesi e psicoterapie mirate.

Difficile per alcuni di loro arrivare a scrivere su un pezzo di carta, la diagnosi che avrebbe dovuto recitare: “sospetto di Autismo infantile”. Lo specialista mentre scrive la diagnosi sa, di aver perso il cliente!

Uno psicologo mi aveva confidato che quando trovi un paziente disposto ad entrare in terapia, non te lo lasci scappare. Sono rari i clienti, inoltre ti pagano il mutuo della casa, la rata dell’auto o la retta scolastica dei figli e quindi tiri avanti, il più a lungo possibile fino al limite quando, costretto dalla percepita e precipitosa partenza del paziente, sei costretto a rilasciare la tanta anelata diagnosi.

Inoltre, ma questo mi è stato riferito durante i colloqui avuti con la specialista dell’istituto, se avessi sottoposto Maria a sedute di psicoterapia l’avrei rovinata.

Il giorno dell’appuntamento mi reco all’accettazione ed entro con la bambina dalla dottoressa.

Maria non la guarda neppure ed entra nella stanza come se la dottoressa non ci fosse, e forse per lei non c’è davvero. Solita anamnesi poi la richiesta di aspettare fuori per verificare il gioco simbolico senza la presenza della mamma. Attendo fuori dalla stanza seduta in corridoio.

Vicino alla porta della dottoressa altre persone aspettano. Tanti bambini, tanti casi, tante storie. Nell’attesa riesco ad immaginarle. Sento la fatica delle loro vite e delle loro famiglie. Incontri di sguardi sfuggevoli, a tratti complici a tratti imbarazzati.

Ora immagino di essere dentro la stanza: “La solita casetta, la solita bambola, le solite torri con i cubi, va sempre così”. Si apre la porta e la dottoressa mi fa il cenno di entrare; infatti mi elenca i giochi simbolici somministrati alla bimba che coincidono con quelli immaginati.

Ora in mia presenza è il momento di vedere come la bambina reagisce davanti ad una porta chiusa. Come se la caverà? Tornerà indietro? Cercherà di aprirla da sola o cercherà di spingere la mamma, prendendole la mano per aprirla?

Quest’ultima è la risposta esatta ed è ciò che fa Maria. La dottoressa mi disse che mi avrebbe fatto sapere. Comunque, il sospetto era fondato.

Dopo circa un anno fui chiamata per il ricovero. Si trattava di dodici giorni di degenza per esami approfonditi. L’Ospedale si presenta bene, lo stanno restaurando e quell’aria da “Collegio Salesiano” l’ha quasi persa. Sembra piuttosto un centro commerciale con piante interne molto curate ed illuminate dalla luce del sole che penetra dalle vetrate sovrastanti. Osservo che stanno ultimando una piscina.

C’è anche un ascensore trasparente nel quale è salito un bimbo con problemi agli arti inferiori che si muove camminando dentro un girello. Avrà circa tre anni e prende l’ascensore con noi da solo, come un gioco. Maria non percepisce il suo disagio né la sua presenza. Non so dove farlo scendere e credo si sia perso.

Cerco di farlo scendere ad un piano qualsiasi e chiedo aiuto ad una infermiera scendendo con lui ad un piano, il primo che mi si presenta. Forse si è perso ma nessuno lo cerca. Lo saluto, mi fa molta tenerezza ed anche lui ci saluta con la manina. Intanto siamo arrivate al padiglione.

Gli infermieri che ci accolgono sono molto gentili. Purtroppo però il padiglione a noi assegnato è quello che sa di “Collegio Salesiano” è obsoleto e sembra quei vecchi ospedali psichiatrici.

Ci assegnano la stanza e mi consegnano il menù della settimana. La stanza è priva di bagno quello in comune è fuori alla fine del corridoio. Mi consegnano anche l’elenco delle visite settimanali, una specie di maratona a tappe.

Una sorta di impostazione terapeutica con valutazione funzionale e psicoeducativa ed ancora anamnesi… anamnesi… esami del sangue, dosaggio aminoacidi e plasmatici, esami delle vie urinarie nelle 24 ore ed elettroencefalogramma predisposto senza la possibilità di dormire tutto il giorno, cariotipo, “x fragile”, logopedista ecc. ecc.

Sono dodici lunghi giorni per lo più passati ad aspettare Maria, od intorno ad un tavolo con puzzle, costruzioni, videocassette donate alla struttura. I bambini urlano, sputano, litigano, corrono, sbattono ed emettono suoni ritmici sempre uguali. Alcuni parlano continuamente, sembrano fermarsi mai poi ricominciano da capo.

Mamme e nonne alla ricerca di una risposta o di una conferma. Un assistente sociale molto gentile vigila e si occupa dei bambini quando i genitori devono conferire con i medici.

L’assistente sociale a nostra insaputa, osserva anche come ci comportiamo e il nostro grado di sopportazione del quale, ci sarà riferito il giorno della consegna della diagnosi.

Ci sono bambini autistici a basso funzionamento che si cullano tutto il giorno emettendo suoni ed urla, la madre di uno di loro, mi ricorda la mamma del bambino autistico del 1966.

Racconta, distrutta dalla fatica, che il suo bambino riesce a dormire solo dentro la vasca da bagno in posizione fetale e si sveglia molte volte durante la notte. Mentre racconta si distrae ed ironia della sorte suo figlio, passando vicino al tavolo dove sono seduta, mi stringe il collo urlando. La madre interviene energicamente, aiutandomi a staccare le mani del figlio dal collo.

Non vedo il suo volto, sono girata e in quel momento mi preoccupo solo di cercare di respirare. Maria urla spaventata ma è stato solo un attimo, sono libera e respiro. In quel momento mi rendo conto che forse le raccomandazioni di mia madre non erano tanto infondate.

La mamma del bambino scusandosi per l’accaduto si allontana velocemente, rincorsa dagli sguardi indagatori dei presenti. In questo posto ci sono troppe pause, troppi momenti morti da riempire.

A volte durante la giornata si effettua una sola visita. Il sabato e la domenica c’è la pausa delle visite mediche e degli esami e siccome ci sono degli orari obbligatori e limitati per il rientro in ospedale, è preferibile non uscire. La piscina è riservata solo agli esterni ai ricoverati non è concessa l’entrata.

La zona di ricovero non è divisa per fasce di gravità e quindi il ricovero risulta particolarmente pesante.

Siamo stanche, ho sentito tutte le storie di chiunque si sia seduto al tavolo le loro angosce, le loro aspettative. Non vedo l’ora che finisca e che arrivi il giorno della consegna delle conclusioni diagnostiche. Il controllo della situazione, quel dormire con la porta aperta, (così è la regola), mi ha portata all’esasperazione.

Maria in quell’ambiente sembra regredire. Ho preparato una busta chiusa, che aprirò con la dottoressa per confrontare il risultato della diagnosi. Io la mia personale diagnosi l’ho elaborata dal film “L’uomo della pioggia” a tutto quello che ho letto, da tutto quello che ho incluso ed escluso, sperato, ascoltato, osservato, constatato, analizzato, confrontato, sperimentato e vissuto.

Allora: “disse la dottoressa” mentre apriva la busta e leggeva la mia diagnosi: “Con lei non ci sono molte sorprese; infatti la sorpresa è lei che nella busta, ha la risposta esatta, quindi confermo la diagnosi di Autismo”. Fra le tante cose mi raccontò che a mia figlia aveva mostrato delle tavole.

In tanti anni di lavoro, le aveva mostrate a centinaia di bambini e nessuno di loro, nella descrizione e nel racconto a disegni delle tavole, aveva riferito di sapere come si chiamava il cane della storia.

La storia infatti non lo diceva. All’affermazione della dottoressa: “Che bel nome hai dato al cane!” Maria rispose dopo varie insistenze:
“È scritto sul collare!”.

Guardando bene la tavola del test, munita di lente di ingrandimento che mi veniva consegnata dalla dottoressa, riuscivo a vedere sul collare del cane disegnato sulla tavola del test, una scritta punteggiata con inciso il nome del cane.

In questo momento sto scrivendo e non ricordo il nome del cane ma lo chiedo a mia figlia che sta leggendo un libro. Si ferma e senza staccare gli occhi dal libro e senza pensarci un solo attimo, quasi meccanicamente dopo tredici anni mi risponde: “Rasty” si chiamava così vuol dire “ruggine” in italiano!

La sua memoria fotografica è fenomenale ma l’insieme delle situazioni le sfugge. Nel racconto della tavola del test si perde nei particolari e perde il senso della storia. Ci saranno altri ricoveri e raggiunti i quattordici anni più nulla.

Una bella diagnosi sempre confermata come la consegna di un prodotto senza il libretto delle istruzioni. Più tardi comunicai alla pediatra la diagnosi.

Purtroppo avevo sempre avuto ragione quella mamma apprensiva aveva visto l’invisibile. Più tardi fui chiamata dalla pediatra stessa tramite la regione, per dare la mia testimonianza. Il questionario al quale risposi poteva essere utile per un eventuale screening pediatrico.

Il fine era quello di poter individuare precocemente nei primi mesi di vita comportamenti autistici sospetti, mancanza di vocalizzi, gestualità, l’uso dello sguardo la postura la comprensione verbale e non intenzionale.

È come lottare per sapere come si chiama una cosa ma quando lo scopri non ti serve, è una scoperta fine a se stessa. Certo ai fini scolastici utile se non indispensabile per evitare la possibilità di altri interventi professionistici che potrebbero far pensare, per l’ennesima volta, alla teoria del mancato incontro fra “madre frigorifera e figlio”.

Nonostante lo stesso ideatore della teoria, durante una conferenza abbia chiesto scusa a tutti i genitori per averli indicati quali responsabili dell’autismo dei propri figli.

Intanto gli anni passano e siamo nel 2010. Siamo al mare mia figlia è molto contenta quando torniamo nel solito posto. Conosce bene il layout del villaggio, il supermercato, il bar, la spiaggia, i percorsi, le piscine.

Immobile quasi priva di tempo osserva le nuvole ferme come lei. Quando cammina invece guarda sempre verso il basso ma registra tutto e quando mi parla non mi guarda mai negli occhi.

Quando aveva circa tre anni io e lei ci guardavamo negli occhi, scambiandoci messaggi d’amore, poi man mano, il suo sguardo l’ho perso così come i suoi messaggi. Ogni tanto mi permetto di chiederle di guardarmi ma capisco che per lei è troppo e la richiesta tende più a soddisfare il mio bisogno di normalità.

Cerco sempre l’intenzione nei suoi occhi che guardano oltre la mia persona.


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