"La trovatrice di cadaveri" di Elisabetta Miari


 

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Mi presento: mi chiamo Marina, ho 43 anni e sono single. Sono una ” trovatrice di cadaveri”.

Questo é il mio mestiere, lo è diventato naturalmente negli anni. Dopo decine di cadaveri trovati per caso, la  polizia della mia città, Milano,  mi ha chiesto di collaborare, assieme alla Criminalpol, per ritrovare i corpi delle persone scomparse  non più in vita.

Così,  almeno una volta mese,  parto per andare a cercare in giro per l’Italia, qualche cadavere nascosto nei boschi, nelle pianure vicino ai fiumi o in qualsiasi altro posto la mente malata di un assassino abbia deciso di nasconderlo.

Corpi non trovati, reclamati, che gridano vendetta e soprattutto una degna sepoltura. E io, come una rabdomante, cammino per chilometri, nell’attesa di sentire i miei battiti accelerare e una sensazione di costrizione al petto. Questo è il segno che sono vicina ad un cadavere, quasi sempre quello che stiamo cercando.

Tutto è cominciato vent’anni fa, durante  la settimana bianca con amici di università. Stavano scendendo da una pista nera , ed ero come sempre l’ultima, quando sentì il bisogno inspiegabile di deviare e fare un fuori pista, cosa del tutto anomala per me. Dopo qualche centinaia di metri, vidi  spuntare dalla neve due sci in verticale e una racchetta. Sembrava fossero l’estremità di qualcuno. Mi sganciai gli sci e cominciai con i guanti a scavare nella neve. Il mio lavoro non  durò  a lungo, perché una tuta e un berrettino di lana iniziarono ad affiorare, con il  bel volto di un ragazzo dai tratti nordici: pelle chiara, capelli biondi e  zigomi alti.

Lo shock del ritrovamento fu indescrivibile. Per giorni non feci altro  che rivedere il suo viso vetrificato dal gelo e pensare a come fosse la sua vita in Germania – il ragazzo si chiamava Michael e veniva da Francoforte – e cosa si provasse a morire a vent’anni in simili circostanze.

Un inferno. Immagini e domande che si rincorrevano nella mia testa e che non mi  davano pace.

Inciampare in un cadavere è un’evenienza piuttosto remota, ma può succederei una volta nella vita. È’ stato solo al secondo ritrovamento che ho cominciato a farmi  delle domande e a pensare a una persecuzione.

Ero andata a correre al parco Lambro, parliamo sempre di una ventina di anni fa, sei mesi circa dopo il primo ritrovamento.

Era luglio, un bel caldo, così decisi di andare alle otto del mattino, quando il sole non era ancora alto.  Presi un percorso alternativo quel giorno, che costeggiava una piccola macchia. Ad un tratto sentì un tanfo insopportabile al quale reagì accelerando la corsa, ma siccome il percorso mi portava a girare intorno alla macchia e il tanfo non accennava a diminuire, decisi di fermarmi e  dare un’occhiata.

Non mi fu subito chiaro, ma dopo essermi avvicinata ulteriormente lo vidi: il cadavere di un uomo, mezzo scarnificato da animali, forse cani selvatici, e circondato da un nugolo di mosche. Feci un balzo indietro in preda al panico, poi iniziai a correre e correre, sempre più veloce, finché  raggiunsi la mia auto. Corsi a casa e chiamai subito la polizia. Venne fuori che era un albanese sui trent’anni, probabilmente ammazzato dalla malavita del suo paese e di cui nessuno aveva denunciato la scomparsa.

Altri giorni duri seguirono, densi di incubi e cattivi pensieri. L’immagine del cadavere devastato mi danzava sempre davanti agli occhi. I miei amici mi guardavano con compatimento misto a paura, anche se facevano del loro meglio per starmi vicino.

Avevo un fidanzato all’epoca, tale  Mirko, un ragazzo della nostra compagnia. Niente di impegnativo, e infatti trovò subito il modo di disimpegnarsi e di sparire dal gruppo. Poco male, questo era l’ultimo dei miei pensieri.

Mi chiedevo se con scadenza di sei mesi avrei rivisto altri cadaveri, e la risposta non si fece attendere così a lungo. Agli inizi di settembre dello stesso ann, quindi poco più di un mese dopo, con i ragazzi del mio gruppo si decise di andare a fare una gita in montagna per cercare funghi. Avevamo stabilito di fare una competizione: chi ne avrebbe raccolti di più avrebbe avuto diritto anche al bottino degli altri, avrebbe vinto tutto. Fu così che ci distribuimmo nel bosco separati  e per qualche ora girovagammo con il naso in giù alla ricerca del nostro tesoretto. Non stavo certo pensando ad un cadavere quando inciampai nella gamba  nuda e sporca di una giovane donna. I capelli biondi e gli occhi vitrei sbarrati in uno sguardo di terrore. Gli abiti strappati ed evidenti  lividi sul collo. Ci voleva poco ad intuire che fosse stata violentata e strozzata, non necessariamente in quell’odine. Mi misi ad urlare finché tutto il gruppo non fu intorno a me, a guardare con  incredulità la mia scoperta. La povera ragazza si rivelò essere ucraina e da poco in Italia.

Il quarto invece fu un barbone, trucidato barbaramente da una banda di deliquentelli e lasciato vicino a un cassonetto nel parcheggio di un grande supermercato. A quel punto cominciò a subentrare in me  una sorta di rassegnazione: sentivo che ormai sarebbe sempre stato così e che quando succedeva, non importa cosa stessi facendo o quali fossero i miei piani, dovevo interrompere tutto, telefonare alla polizia e passare lunghe ore alla centrale.

Il quinto  corpo in cui inciampai, non fu un omicidio, bensì un suicidio, ma pur sempre un cadavere.  Stavo facendo una passeggiata nei pressi dell’Abbazia di Chiaravalle, assieme al mio cane Tartufo, ancora cucciolo, quando percorrendo un sentiero nei campi, costeggiai una macchina parcheggiata ed il mio cuore prese a battere come un tamburo. Guardai dentro e vidi un uomo di mezza età, visibilmente in rigor mortis, con gli occhi spalancati.  Feci subito dietrofront e a a passo spedito raggiunsi la prima abitazione che distava qualche chilometro e da lì chiesi di poter chiamare la polizia. Mi dissero poi che era un uomo che aveva grossi problemi economici e che dopo che la moglie gli aveva chiesto la separazione, non aveva retto.

Vi risparmio l’elenco di tutti gli altri che seguirono prima che ricevessi la proposta di collaborare con la Polizia e farne un mestiere.

Ora  é diventato  solo un lavoro per me, ho trovato il modo di utilizzare il mio macabro talento per aiutare gli altri e  viverci pure. Ma al distretto  sono diventa una barzelletta: quando parlano di me non usano mai il mio nome,  mi definiscono con un sorrisino ironico” la trovatrice di cadaveri”.  Forse gli brucia un po’ di non essere loro quelli che finalmente scoprono se una persona scomparsa è morta o meno, mi guardano con diffidenza, anche se ormai sono tanti anni che trovo corpi e non devo più provare a nessuno di non essere una ciarlatana.

E pensare che sono a detta di tutti una bella donna, molto in forma. Ho un abbigliamento ricercato . e ho sempre gli occhi degli uomini puntati su di me, quando arrivo assieme alle unità cinofile e ai poliziotti in divisa. Tutti si chiedono chi sono, molti pensano che sia una sensitiva, ma purtroppo il mio talento si limita solo a sentire i cadaveri. Questo negli anni mi ha impedito di farmi una famiglia. Solo storie, anche lunghe, con poliziotti  o anatomo-patologi.

A volte mi capita di farmi domande sul destino e su come i talenti siano distribuiti in maniera bizzarra. Mi chiedo anche chi sarà il prossimo ed ogni volta mi auguro che non sia un bambino, non so se riuscirei a reggerlo.

Il mio nome è Marina, ho 43 anni, sono single e il destino ha deciso che fossi una trovatrice di cadaveri.

 

 


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