"La rabbia nel sangue" di Elisabetta Miari (parte sesta)


la rabbia nel sangue

 

Milano, giugno 2014

Se Maometto non va alla montagna, la montagna va  a Maometto.

Il cordless di casa gracchiò e Carlotta irritata si chiese, come faceva ogni volta che suonava,  perché non si decideva a cambiare la suoneria.

– Ciao Carlotta, dobbiamo parlare

la voce di Alessandro rimbombò come un tuono nei timpani di Carlotta

– so quello che stai facendo alle mie spalle e non mi piace.

Carlotta avvertì un colpo alla stomaco, trattenne il respiro per qualche secondo, f rugando nei pensieri alla ricerca di una risposta da dare.

– Cosa starei  facendo secondo te?

rispose con simulata arroganza per prendere tempo.

– Contatti delle donne di mia conoscenza, le metti in guardia su di me. Stai facendo una cosa molto scorretta. Stai attenta, scherzi col fuoco.

– Non ho mai detto che sei sieropositivo, non puoi fare nulla, e anche se fosse, è la verità

– Questa guerra è durata fin troppo, dobbiamo trovare un modus vivendi, in fondo ci siamo amati per un anno, vorrà pur dire qualcosa

disse Alessandro tendtando la carta dell mediazione.

Carlotta non rispose, il pensiero di amare quell’uomo la faceva rabbrividire. Lei non lo aveva mai amato, e infatti non glielo aveva mai detto.  Lui sì, di continuo. Era un cerebrale passionale e nutriva le sue emozioni di parole.Questo non significava che lui l’avesse amata davvero o che avesse amato mai qualcuno in vita sua, oltre a sé stesso.

Tacque ancora una volta.

– La settimana prossima devo venire a Milano per incontrare il manager di un importante gruppo musicale e vorrei vederti per parlare e appianare le nostre divergenze

Alessandro si riempiva spesso la bocca delle sue conoscenze, per stordire le sue vittime, per far colpo. Carlotta ormai era vaccinata e passò oltre.

– Quando?

disse   laconica.

– Giovedì

rispose lui.

Carlotta esitò, solo qualche secondo, poi rispose:

_ Ok, ti aspetto da me, staremo più tranquilli, o preferisci un ristorante?

– No, va benissimo da te, arriverò per le 19,00 se va tutto liscio. Buona settimana.

disse Alessandro con tono fermo.

Carlotta non rispose e lui dopo qualche secondo riattaccò.

Ma cosa le aveva preso? Lui era molto arrabbiato, l’aveva anche minacciata tra le righe e lei lo aveva invitato a casa sua, dove non c’erano testimoni. Era pazzo quando si infuriava, sarebbe stato capace di picchiarla, o addirittura di ucciderla. Cercò di tranquillizzarsi pensando al da farsi. Il Mostro tornava in quella casa, lo avrebbe rivisto, doveva prepararsi psicologicamente. Esiste un modo per prepararsi a rivedere il proprio peggior nemico? Carlotta scoprì che non esisteva. Passò la settimana a cercare di non pensarci,e  a svegliarsi di notte in preda agli incubi. E arrivò anche quel giorno tanto temuto.

 

Milano, 21 giugno 2014

Per ogni maiale viene il suo sabato.

Una mattinata piena di imprevisti, faticosa e che non passava mai, fece da preludio a un pomeriggio atipico.

Da Brico, dove aveva ordinato il necessario per tinteggiare l’appartamento, sembrava che il suo ordine fosse scomparso nel nulla. Per fortuna, un commesso sveglio alla fine riuscì a risolvere l’arcano.

Carlotta aveva deciso di fare quel giorno  il lavoro: dipingere la rilassava, e se non si calmava un po’ non aveva speranza di arrivare a sera.Iniziò dalla sala: stese i teli di plastica che aveva comprato, sovrapponendoli con cura per non lasciare scoperta nessuna zona del parquet. Coprì poi i mobili e i divani e si infilò la tuta in carta  Chemsplah, gli stivali di gomma, i guanti e cominciò a ridipingere. Man mano che il rullo passava sul muro, con tocchi precisi, ricoprendo di bianco immacolato le parrti, Carlotta si sentiva sempre più calma e rilassata.

Quando il citofono suonò le sembrò che fosse passata a malapena un’ora, ma in effetti erano quasi le sette.Pigiò il tasto per aprire il portone, si tolse i guanti e andò in bagno a guardarsi allo specchio. Era uno schifo. I capelli legati e tanti puntini bianchi sulla faccia. Chissenefrega, pensò, meglio così, questo gli avrebbe tolto ogni possibile voglia.

Quando sentì il campanello, tirò un lungo sospiro, chiuse le porte della camera e della cucina ed andò ad aprire.

Lo sguardo sorpreso di Alessandro non aveva prezzo. Lo aveva lasciato senza parole. Entrò lentamente, guardandosi intorno e con fare interdetto e interrogativo chiese:

– Cosa cazzo sta succedendo?

– Sei cieco? Sto tinteggiando

rispose Carlotta strafottente.

– E dovevi proprio aspettare il giorno e l’ora che arrivavo io per farlo?

disse lui indispettito.

– Perché no scusa, sarò libera di disporre del mio tempo come voglio, ora che non ho neanche più un lavoro, grazie a te

un lampo di odio le attraversò gli occhi.

– E no bella mia, questa guerra l’hai cominciata tu, e ora non puoi piagnucolare se ti colpiscono…potevi startene tranquilla, potevamo continuare come prima, ma tu no, vuoi fare la paladina del mondo!

Alessandro cominciava ad alterarsi in modo visibile, era un caratteriale e Carlotta sapeva quanto poco bastasse per farlo scoppiare.

Un brivido di paura la percorse.

– Ma certo, dovevo continuare a rischiare la vita scopando con te e lasciare che tu impestassi tutto il mondo, fingendo di essere sano per preservare il tuo ego

disse lei con rabbia, ignorando i segnali che lui le stava inviando.

– Lurida puttana!

le urlò colpendola con uno schiaffo.

Carlotta barcollò, poi si raddrizzò ed estrasse, con una mossa rapida, un coltello dal tascone laterale della tuta.

Alessandro aveva gli occhi fuori dalla testa. Guardò il coltello e poi Carlotta.  Si avventò ad afferrarle il polso, torcendolo e girando il coltello contro di lei.

– Cosa credi di fare povera stupida?

Carlotta si trovava in una posizione critica: un affondo e sarebbe stata spaacciata.

Gli occhi dell’uno erano fissi in quelli dell’altra, entrambi lucidi e tremanti di rancore represso, quando,  ad un tratto, Alessandro sentì un dolore tremendo ed improvviso alla testa e perse i sensi, accasciandosi al suolo.

Il corpo di Alessandro giaceva piegato su sé stesso sulla plastica che ricopriva l’intera sala. Un rigagnolo di sangue gli usciva dal cranio.

Monica, in piedi dietro di lui con un grosso mattarello in mano, osservava affascinata e stupita la scena.  Era uscita di soppiatto  dalla porta della cucina, ora spalancata. Anche quella della camera si era aperta subito dopo e ne era uscita Diana.

Le tre donne si guardarono in silenzio, poi Monica parlò.

– Coraggio ragazze, finiamo il lavoro, se questo si sveglia ci ammazza tutte e tre.

Lentamente, come in trance, anche Diana si avvicinò con un coltello e Monica lasciò cadere il mattarello per estrarne uno a sua volta.

Coltelli affilati, da macellaio. Lucenti e senza pietà. Lame taglienti che gridavano vendetta.

Lo affondarono a turno più e più volte, fino a quando il corpo dilaniato, non mostrava più nessun segno di vita.

Rimasero in silenzio, in cerchio, come streghe in  un rituale magico, a contemplare il corpo straziato dell’uomo e gli schizzi di sangue sui teli di plastica e sulle loro tute. Era morto, anche i mostri morivano dunque, non avevano nove vite come i gatti. Lo stupore era senza dubbio lo stato d’animo predominante. Stupore per come delle brave persone, se spinte al limite, posasse arrivare a commettere un omicidio. Ma le tre donne ne avevano tanto parlato in quella settimana e non consideravano un delitto la morte di Alessandro per mano loro, bensì un atto di giustizia.

Gettarono i coltelli per terra, sulla plastica, insieme al corpo e al mattarello. Poi fu la volta delle tute e degli  gli stivali. Afferrarono il sacco nero preparato dietro il divano e vi misero dentro le tute, le armi dl delitto e infine i guanti. Lo chiusero con un nodo e lo appoggiarono vicino alla porta d’ingresso.

Poi fecero rotolare il corpo nella plastica su cui poggiava, avendo cura di impacchettarlo bene, insieme a tutto quello che era imbrattato del sangue dell’uomo. Lo sigillarono infine come una mummia con  del  nastro da pacchi.

Quindi attesero che venisse notte. Volevano aspettare che ci fosse poca gente in giro, anche se il loro piano era sicuro e ben studiato nei minimi particolari.

Nella palazzina dove viveva Carlotta c’erano solo tre piani, di cui uno abitato da un’anziana signora e l’altro al momento sfitto. La crisi economica e immobiliare aveva giocato a favore del loro piano.

Ingannarono il tempo, bevendo vino  e mangiando qualcosa per non ubriacarsi, ma le ore da aspettare erano tante, troppe. Nessuna delle tre  aveva sonno, ma si stesero in silenzio tutte e tre sul lettone di Carlotta. Ognuna chiusa nei propri pensieri, nessuna  voglia di parlare, di pensare al poi, a cosa fare se fosse andato storto qualcosa.

Verso le due decisero che era l’ora di mettersi in movimento. Misero il corpo impacchettato  in un carrello dell’Esselunga che avevano rubato. Non costò molta fatica alle tre donne sollevare quell’uomo non alto e mingherlino. Coprirono il tutto con un lenzuolo e presero il sacchetto con gli oggetti, tirandosi dietro la porta.

L’ascensore di servizio conteneva al massimo una persona, per cui Monica scese con il carrello, mentre Carlotta e Diana fecero le scale di corsa fino all’uscita sotterranea che dava direttamente ai box. Caricarono il corpo nel baule del Range Rover di Monica, posteggiato per l’occasione nel box di Carlotta, e partirono alla volta di Melegnano, dove avevano identificato un grosso complesso di palazzine in costruzione nel quale avrebbero gettato una colata di cemento come fondamenta il mattino seguente.

Arrivate nel cantiere fecero non poca fatica a incuneare il corpo in una delle tante colonnine lasciate aperte. Con un secchio e una spatola fecero del cemento e lo spinsero nella colonnina fino a coprire del tutto il nylon, perché non destasse sospetti il giorno dopo, alla luce del sole. Misero anche il secchio in un sacco nero e si avviarono dall’altra parte di Milano, nei pressi di Arese, in aperta campagna. Qui, estrassero i due sacchi neri, una tanica di benzina con cui li ricoprirono e gli diedero fuoco, aspettando con pazienza, mista a stanchezza, che il contenuto fosse tutto incenerito e fuso, tanto da non poter fornire prove biologiche di nessun tipo.

Risalirono in macchina e andarono da Carlotta dove passarono in un dormiveglia agitato , le poche ore che le separavano dal mattino. Alle otto  si alzarono in silenzio, senza dire una parola, e dopo aver preso solo un caffè, uscirono di casa.

Tornarono al cantiere di Melegnano, parcheggiando a distanza sufficiente per controllare che la gettata di cemento fosse fatta come previsto e che il corpo del Mostro avesse la sia degna sepoltura.Le betoniere scaricavano il loro contenuto nel basamento e se ne andavano per rifare il pieno, seguite da altre che facevano lo stesso. Ci volle qualche ora perché  il lavoro fosse ultimato e le tre donne si decidessero ad abbandonare il cantiere.

 

Milano, 22 giugno 2014

Non perdiamoci di vista.

– Mi raccomando Monica,  chiamami quando arrivi a Roma

disse Carlotta abbracciando l’amica.

-Ma certo, sta tranquilla che non mi succede niente. Ci pensi, sarebbe davvero comico se morissi in autostrada ora che mi sono vendicata…

disse Monica ridendo.

– In effetti sì

fece eco Diana e scoppiarono in una grossa risata.

– Un’ultima raccomandazione ragazze

disse Carlotta seria

– qualsiasi cosa succeda, non sentitevi mai in colpa. Abbiamo fatto la cosa giusta, abbiamo fermato il Mostro.

Si abbracciarono ancora a e  infine le due ospiti se ne andarono, lasciando Carlotta sola, a guardarsi intorno.

Altri teli di plastica immacolati erano stati piazzati al posto di quelli usati per imballare il corpo di Alessandro. Ora non le restava che finire di tinteggiare. Un senso di pace inaspettato la circondò.

Sì, sarebbe venuta davvero bene questa volta  la casa.


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