“L’ascensore sociale” di Marco Speciale


Il microonde, quello che aveva salvato dal pignoramento, aveva la porta spalancata e aspettava intristito l’inizio del rito serale. Un cartoccio di rosticceria avrebbe sfrigolato per un minuto e mezzo. Mille funzioni e possibilità per altrettanti led da albero di natale: tutto affondato in un due novembre culinario. Trascorsi i novanta secondi, Carlo avrebbe iniziato a sbocconcellare con rapide prese dei polpastrelli; poi, diminuito il calore, avrebbe attinto a piene mani con un abbrutimento senza limiti. Un’altra cena così.
La televisione celebrava in sottofondo gli stanchi riti di un talk politico, quelle puntate con un sottosegretario, due giornalisti, un gruppo di cassintegrati, un intellettuale decotto pronto su qualsiasi argomento. Un professore universitario che, distolto lo sguardo dalle scollature delle studentesse, avrebbe dato il suo parere di studioso. Fu proprio lui che colpì Carlo con un’espressione. Si era a pochi giorni dall’approvazione della Finanziaria e i sociologismi erano tornati alla ribalta delle telecamere.
Queste politiche a chi giovano? Chi sale sull’ascensore sociale?
Carlo Massari era stato socio di un famoso studio di architettura. Carlo aveva avuto una moglie bella e impeccabile in ogni occasione. Carlo aveva avuto due figli, bravi a scuola e straordinari nel dressage. Carlo aveva avuto una casa da visitare col monopattino.
Poi si era messo a pippare, alla grande. Infinite strisce che sommate in lunghezza avrebbero avvolto lo Stivale in un bianco abbraccio. E anziché salire ancora più in alto era precipitato. Era disceso rapidamente dal suo attico, sede di raffinati ed esclusivi party, per approdare al pianterreno di un monolocale al Giambellino, periferia popolare, la Milano che non conta. In un paio d’anni. Il tasto rosso dello stop sembrava essersi guastato.
La moglie se n’era andata con i figli. Al ritorno da una nottata di cui ricordava solo specchi impolverati e corpi nudi senza volto, Carlo aveva trovato la casa spogliata di molto, di quasi tutto. Gran signora davvero, con quel suo sottile humour che, anni prima, lo aveva fatto innamorare. Gli aveva fatto trovare sul tavolo il barattolo della farina e un biglietto d’addio: se vuoi sniffati anche questa. Con generosità gli aveva lasciato anche cinquecentomila euro di mutuo.
Allo studio lo liquidarono con disonore: inaffidabile. Con la buonuscita riuscì a ripianare certi impegni con le finanziarie. Conto in banca chiuso però, ci dispiace dottore. Aveva evitato gli usurai ma non i pignoramenti e la vendita all’asta della casa. Ne era uscito vivo, ma senza lavoro e prigioniero in trenta degradanti metri.
Per fortuna aveva incontrato Mario.
L’aveva visto in uno di quei locali alla moda dalla rispettabilità limitata: specchiata onestà tranne che nei bagni. Era uno di quei personaggi sempre a proprio agio, la parlantina sciolta, qualche tipa vistosa sempre appiccicata, beveva poco e il meglio. Divertente, a giudicare dalle mille risate che, a ogni suo racconto, si faceva il crocchio che lo circondava. Elegante, con quegli abiti da vetrina chic e quel taglio scalato con brizzolatura ad arte.
Una sera si era avvicinato con la scusa di offrirgli da bere. Carlo si preparava all’ennesima tentata vendita in odor di truffa: auto sportive senza libretto, zirconi spacciati per diamanti, gioielli in puro oro del Giappone, investimenti sicuri in titoli falsificati. Un caravanserraglio di merce affidabile quanto le signorine che giravano fra i tavoli.
Cercava invece un socio, un socio per la sua pluriennale attività. Il suo partner si era dileguato, finito con la faccia in un fosso o a sfogliare tramonti in gattabuia o forse non gli piacevano gli addii.
Un lavoro semplice e poco impegnativo: al massimo un paio di appuntamenti al giorno. Lui agiva sul territorio, muovendosi con astuzia fra bar, banche, poste, mercati rionali, supermercati. E individuava le vittime: donne sole, meglio se vedove, le zitelle erano più sospettose.
E non saltare subito alle conclusioni perché non è la solita roba da disperati.
Poi sarebbe venuta la parte di Carlo. Doveva entrare in casa con un falso tesserino dell’azienda del gas. Un controllo sul contatore: non era più a norma, andava cambiato a spese dell’utente. C’era però una via d’uscita: se i consumi annui rientravano in una certa soglia il tutto non avrebbe comportato spese. L’anziana sarebbe andata in cerca dei bollettini e qui veniva il compito più delicato per Carlo. Non si trattava però di quelle cose da balordi da quattro soldi, non avrebbe dovuto rubare niente: doveva solo fare il calco delle chiavi. Perché le chiavi, si sa, sono sempre nella toppa o appese nei paraggi. L’incontro si sarebbe concluso con grande gioia della vittima: il costo sarebbe stato a carico dell’azienda, gratis.
Passata qualche settimana, quando la visita era ormai caduta nel dimenticatoio, Mario avrebbe agito con tutta calma, lasciando una finestra aperta con due o tre colpi di cacciavite vicino alla maniglia, giusto per simulare lo scasso.
Invisibili, imprendibili, sperimentato, sicuro: peccato non poterne richiedere il brevetto.
Poi, come per prevenire le titubanze di Carlo:
Tutta la neve che vuoi e mille euro al mese.
Carlo, che ondeggiava pericolosamente sul filo teso fra nulla e nulla, si aggrappò volentieri alla mano di Mario e gliela strinse.
Accetto.
Ed era più di un anno che funzionava. Carlo acquisiva giorno dopo giorno un’assoluta disinvoltura: entrava in quelle case sconosciute e improvvisava al meglio. I sentimenti di quelle poverette non lo riguardavano: la loro patetica preoccupazione prima, il loro sollievo poi. In fondo, lo salutavano tutte col sorriso sulle labbra. La disperazione di quelle donne, scoperto il furto dei ricordi di una vita, non gli destava alcun rimorso. Non c’era spazio per i più deboli: mors tua vita mea. Il mondo aveva una sola regola: sopravvivere.
Certo, Carlo sapeva di essere caduto in basso, ma la discesa sembrava essersi arrestata. Doveva risalire verso quelle altezze che assicuravano una diversa vista sul mondo. Ogni giorno lo sperava. Ma quando il nero sipario della notte si ripiegava ai bordi della scena si ritrovava prigioniero della solita cinica commedia.
Il cartellone prevedeva per quel giorno via Negroli 4, terzo piano: Tofana, signora Tofana. Tutto stava filando liscio più del solito: forse per la pista che si era fatto da poco o forse per l’arrendevolezza dell’anziana. La casa era simile a tutte le altre: dopo un ingressino, una sala con tele dozzinali di paesaggi alle pareti, divani di velluto riparati da lenzuola, vetrinette colme di ninnoli e tazzine di Limoges. Un odore di naftalina, proveniente dagli armadi della camera, che si diffondeva in tutti gli ambienti: era in atto una resa dei conti definitiva con le tarme. Quegli appartamenti erano una sofferenza per Carlo, era pur sempre un architetto.
Vuole accomodarsi sul divano?
La signora Tofana sembrava un tipo accudente, tanto valeva accontentarla: prima regola, mai contraddire.
Le faccio una tisana, è una mia ricetta, le piacerà.
Era proprio simpatica, magra come il giunco che non vorresti mai spezzare. Poi i calchi erano già in tasca, ci si poteva riposare un po’. Tanto non c’era pericolo che Carlo desse spazio ai sentimentalismi: mors tua vita mea. Aveva quindi sorseggiato la mitica tisana, amara da bruciare il palato, e ora si preparava ad andare: l’attendeva la signora Monti. Stranamente però, per quanto si sforzasse, non ne ricordava più l’indirizzo.
Grazie signora Tofana, buona giornata.
Ma le gambe non rispondevano. Un calore bruciante gli aveva invaso i polmoni e, per quanto si agitasse, non riusciva più a respirare, la bocca bloccata come in uno sbadiglio interrotto. Mentre la signora andava al telefono e alzava la cornetta per chiamare, la sua vita se ne stava andando.
Ne ho qui un altro, vieni a darmi una mano?
Così Carlo Massari aveva fatto un ultimo viaggio in ascensore. Anziché risalire, aveva continuato la discesa dal suo attico fino a delle anonime cantine. Meno uno, gettato in un grande congelatore.
Sottoterra.
Insieme al vecchio socio di Mario.


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