La via dei ricordi di Amalia Lilla Pezzi


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Le storie che vi propongo fanno parte di una raccolta di racconti autobiografici intitolata ” la via dei ricordi “.

Alla mia età , se voglio scrivere qualcosa, devo per forza ripercorrerla: ritorno sui miei passi per giungere alla mia serena infanzia cui seguì il periodo dell’adolescenza che invece non fu altrettanto spensierata.

Sarebbe bello poter iniziare il racconto della mia infanzia proclamando con orgoglio di essere nata a Parigi, a Londra, o in qualsiasi altra metropoli, anziché dover ammettere di essere nata ad Alfonsine, un paesino della Romagna, tagliato in due dal fiume Senio, che non è neppure un lontano parente della Senna o del Tamigi.
Quello che conta però è che Alfonsine durante i miei primi anni di vita ha rappresentato per me l’universo intero; non immaginavo nemmeno che esistessero altri paesi e ancor meno enormi città al di fuori di quelle quattro strade e di quella piazza che fecero da scenario alla mia infanzia tanto serena e perciò ancora oggi rimpianta.
Sì, i miei primi anni di vita sono stati meravigliosi, li ho trascorsi protetta da due genitori incomparabili, libera come l’aria in un quotidiano contatto con la natura, allietata da coetanei e da adulti di cui conservo ancora un dolce ricordo.
Quel periodo rappresenta per me un rifugio sicuro dove potermi ritirare per sfuggire alla noiosa e a volte opprimente quotidianità o agli immancabili disagi del presente.
I miei primi idoli sono stati babbo e mamma, due creature dolcissime, serene, equilibrate da cui ho ricevuto tutto il meglio che oggi riconosco, senza falsa modestia, di possedere; non mi hanno mai impartito lezioni dirette, mi è bastato osservare il loro comportamento sempre corretto e dignitoso, ascoltarne i discorsi pieni di buon senso, valutare i loro rapporti assolutamente sinceri e rispettosi col prossimo, per trarne una costante lezione di vita che si è impressa nella mia mente fino a divenire il mio modo di essere naturale e immutabile.
Il babbo lo ricordo sempre allegro, pronto a trovare il lato comico in ogni situazione, ricco di battute spiritose che lo rendevano simpatico a tutti, la mamma invece alternava momenti di allegria ad altri in cui si mostrava incline a considerazioni velate di malinconia.
Di quei tempi lontani ricordo perfino gli odori : quello acre dell’inchiostro, per esempio, con cui si riempivano i piccoli calamai conficcati nei banchi di scuola; vi si trovavano un’infinità di oggetti: d’inchiostro poco o niente; c’erano pennini arrugginiti, palline di carta assorbente, pezzetti di gesso bluastri perché imbevuti d’inchiostro; in primavera invece capitava di trovare perfino il cadavere di qualche mosca tragicamente perita in quel “ mar nero”; e come dimenticare quello nauseabondo della creolina, un potente disinfettante allora in uso per la pulizia dei servizi igienici?

Ma per fortuna ricordo anche quel penetrante profumo di gigli che si diffondeva per le strade del paese in certe limpidissime mattine di primavera, quando fra un festoso squillare di campane si snodava la lunga processione di fedeli nei giorni di grande solennità.

Erano mattine piene di sole; io, tenendo ben stretta la mano di mia madre, avanzavo a piccoli passi, osservando con profonda attenzione i calcagni di coloro che mi precedevano. Alle nostre spalle un coro di voci gentili cantava “Noi vogliam Dio…” nelle prime file invece tremule voci di vecchiette invocavano la Santa Vergine con un inno a Lei dedicato. Altri fedeli, forse i più stonati, si limitavano a lasciar cadere da cestelli ricolmi, odorosi petali di rose per rendere omaggio alla Vergine Maria che, dietro di noi, avanzava lentamente portata a spalle dai più giovani e vigorosi fedeli.


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