“La terra e la giobba” di Daniele Cambiaso


«Ragazzo, un ultimo bicchiere e me ne vado. Perché non mi tieni compagnia? Il ristorante è vuoto, ormai… Come il mio bicchiere, del resto. Dai, riempi. E guai a te se mi parli ‘mmiricano, paisà.»
Paesano, quel ragazzo, non lo era poi molto. Io venivo dal Cilento, lui dalla Puglia.
Sentivo la mia voce uscire strascicata, quella sera. Non avevo bevuto molto. Non più del solito. E avevo mangiato bene. Il fatto era che avevo il cuore triste, l’anima s’affogava nella malinconia.
Il ragazzo mi aveva guardato con quello sguardo tenebroso, che un po’ mi faceva impressione, perché era caldo come quello di una femmina. Femmina di classe, però.
Solo ‘nu guaglione, teneva neanche vent’anni, appena arrivato dall’Europa, ma mi sembrava diverso dagli altri. Anche da come ero stato io, alla sua età. Ora sembra facile dire “io l’avevo capito”, invece non era così. Era diverso, certo.
Ma io non l’avevo capito.
Io l’avevo sentito.
Anche il fatto che parlasse inglese meglio di me, che stavo là da una vita, prima mi aveva irritato, poi mi aveva fatto riflettere. Questo era qualcuno. Qualcuno diverso.
«Siete triste stasera, don Gaetà? Dovreste essere contento, invece. Tornate al paese, tutti vedranno quanto siete diventato ricco. Non siete felice, don Gaetà?»
No, non lo ero.
Anche se lui mi colmava di attenzioni, danzando leggero intorno al mio tavolo abituale, facendomi sentire a casa nel ristorante dove cenavo tutte le sere in attesa di partire per Napoli. Una partenza che rimandavo da settimane, chissà perché.
No, felice non lo ero proprio.
Perché? Forse perché, a volte, ci sono circostanze che ti mettono davanti alla vita tua, te la aprono davanti come un libro: sfogli le pagine, guardi le figure e scopri che, della tua storia, hai già scritto troppi capitoli, con parole che non puoi più cancellare, anche se le hai scritte sbagliate.
«Ti piacciono i libri, guagliò?»
«Moltissimo, don Gaetà. Leggere mi fa sognare. I libri sono sogni ad occhi aperti.»
O incubi.
«Da quanto tempo stai qua alla Merica, guagliò?»
Me l’aveva già detto altre volte, ma mi piaceva attaccare da lì.
«Da quasi un anno, don Gaetà. Lo sapete, sono sbarcato dal “Cleveland” che mancavano due giorni a Natale, l’anno scorso. Il 23 dicembre 1913.»
«E siediti, p’a Maronn’! Bevi con me…»
Lo volevo vicino, con quell’energia misteriosa che usciva dal suo sguardo per entrare nell’animo, quasi avesse rapito un raggio del sole della nostra terra. La terra che non sentivo più mia.
«Un anno. E quante cose sei riuscito a fare, guagliò?»
«Poche, don Gaetà. Ho sciupato i soldi, ecco la verità. E ora mi arrangio, come posso. Questo, alla fine, è un buon posto».

Cameriere in un ristorante di New York, con questo schifo di clima. Un buon posto. Sì, forse lo era.
Certo, era andata peggio a me. Il mio viaggio in terza classe era stato un incubo. Eravamo intorno al 1890, una famiglia numerosa nel Cilento non poteva tirare avanti. Otto fratelli, otto bocche da sfamare. Io mi sentivo più forte, ma soprattutto avevo sentito i racconti di chi alla Merica c’era andato, avevo sentito leggere le lettere di chi diceva che di là, oltre l’oceano, ci stava tanto lavoro e tanta ricchezza per chi voleva faticare. E io paura di faticare non ne avevo avuta mai. Far rendere quella schifezza del terreno d’o Barone, non era facile. Ci si spezzava la schiena mio padre, ce la spezzavamo io e i miei fratelli. Poteva essere peggio di così?
Così ero partito, avevo raccolto un po’ di risparmi dei miei vecchi, insieme alle lacrime di mia sorella e di mia madre; quegli occhi che mi scavavano nel cuore, mi parlavano di dolore, ma anche di speranza.
Ero partito con Carmine, perchéicon un compare ci si aiuta. Perché quando non si è soli si riesce a non piangere, o si piange di notte, al buio, quando l’altro dorme.
Ma a metà del viaggio, saremmo tornati a casa a nuoto tutti e due.
Domani torno al paese con una bella nave, con le cabine di lusso, ma quando sono venuto, il viaggio delle bestie ho fatto.
Guardavo il ragazzo e mi dicevo che sul “Cleveland” lui proprio non l’ha saputo, cosa vuol dire un dormitorio di terza classe, dove si mescola puzza di piscio, di vomito, di sudore, il respiro della gente ammassata, il rantolo dell’ammalato, tutta quella gente che lascia ‘a monnezza sul pavimento. Lui non l’ha saputo cosa vuol dire il rancio, magari col mare grosso; gruppi di sei persone, uno che lo va a ritirare anche per gli altri cinque e se può ti frega sulla porzione, il vino che si rovescia, il pane che s’inonda. Cosa vuol dire mangiare accovacciati sulla coperta, col piatto tra le gambe e il pane tra i piedi, come i poveri alle porte dei conventi. E quando il mare ti fa ballare, meglio solo un po’ di galletta e acciughe. Di sopra, in prima classe, signori eleganti, coi loro spolverini, le signore coi grandi cappelli e le piume, il cagnolino in braccio; di sotto, nella terza, noi poveri cristi con le pezze al culo, in mezzo a sacche e valigie di cartone, materassi e coperte.
Come diceva, quel veneto seduto vicino a noi, che non stava zitto un minuto? Mi pare di sentirlo pure mò, con quella cantilena che non finiva mai.
“I ga un bel dir: no emigré, no emigré. Mi so solo che me copo a lavorar, e che no cavo gnanca da viver, mi e mia mugier. Mi emigro per magnar. Lù me consegiava de spetar, che gavaria bonificà la Sardegna e la Marema… Ma se intanto mi no magno!»
Lo lasciavamo sfogare. Dava voce ai nostri pensieri con rabbia disperata.
Era tutta qui, la storia. Non si mangiava.
No, il ragazzo, con quegli occhi scuri e fondi come la notte, pure se ha viaggiato su un mercantile, queste cose non le sapeva.
«Voi stasera tenete pensieri, don Gaetà…», aveva detto, sedendosi finalmente al mio tavolo.
Aveva spostato il mio cappello, lo aveva messo sul tavolo, ma con grande rispetto e io lo avevo lasciato fare. Credo di avergli sorriso. Lo sapeva anche lui che quel cappello valeva assai. Uno Stetson, non un cappello qualunque. Qui alla Merica piace assai, lo tengono le persone di successo, quelli che sanno cavarsela cogli affari. Di qualunque genere. E io ho saputo cavarmela, cogli affari.
«Tengo ricordi, guagliò. Hai ragione, sai. Questo posto» e avevo lasciato vagare lo sguardo per la sala ampia, coi vetri appannati delle finestre schiaffeggiati dalla pioggia, i tavoli ben apparecchiati, «è un buon posto. Tu lo sai, invece, come ho iniziato, io?»
«Non me l’avete mai raccontato, don Gaetà.»

E cosa ti potevo raccontare? La scena di una folla di uomini e donne di ogni età, che con enormi fardelli sulla testa e sulle spalle, con stoviglie, pentole, coperte, sacchi e valigie legate con lo spago sembrava scappare dalle piaghe d’Egitto?
A Castle Garden, ‘o centr’e raccolta, all’arrivo, a tutti avevano dato da mangiare, cambiato gli spiccioli e a chi chiedeva ancora, davano pure il nome di un paesano che poteva aiutare. E chi non aveva bisogno d’aiuto? L’aiuto del boss, che ti trovava la giobba, il lavoro. E una casa. E poteva farti licenziare tante volte, per riscuotere la bossatura; ti rendeva la vita un inferno se non gli davi una fetta del tuo guadagno, se protestavi per i turni massacranti, se ti facevi male sul lavoro. Intanto cominciavi a sentirti chiamare dago, ma mica ci facevi caso più di tanto, a parte quando gli irlandesi venivano a cercarti in tanti, tutti ubriachi, per farti la festa e rubarti i soldi. La lama mia e di Carmine qualcuno di quei bastardi l’ha pure ricamato. Che ti potevo raccontare, ragazzo mio, per non guastare il tuo sogno? Il tuo sogno ad occhi aperti?
«I primi tempi sono i più duri, guagliò. La casa, il lavoro. Appena arrivato sono andato ai tenements. Li conosci?»
«Un poco» mi rispose il giovane, con una smorfia pensierosa, che sul suo volto fine e pallido disegnò come un’ombra di dolore. Troppo pallido, il ragazzo. Troppo delicato.
Anche in questo lo sentivo strano.
Lo vedevo partecipe. Proseguii.
«Non è un albergo, credi a me. Cinque, sei, sette piani, un corridoio scuro come una tomba, umido, sporco, decine e decine di stanze. Solo poche, però, tenevano la luce del sole. Decine di persone, intere famiglie in pochi metri, un cortile pieno di monnezza, carogne ‘e suorce, detriti, arnesi; e quando d’estate arriva il caldo che si soffoca, le pareti sembrano fatte di fuoco. Sai quante notti ho dormito sulle scale?»
Fissavo assorto il bicchiere, ma con la coda dell’occhio guardavo il ragazzo con le sopracciglia aggrottate. Mi studiava. Cosa si chiedeva? Se sotto il mio vestito costoso ci stava ancora un po’ di quell’odore di cibo rancido e umidità? Oppure se un giorno avrebbe avuto anche lui il suo bello Stetson da sfoggiare, dopo aver fatto il cameriere in un ristorante?
«Ho dormito anch’io con le stelle come coperta, don Gaetà.»
Le stelle come coperta.
Io tenevo la lama nella destra, se a qualcuno fosse venuta l’idea di farmi la festa, altro che le stelle.
«Ma il sonno non era un problema, guagliò. Il lavoro mi spaccava in due. Prima lustrascarpe, a urlare con la cassetta “Shine! Shine!” tutto il giorno. E non me ne vergogno, perché ci stava pure di peggio, che a lustrare le scarpe ci si sentiva dei signori. Ci stava chi tirava a campare raccogliendo monnezza e carta straccia. Poi, il boss, dietro compenso si capisce, mi trovò un lavoro che potesse sfruttare la mia forza, ché allora ero forte come un toro. Mi spaccavo braccia e schiena a lavorare di pala sulla ferrovia. Con la lingua era ‘nu casine, non si capiva proprio. Così, tra noi, ci chiamavamo ‘gli sciabolatori del re Erode’. Solo più tardi ho imparato a dire bene shovellers of the railroad.»
La risata del ragazzo era stata sincera, aperta, simpatica. Non c’era traccia di derisione. Certo, lui non avrebbe mai ‘spiccato’ inglese, non avrebbe mai chiamato ‘stretto’ la street, ‘costumi’ i customers, ma lui era diverso, lo sentivo.
La battuta degli sciabolatori faceva sempre ridere tutti, solo io non riuscivo più a farci buon sangue, perché mi ricordava Carmine, che a fare lo sciabolatore s’era ammalato, con tutto quel freddo e quella miseria. Aveva iniziato a tossire, a sputare sangue, a tenere la febbre. E il boss s’incazzava, perché un malato, per lui, era un peso. Così, la notte che Carmine è morto, mi sono preso le mie cose, i miei soldi, pure quelli di Carmine, che tanto sarebbero finiti al boss, e me ne sono andato. Via dal tenement, via dal re Erode. Sono andato via, a sud, lontano.
Che ci fosse un po’ di sole, almeno, nella vita mia.
Mi versò ancora del vino, il ragazzo, e io lo lasciai fare. Chissà se lo producevo io, quel vino. Ma non aveva importanza. Importante era che lui fosse seduto al mio tavolo, a dividere con me il ricordo, come si divide il pane. Così gli raccontai della Louisiana.
«Andò meglio dopo. Per questo ti dico, guagliò… C’è sempre un dopo. E tu accorto devi stare… Andai in Louisiana, a Independence. Ci stava un villaggio di contadini nostri, manco me lo ricordo come feci a scoprirlo. Mi presero a lavorare a giornata. Là si stava bene, si coltivavano le strawberries, le fragole. Erano grosse, grossissime, gli americani ne vanno matti, le mangiano fresche, nei gelati, le fanno sciroppare. A marzo e ad aprile ci stava la raccolta, ne facevamo quintali. Poi le sistemavamo dentro a panierini che saranno stati poco più che dieci centimetri quadrati, una roba così” e feci un segno con le mani che desse l’idea al ragazzo, che annuiva. “I panierini li mettevamo int’a cassetta, ce ne stavano dozzine. E poi le caricavamo sui treni dove ci stanno i vagoni coi refrigerators; così, fresche fresche, se ne arrivavano a tutti i mercati. Hai capito? Feci i miei primi soldi. Ma non mi fermai lì.»
No, non mi ci fermai. Mica per le fragole, però. Non mi ci fermai per colpa di Maria, la figlia del fittavolo. Se un giorno avrai una donna accanto, augurati che sia come Maria. Il fuoco ci stava, in quegli occhi. E quando veniva al campo, al tramonto, mentre il sole incendiava i rami dei salici sul fiume, quel fuoco era una promessa mantenuta. Guagliò, se un giorno avrai accanto una donna come Maria, allora soffrirai. Quando la fecero maritare al figlio di un proprietario, uno importante, ‘mmiricano, io sentii che lì non ci potevo più stare. Me la vedevo davanti, lei non mi guardava più, se non di sfuggita, quando io non la guardavo. O almeno mi sembrava e io, giorno dopo giorno, sentivo che uscivo pazzo, morivo dentro. Fu come per Carmine. Era morto un altro pezzo di me. Hai mai perso qualcuno o qualcosa, ragazzo? La Merica questo ti insegna: l’importante è che risali. Vai giù e risali. E io sono risalito, ma da un’altra parte. In California.
«Fu allora che andaste in California?»
«Fu allora, bravo. Sentivo dire che ci stava tanta terra, che la facevano fruttare soprattutto i polentoni: genovesi, piemontesi, lucchesi. Laggiù ci trattavano pure meglio, a noi italiani, perché toglievamo lavoro ai gialli, cinesi e giapponesi, che si erano stabiliti su quelle terre. E gli americani non ce li volevano, i gialli. Meglio i dagoes, che sapevano far fruttare quella terra baciata da Dio, con un clima che sembrava di stare all’Italia. Agrumi, frutta, vite, ortaggi, ulivi. Quello che vuoi coltivare, in California tu lo coltivi. E devo dire che la fatica del viaggio fu il mio migliore investimento. Misi tutti i miei risparmi e presi un bel terreno, lontano dalla ferrovia, che sennò costava pure quasi cento dollari l’acre. E impiantai una vigna. Fu il mio primo grande affare. Produceva uva da tavola, ne riempii dei vagoni, vagoni interi, guagliò. Mi sentivo arrivato, ce l’avevo fatta. Mandavo soldi a casa, aiutavo i fratelli miei, ché nel frattempo i miei genitori, stroncati dalla fatica e dagli stenti, non c’erano più. Però bisogna stare attenti. Quando hai tanti soldi per le mani e non sei abituato, facile che fai degli sbagli. Ho cominciato a giocare con le azioni delle miniere, e all’inizio sembrava che i soldi mi piovessero dal cielo. Poi, un brutto giorno, mi trovai rovinato. Ma ormai avevo imparato. Vai giù e risali.»
«E come risaliste?»
«Andai a lavorare come dipendente. Il padrone era uno che conosceva la fatica, era venuto dalla Toscana con una scimmia e un violino e ora teneva un campo enorme, dalle parti di San Francisco, che era le sette bellezze. Non mi pagava male e apprezzava il mio amore per quella terra. Vicino, ci passava la ferrovia. Erano dollari a palate, tutto guadagno senza le spese del trasporto. Ormai era vecchio e, pure se teneva i milioni, continuava a vendere frutta dentro la vecchia bottega, mentre i figli suoi, apparentati con le migliori famiglie, facevano la gran vita dei signori in città e della terra non se ne davano per inteso. Quando finalmente lui decise di godersi la vecchiaia, avevo tirato su un bel po’ di soldi. Forse lo fece per dispetto ai figli, che l’avevano solo munto come una vacca da latte, o forse gli ricordavo com’era stato lui, fatto sta che mi vendette il campo. Capisci, guagliò? Vai giù e risali. E da allora ho cominciato a curare solo la terra. Era lei la mia giobba, il mio lavoro, capisci? E non l’avrei lasciata più. Tenevo certe mie idee sul vino, cominciai pure a imbottigliarlo e ora il vino di don Gaetà viaggia pure sui bastimenti che vanno in Europa. E ora pure don Gaetà sta per viaggiare, e chissà cosa troverà al paese suo, alla terra sua.»
«Noi la chiamiamo terra, come quella su cui camminiamo. Ma per chi cerca con l’anima, la nostra terra si chiama casa, si chiama amore», disse il ragazzo, fissando un punto lontano, accessibile solo a quello sguardo che sapeva di mistero.
Lo guardai senza rispondergli. Aveva trovato le parole che in una vita io avevo cercato per spiegare quel nodo che non mi andava né su né giù, quelle lacrime che non avevo mai pianto.
Ricordo che sospirai, mentre il ragazzo mi fissava con quei bellissimi occhi neri spalancati, ma il suo sguardo fissava il futuro, provava a metterlo a fuoco, teneva un sogno e voleva viverlo come fosse vero. La domanda di quegli occhi era urgente, bruciava dentro: “Io ce la farò?”
Chi lo sapeva se ce l’avresti fatta, così fine, così mingherlino, ma pure così ostinato. La Merica è un paese strano. O ti accoglie o ti uccide. O ti rimanda a casa. Per te sarebbe stato diverso, lo sentivo.
Fu in quel momento che il padrone del ristorante urlò il suo nome: “Guglielmi!» e giù un fiume di parole che io capivo a metà per via dell’accento irlandese, ma che dicevano in buona sostanza che lui non lo pagava per bere con i clienti.
Quella scena mi ricordò un fatto lontano, il ricordo mi fece male.
Era un bravo guaglione e teneva imbarazzo, così quando si alzò, gli strinsi il braccio.
«Tieni questo, te lo regalo… Ti porterà fortuna, guagliò.»
Le sue guance divennero rosse come la porpora. Gli stavo tendendo il mio Stetson. Era un bel modello, con la tesa larga, di feltro, un nastro scuro di raso lo rendeva elegante, un cappello da persone ricche era. Da persone che venivano rispettate. E l’eleganza era una cosa italiana. Come noi due.
«Lo sai? Decisi che un giorno avrei tenuto un cappello come questo quando ancora stavo ai tenements. Fu quando il soprastante venne al cantiere, prese un ragazzo, gli disse che era licenziato. Era un guaglione taciturno, tranquillo, ma il suo lo faceva. Forse il boss voleva riscuotere due volte la bossatura, forse il guaglione comprava troppo poco allo spaccio, che pure era del boss. Fatto sta che non doveva più farsi vedere. Il ragazzo chiedeva che gli fosse data la sua paga, ma l’altro gli urlava di portare il suo attrezzo al magazzino e levarsi dai coglioni. Il guaglione insisteva che prima lo pagassero, così il sovrastante gli strappò la pala dalle mani e gli diede un gran colpo sulla testa, da lasciarlo morto. Il ragazzo invece si rialzò, teneva una ferita sulla capa, larga così. Piangeva e bestemmiava, ma si rialzò, per trovarsi davanti un poliziotto che prese a fargli un sacco di domande. Lui neanche le capiva, ma a tutte le domande rispose: yes! Teneva rispetto per la divisa, teneva. Il poliziotto lo prese e lo portò via, in arresto. Lo vidi bene l’occhiolino che la guardia si scambiò col soprastante. Lui mi vide, venne da me come una furia: “Che minchia guardi? Lavora! Lavora!” e mi diede una sberla che mi fece volare il cappello nel fango. Era la coppola che mi aveva regalato mia sorella, quando ero partito, e piangeva mentre me la dava. Ci sputò pure sopra, quell’omm’e niente. Carmine teneva la mano in saccoccia, pronto ad aprirgli la gola. Gli dissi di no con gli occhi. Ci serviva la giobba, ci serviva. Però mi feci una promessa. Un giorno avrei tenuto un cappello da signore, di quelli veri, e avrei deciso io quando togliermelo e davanti a chi. Ecco, questo lo presi con i primi dollari della California, qualche anno fa. Mi parlava dell’Italia e del rispetto che mi ero guadagnato, quando sono diventato don Gaetà. È un bel cappello, mi ha portato fortuna, ora voglio che ne porti un po’ a te. Trova la tua giobba, guagliò.»
Mi guardava con l’espressione di un cervo a cui viene risparmiata la vita dal cacciatore. Quell’espressione nun l’agge scordata mai. Rispose con un filo di voce: «Grazie, don Gaetà!»
Uscii dal ristorante che tirava vento, pareva ci fosse ‘nu tifone. La pioggia veniva giù a raffiche. Il cappello mi sarebbe servito assai, quella sera, ma ero soddisfatto, non tenevo più i pensieri. Era stato un piccolo gesto, ‘na cos‘e niente, eppure mi sentivo felice. Chissà poi perché.

***

Non lo rividi più, il guaglione. Almeno, non di persona. Al paese, quando arrivai dopo quella notte e dopo un viaggio di lusso, mi accolsero come ‘nu re. Ci stava il sindaco con la banda, ci stavano i notabili, pure il prete non era mancato. Tutti ad applaudire, tutti a dirmi: “Bravo, don Gaetà!”. All’entrata del paese uno striscione, in alto, tra le case, mi dava il benvenuto. Lo lessi con fatica.
Ma il primo posto dove sono voluto andare è stata la tomba dei genitori miei. Ho portato un mazzo di fiori enormi, profumati, ma tutto quel profumo non me la mandava via, la mia tristezza, la mia malinconia. Tutti quei giorni passati lontano dal mio sangue, dalla mia terra, dalla mia casa.
La giobba, i soldi.
Mi dissi che non avevo avuto scelta.
Trovai pure una donna, al paese. Ché io non ero più giovane, ma ero un buon partito. Una donna brava, onesta, meglio di queste ‘mmiricane che ti sposano, ti mollano, ti mangiano la casa e la terra con gli alimony, ti portano via i figli. Che forse Maruzza non mi ha amato con passione, ma mi ha rispettato sempre e dato due figli belli e robusti. Ero la sua giobba. Per questo mi fermai diversi anni all’Italia, ché intanto ormai il bisinis, qui, andava avanti pure senza di me.
Quando tornai lo rividi sui manifesti, il guaglione. E una volta, su un giornale, teneva in testa uno Stetson che sembrava proprio il mio, ma forse lo volevo credere io.
L’aveva trovata, finalmente, la sua giobba.
Ci regalava i sogni, il guaglione. Ma non con i libri.
Era diventato un attore.
Rodolfo Valentino.
Il nome Guglielmi, che il ristoratore aveva urlato quella notte, quando stavamo chiacchierando, non lo ricordava più nessuno.
Mi sedevo al cinema, con mia moglie e i figli che Dio ha voluto darmi, e sognavo, sognavo. Sentivo pure i sospiri delle femmine, quando il guaglione lanciava uno di quegli sguardi che conoscevo bene, e ogni tanto immaginavo che a quell’ora, in un cinema in Louisiana pure Maria sospirava. Rudy, oh Rudy. E la sentivo ancora vicina. E di questo lo ringraziavo, fingendo di commuovermi per la storia che mi scorreva davanti agli occhi sullo schermo.
“I quattro cavalieri dell’Apocalisse”.
“Sangue e arena”.
“L’aquila nera”.
“Il figlio dello sceicco”.
Leggevo le didascalie, ma immaginavo di sentire ‘a voce d’o cameriere.
Mi chiedevo se il ricordo delle lontane parole scambiate con don Gaetà lo fosse mai tornato a visitare. Forse sì. Avevo saputo che aveva tentato di prendere dei terreni in California, per creare una fattoria dove far venire i genitori, ma doveva versare mille dollari di anticipo e all’epoca non li teneva.
Era andato giù, ma dopo era risalito. Bravo, guagliò.
Mi chiedevo anche se teneva i pensieri, come don Gaetà, il giorno che era tornato in Italia, per il viaggio con sua moglie. E ad accoglierlo ci furono altro che il sindaco con la banda. Pure il poeta famoso, D’Annunzio, incontrò. Chissà che gioia, per lui che amava i libri.
Chissà se qualcuno, la sera prima, lo ascoltò, versandogli il vino.

***

E ora eccoci qui. Ci ritroviamo, guagliò.
Ne è passato di tempo.
Mi hai fatto male, quando te ne sei andato.
Carmine, Maria. E ora tu.
Che fretta avevi?
Un altro pezzo di me, ma stavolta a dover risalire non sono solo io.
È tutta l’America.
Una folla enorme ti ha dato l’ultimo saluto, migliaia di persone, li avevi fatti sognare tutti quanti, l’hai fatti ‘nnammurare.
Persino le vetrate della camera mortuaria sfondate, rob’e pazze. Le donne si ammazzavano gridando il tuo nome, altre dicevano di aspettare un figlio tuo. Pareva ‘o manicomio. E io pensavo a quella sera quando mi servivi da bere e mi ascoltavi parlare. Sapevi farti amare, guagliò.
Quando ti portarono al treno, ci stava pure una camicia nera venuta dall’Italia, con un’enorme corona di fiori con la scritta “da Benito”, in mezzo a quintali di fiori mandati da tutto il mondo.
E a ogni fermata del treno, grida, pianti, una folla impazzita.
Impazzita per un dago, ci pensi?
Ti hanno seppellito qui, alla Corte degli Apostoli al Memorial Park Cemetery.
C’è un tappeto di fiori, tutto intorno.
Ci sta pure la rosa rossa che una misteriosa dama vestita di nero ti porta ogni giorno.
C’ho pensato a lungo, prima di venire. Mò don Gaetà, ormai vecchio, ha raccolto le forze ed è venuto pure lui. Per te. Non tengo fiori, lo vedi? Ma tengo nel cuore le parole tue, che ho imparato a memoria, di quella poesia che parla della terra. Le parole tue sono meglio dei fiori.

The earth is earth-that is its worth,
To men who walk below.
But to the soul that seeks its goal,
Each land is all they know.
One calls it Home,
Another Heart,
Another Property,
But to the one who loves the sun
He calls it Italy.

Tu che amavi il sole. Proprio come me.
Chissà se la pronuncio bene, la poesia.
Ora lo vedi, guagliò? Tengo un cappello, uno Stetson proprio uguale a quello di quella sera.
Non faccio altro, me lo tolgo davanti a te.
So che ci siamo capiti.
E se questo raggio di sole che spunta tra le nubi e arriva ad accarezzarmi la faccia è il tuo sorriso, io ti ringrazio.
Addio, guagliò.

 

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