“Le due parti della medaglia” di Massimo Messa


Il mercatino dell’antiquariato meritava una piccola esplorazione. Tra le strade di Castelleone c’era profumo di passato, c’erano collezionisti e curiosi in cerca di cimeli d’epoca. Si potevano trovare oggetti vintage, ma anche gadget moderni e originali. Una vera caccia al tesoro che raccontasse di un periodo ormai andato o di un presente di tendenza.

“La tendenza a collezionare”, pensò Matteo, “è forse dettata – più a livello di subconscio che a livello di ratio – da un desiderio di possesso e perfezionismo che non sarà mai soddisfatto, in quanto la raccolta frenetica di oggetti non potrà mai essere completata: mancheranno pur sempre quei pezzi rari e costosi che neanche svenandosi, ammesso di individuarli tutti, potrebbero essere inglobati in un’unica collezione esaustiva”. Ma forse proprio la consapevolezza di questa risoluzione incompiuta si pone a garanzia del fatto di praticare un hobby duraturo. I collezionisti – in maggioranza di sesso maschile, come maschio è il sultano che dispone di un harem – sono di ogni età e condizione sociale e vengono accomunati, più che da quello che hanno, da quello che risulta loro mancante. Tra loro si annidano fini campioni di self control, capaci di vedere, finalmente, l’oggetto sognato invano da anni e di simulare disinteresse, chiedendone con nonchalance un prezzo disinteressato. Gelosi, in genere, di quanto possiedono, di quanto sono riusciti a ingabbiare, si sentono dominatori di un bottino da poter mostrare con fierezza ad altri collezionisti.

Matteo percorse via Roma in tutta la sua lunghezza ed esaminò ogni bancarella. Si soffermava sui quadri antichi, era in cerca di una bella marina o di un soggetto nautico che potesse onorare una parete del tinello.

Su un banco di cimeli i suoi occhi si soffermarono distratti. Quand’ecco comparirgli alla vista, dentro una scatoletta col fondo di velluto verde, un portachiavi d’argento a lui familiare: un ciondolo che reggeva una mezza medaglia. Il lato dritto della mezzaluna che ne derivava non era uniforme, ma zigrinato: era stato così concepito per accogliere un’altra metà, unito alla quale avrebbe formato un cerchio perfetto, una medaglia. Quello esposto era pertanto il risultato parziale di un piccolo marchingegno, una delle due copie gemelle complementari di un doppio portachiavi. Matteo lo afferrò d’istinto e lo esaminò da vicino. Mostrava in rilievo due stelline e, sotto la scritta “Amo”, vi era stato inciso a mano il suo nome.

Matteo conosceva bene quell’oggetto ed averlo rivisto dopo tanti anni lo costrinse a ripercorrere il suo passato, a rimodellare un episodio della sua vita che non aveva mai dimenticato.

Il mercante, intento a mangiarsi un tozzo di focaccia, notò il suo interesse, s’alzò dalla seggiola, si avvicinò deglutendo. Osservò il suo cliente con un’espressione bonaria, con qualche briciola sparsa sul maglione e sul mento.

Senza sollevarsi dalla posizione incurvata sul portachiavi, Matteo, con voce ferma gli domandò:
“Quanto?”.
“Trenta euro”, rispose il vecchio.
Matteo avrebbe speso molto di più pur di avere quell’oggetto. Gli porse tre banconote da dieci, prelevando con scrupolosa cura la scatoletta con il portachiavi:
“Non avete idea di chi possa avervelo venduto?”.
“Penso proprio di no” rispose, svelando il suo accento veneto.
“Non potrebbe fare una ricerca?”.
“Tratto mercanzia ogni giorno e non prendo nota di tutto”.
Matteo stava per andarsene sconsolato quando il vecchio lo richiamò.
“Ah, sì” gli disse “faceva parte di un blocco che ho prelevato in casa di una signora di Verona che voleva disfarsi di alcuni oggetti … E’ stato il mese scorso, mi pare”.
“E non mi saprebbe dare l’indirizzo o il nominativo?”.
“Era una donna sui quaranta, bionda, alta. Mi faccia pensare” il vecchio si stropicciò il naso con una mano e si impegnò a pensare, poi aggiunse: “Sì, era una villetta di via Ippolito Nievo, al numero 9, al di là dell’Adige … sulla strada per andare al Parco delle Colombare. Ma il nome non me lo ricordo proprio”.
“Le ha consegnato anche delle fotografie, oggetti personali?”.
“Ma lei perché s’interessa tanto, è un investigatore?”.
“Oh, no, sono soltanto convinto di aver conosciuto chi possedeva questo portachiavi”.
“Guardi, mi ha venduto dei soprammobili, dei piatti in ceramica di Bassano e delle stoviglie. Tra le posate c’era anche quello. Nient’altro”.
Matteo lo ringraziò. Ora non vedeva l’ora di fare una verifica. Prese di buona lena a camminare verso il parcheggio dove aveva lasciato la sua vecchia auto. La raggiunse, in sosta tra due platani, vi si accomodò con calma e confrontò il portachiavi della sua macchina con quello appena acquistato.
Erano identici e speculari. Combaciavano alla perfezione. Ora la medaglia era completa.
Sulla metà in alto a sinistra vi era la scritta in rilievo “Ti”, che si sposava con “Amo”, nell’altra metà. E sotto, sempre a sinistra vi era inciso “Ilaria”.
Dunque la lettura completa, coronata da stellette, era “Ti amo” e “Ilaria Matteo”.
Ebbe un sussulto, dominato com’era da quel tonfo nel passato.
Aveva sempre tenuto quel ciondolo come portachiavi di tutte le auto che aveva avuto, forse con la speranza recondita di ritrovare un giorno l’altro pezzo. Ora era quel giorno!

Bisognava che Matteo ritornasse con la memoria al 1980 per riconsiderare la storia che lo animava.

Matteo era un giovane assistente universitario, appassionato della roulette. Nei vari casinò non iniziava subito le puntate. Per vincere applicava il metodo dei ritardi. Si appuntava su uno specifico prospetto i numeri che man mano uscivano da quando era entrato fino a quando notava che vi era solo un carré in ritardo, o solo due cavalli in ritardo o, meglio ancora un solo numero non era ancora uscito. Si trattava in buona sostanza di un atteggiamento affine a quello del gioco del lotto, così attento ai numeri da molte estrazioni non ancora usciti. Un gioco di pazienza insomma. Ma al posto dei novanta numeri del lotto, nella roulette ve ne erano soltanto trentasette. Per cui l’applicazione di quel metodo risultava ben più efficace, ma cercava di evitare l’affollato Casinò di Venezia, essendo troppo lente le estrazioni, oltre cinque minuti per ogni tavolo. Avrebbe richiesto troppa pazienza. Perciò Matteo si era orientato sui casinò di Portorose e di Abbazia in Jugoslavia, dove le estrazioni, considerato l’esiguo numero di giocatori per ogni tavolo, non prendevano mai più di un minuto. Spesso Matteo vinceva e non perdeva mai più di quanto potesse permettersi di perdere.

Quel mese di luglio aveva deciso di prendersi una settimana di vacanza per frequentare quei due casinò e proseguire con un po’ di turismo ai laghi di Plitvice, e alle Grotte di Postumia. Tentare la fortuna in compagnia di un bel viaggetto. Avrebbe dovuto andarci con un collega di lavoro, ma poi quest’ultimo aveva dovuto rinunciare. Allora aveva preso la sua Mini Cooper grigia, col tettuccio nero ed era partito da solo. Matteo stava bene con se stesso e poteva fare a meno della compagnia. Se poi la compagnia l’avesse trovata lungo il tragitto non l’avrebbe disdegnata.

Superata la dogana di Trieste, entrò in Slovenia in una bella giornata di sole. Quand’ecco che a lato della strada, accanto a un cartello indicatore, s’avvide di una ragazza in jeans e maglietta, che agitava il pollice per richiedere un passaggio.
Matteo non esitò un istante. Accostò in tutta calma e si portò col finestrino accanto alle gambe di lei.
“Dove vuoi andare?” le domandò.
“Non lo so. Dove vai tu va bene. Basta andar via”.
Matteo uscì dalla macchina, aprì il bagagliaio e v’infilò il sacco di juta con il corredo personale della ragazza, che già si era sistemata sul sedile del passeggero e aveva chiuso la portiera.
“Io sono diretto a Portorose” le disse.
“Anch’io” rispose lei.
“Io sono Matteo e tu? Come ti chiami?”.
“Ilaria”.
“Bene, Ilaria, avevo proprio bisogno di compagnia. E’ da Brescia che viaggio in solitudine assorto nei miei pensieri”.
“Cosa vai a fare a Portorose?”.
“Oh, a Portorose sono di casa. Ci vado per giocare alla roulette e poi per farmi una bella vacanza distensiva, e tu?”
“Io che cosa?”.
“Tu dove sei diretta?”.
“Ovunque. Dove vuoi tu, se vuoi”.
“Sei anche tu in vacanza?”.
“Diciamo di sì, non ne potevo più di Verona”.
“Ma … a Portorose sai dove alloggiare?”.
“Non ne ho la minima idea, forse in un ostello”.
“Beh, se ti fidi di me, conosco una pensioncina sul mare, economica e piuttosto carina”.
“Non so se ho i dinari sufficienti per pagare”.
“Se accetti di condividere la stanza con me, non c’è niente da pagare. La camera è a due letti e il prezzo non dipende dal numero di persone”.
“Beh, in questo caso … “.
“A meno che tu non ti fidi di me, in fondo non mi conosci”.
“Hai una bella macchina, sei vestito bene, hai una faccia pulita. Perché non dovrei fidarmi? E poi sono tosta, non credere, se c’è bisogno mi so difendere”.
“Allora, per rompere il ghiaccio, fammi un sorriso, Ilaria. Da quando se salita a bordo sei sempre stata seria”.
“Appena ci sarà l’occasione, te lo farò”.
“Ah, bene, aspetterò con ansia”.
“Sono triste, Matteo, ma vedrò di accontentarti lo stesso” i suoi occhi verdi palavano con lei.
Matteo, dall’alto della sua fresca laurea in filosofia, sapeva che la tristezza è legata a un’occasione che l’ha provocata, a un fatto, a un evento contingente, a una persona. Ma che talvolta la tristezza nasce senza motivo, come un sentimento misterioso e indefinibile. E alcune volte si trova proprio dove non dovrebbe essere, all’apice delle nostra felicità. Spesso è necessario riflettere sul perché siamo allegri; ma sappiamo sempre perché siamo tristi. Cosicché aggiunse con garbo:
“Mi accontenterò anche di un sorriso ad occhi chiusi, purché mi sorrida”.
“Te lo farò con gli occhi aperti, quando ci saranno le premesse”.
“Posso chiederti che cosa fai nella vita?”.
“Ho appena terminato il liceo classico e ho intenzione di iscrivermi a lettere. Anche se …” e s’interruppe.
“Anche se?”.
“No, non è importante”.
“Ok, ecco il cartello, siamo a Portorose, ora cerchiamo la mia pensioncina”.
“Come si chiama?”.
“Villa Lili”.

La pensione era una piccola palazzina poco distante dal mare. Matteo entrò nel giardino con la sua mini e già la padrona si era presentata sulla soglia:
“Caro Matteo” disse allungando le mani per abbracciarlo “Ho riconosciuto subito la tua macchina. Un’altra puntata al casinò?”.
“Si capisce, Signora Enza”.
“E questa bella ragazza chi è, la tua fidanzata?”.
Visto che Matteo esitava nel rispondere in attesa di stabilire cosa dire, Ilaria lo precedette e rispose: “Sì, sono la sua fidanzata”.
“Oh, che bella coppia, sono contenta, su portate dentro i bagagli”.
Enza era una signora matura, molto affabile che aveva preso Matteo come un figlio.
Entrarono, aprirono la camera che era stata loro assegnata e vi entrarono.
Ilaria si buttò sul letto e si infilò le mani dietro la nuca.
“Hai davvero un bel seno, Ilaria”.
“Grazie, vedrò di farne buon uso”.
“Bene, come vedi ci sono due lettini. Tu ti sei già scelto il tuo. Ora per questa notte, se vuoi potremmo mettere in mezzo due cuscini in piedi in modo che tu possa fare i tuoi comodi senza che io ti possa vedere”.
“Hai paura di vedere una ragazza in mutande?”.
“Beh, non è vero che siamo fidanzati e poi lo dicevo per una delicatezza nei tuoi riguardi”.
Ilaria si sfilò la T shirt:
“Ecco le mie tette le puoi già vedere. Da queste parti si fa nudismo, no? Adattiamoci!”.
“Sei una meraviglia, Ilaria!”.
“E no questo non lo devi dire, è troppo da maschilista!”.
“Non sono un gay, Ilaria, ci tengo a fartelo presente”.
“L’ho capito e sei anche un gentiluomo, a quanto mi sembra”.
“Senti, ora ci cambiamo. Io mi devo preparare per il casinò. Per gli uomini occorrono giacca, camicia e cravatta. Per le donne ci vorrebbe un abito e un paio di scarpe da sera”.
“Questo non ce l’ho. Ho solo abbigliamento sportivo”.
“Allora, se vuoi venire con me, ti dovrai procurare un buon vestito”.
“No, Matteo. Tu vai pure, io mi farò un giro e ti aspetterò qui”.
“Bene, sono quasi le otto, mangiamo un boccone allo snack bar che sta qui di fianco e poi vado, ok?”.
“Ok”.
Ilaria si chiuse in bagno per un po’ e ne uscì sempre senza il reggiseno indossando una camicetta leggera, nero pece, con una rosa al centro e dei boccioli di lato. Ai lati era pizzicata dai capezzoli che la rendevano molto femminile.
I due mangiarono una pizza con un boccale di birra e alla fine un cicchetto di Slivoviza offerto dalla casa”.
Poi Matteo salutò la sua compagna sul lungomare, riprese la sua Mini e si diresse al Casinò, così come aveva stabilito.
Le ore passavano, si era fatta notte inoltrata, una notte stellata e senza luna, la compagnia del mare in primo piano. Matteo uscì dal Grand Casino Portorož con una cospicua vincita.
Di ritorno a Villa Lili, trovò Ilaria addormentata sul dondolo in giardino.
“Ilaria!” la svegliò scuotendola con entrambe le mani e con un sorriso raggiante sul volto “Ho vinto!”.
Ilaria aprì gli occhi con fatica e si alzò con leggerezza.
“Quanto hai vinto?”.
“Seimila dinari”.
“E quante lire sono?”.
“Sono circa duecentoquarantamila lire italiane”.
“Hai vinto una piccola fortuna, allora”.
“Abbiamo vinto, Ilaria, tu mi hai portato fortuna!”
“No, io non c’entro. Hai fatto tutto da solo. Mi fa piacere, ma ora andiamo a dormire”.
“In effetti, sono le due, ho sonno anch’io”.

Quei due dormirono come ghiri, immacolati come fratelli.

L’indomani ripartirono verso Rovigno, dove passarono un’amorevole giornata balneare.
La sera, in trattoria, con i visi pallidi dimenticati dal sole, Matteo non smetteva di ammirare il volto delicato ma un po’ triste di Ilaria:
“Ilaria, abbiamo passato un’altra giornata da fratello e sorella, del resto è giusto così. Io non ti conosco e tu mi nascondi il motivo che non ti lascia serena, dico bene?”.
“Si, è così, Matteo, ho dei problemi che vorrei tanto dimenticare, senza riuscirci. Questi problemi appartengono alla mia privacy, ti posso solo dire che sono scappata di casa per poter meditare, perché avevo bisogno di una pausa, di riflettere …”.
“Il fatto di aver incontrato me come l’hai preso, come un aiuto o come un aggravante?”.
“Tu sei un filosofo felice, Matteo, sono stata fortunata a incontrarti e spero tanto di essere contagiata dalla tua spontaneità”.
“Ecco una bella frase che, tanto per cominciare, ti fa fare un passo avanti”.
“Tu dici, Matteo?”.
“Ci conto!”.
Uscirono dalla trattoria e si incamminarono lungo il mare verso il motel dove alloggiavano.
Dagli occhi azzurri di Ilaria scendeva una lacrima che procedeva lentamente verso le sue labbra.
Matteo le si rivolse con un velo di pietà e le disse d’impulso: “Io non ti conosco, soffro anch’io senza sapere, senza chiedere, ma tu sei bella come un fiore e io sono attratto da te.
“Matteo, sì, baciami!”.

Quella fu una notte d’amore giovane, intenso, appagante e al mattino Ilaria si svegliò con un sorriso, il primo che Matteo avesse visto, dedicato a lui.
“Ilaria, ti voglio sempre così, sei ancora più bella ed io credo di essermi innamorato di me”.
“Matteo, tu questa notte mi hai saputo trasportare altrove, nel mondo del piacere e della felicità. Nessuno mi ha mai veduta così spoglia d’orgoglio, così vestita di estasi. Il mio sorriso spontaneo nasce da questo rinnovato ardore”.
“Bello, il rinnovato ardore! Ora abbiamo una settimana davanti. Quest’ardore lo sfrutteremo al massimo”.
Ilaria accarezzava il petto di Matteo e lo baciò qui e là come fa una gattina che ha cura dei suoi piccoli poi sollevò la testa per una riflessione: “Chissà perché gli uomini hanno i capezzoli, non devono mica allattare”.
“Penso che si tratti di una reminiscenza genetica, Ilaria, agli albori della sua evoluzione la differenza tra uomo e donna non era così marcata. D’altra parte anche il bambino, nel crescere nella pancia della mamma non ha subito il sesso. Ci vogliono alcune settimane perché ciò avvenga, ma il suo aspetto di essere umano è già consolidato. Alcuni animali, come le chiocciole e le lumache, ad esempio, non si sono mai evoluti e pertanto rimangono ermafroditi senza distinzioni sessuali evidenti”.
“Sei un naturalista?”.
“No, semmai un filosofo … e i filosofi studiano la vita.
“I filosofi mi fanno temere, Matteo”.
“Di cosa hai paura, Ilaria?”.
“Durante l’amore gli uomini, quando sono dentro il corpo di una donna, sembrano investire quel corpo di certi poteri particolari, ne sussurrano il nome in un modo che fa pensare a qualcosa di sublime, di irreale. Col tempo però sembra che cambino atteggiamento, come se dovesse essere chiaro che i corpi delle donne siano intercambiabili”.
“Non tutti gli uomini sono uguali!” replicò Matteo un po’ seccato.
Lei gli rispose con un bacio, poi lo fissò negli occhi e soggiunse:
“Lo spero tanto, mi aspetto di aver trovato in te un compagno leale”.

Il giorno successivo sostarono in un Motel di Icici, vicino ad Abbazia, dove si trovava il Casino Rosalija.
Nel pomeriggio Matteo acquistò un bell’abito da sera per Ilaria, un paio di scarpe intonate all’abito e una pochette. Cenarono nella nave ristorante Barba Rude ormeggiata nel porto di Fiume, quindi entrarono insieme nel casinò di Abbazia.
Anche quella notte Matteo vinse un cifra cospicua che poteva bastargli per il resto della vacanza.
Festeggiarono e brindarono con una bottiglia di spumante Tomac, nella loro camera. Poi Ilaria si lasciò spogliare lentamente dell’abito da sera da Matteo finché rimase nuda. Fecero l’amore con molta passione finché Matteo era sul punto di venire e stava per farsi da parte.
“No, no …“ disse Ilaria “Vienimi dentro, ti prego, è più bello …”.
“Ma è pericoloso” rispose Matteo con un sussurro.
“Ho appena avuto le mie cose, accontentami …”.
Fu un amore canonico, sublime, superlativo. I due si addormentarono così com’erano e trascorsero una notte in un sogno tanto bello che era la realtà.

L’indomani si svegliarono quando il sole era già alto e il mare risplendeva alla sorte, in uno stato di beatitudine, entro un bolla d’amore che racchiudeva la felicità.
Abbracciati nel letto, con gli occhi dentro agli occhi, Ilaria si aprì a un nuovo sorriso e mormorò: “Pensare che se io non avessi fatto l’autostop o tu non ti fossi fermato, non saremmo qui a goderci il paradiso”.
“Il destino non si scomoda quando lo speri o quando lo temi, ma quando meno te l’aspetti” le rispose Matteo e aggiunse “Ora abbiamo davanti tutta una vacanza, Ilaria”.
“Hai intenzione di giocare ancora al casinò?”.
“Sì, stasera”.
“E poi?”.
“Poi avrei in mente per noi un bell’itinerario: l’isola di Veglia, i Laghetti di Plitvice, Bled, Kranjska Gora e quindi, rientrare in Italia dal Tarvisio, che cosa ne dici?”
“Che è bellissimo, Matteo” e gli offrì le sue labbra in un bacio radiante.

Al mercatino di Fiume, si aggirarono tra le bancarelle e Matteo già adocchiava oggetti nautici di suo gradimento. Quand’ecco un artigiano, con delle monete d’argento o in silverplate, con in mano un incisore per riportare sulle monete qualsiasi parola il cliente gli chiedesse. Lo sguardo di Ilaria colse un doppio ciondolo: due mezze monete gemelle e contrapposte che, ravvicinate formavano, la scritta “Ti Amo”, ma, separate, dividevano il Ti da Amo. Chiese all’artigiano di incidere sulla prima metà il suo nome e nella seconda quello di Matteo. A lavoro terminato, volle pagare lei e porse al suo compagno la metà del manufatto con la scritta Ilaria.
“Quando ci separeremo, sapremo sempre che le due metà di noi continueranno a esistere per sempre”.
“Grazie, Ilaria, che bel regalo, lo userò subito come portachiavi della mia Mini, ma non voglio pensare a separarci, noi siamo fatti l’uno per l’altra, Ilaria”.
“Ne sei proprio sicuro?”.
“Oh, Ilaria, io so solo che voglio stare con te”.

Quella sera Matteo si stava preparando per il Casinò quando si accorse che Ilaria era rimasta in jeans.
“Véstiti, o faremo tardi” le disse.
“No, stasera non me la sento di venire, farò un giro in paese mentre ti aspetto”.
“Oh, mi spiace, vuoi che rinunci?”.
“No, per carità, abbiamo bisogno di un’ultima vincita” prese tra le mani il volto di Matteo, già ben vestito e incravattato e lo baciò con trasporto. Un bacio lungo e appagante, in un abbraccio come solo due innamorati all’apice della loro passione sanno fare.
“Aspettami, Ilaria, vedrò di sbrigarmi”.
Poi Matteo uscì in direzione del Rosalija.

Quella sera Matteo perse. Aveva dissolto quasi tutto quanto aveva guadagnato nelle precedenti escursioni.
Desolato tornò verso Icici. Era notte inoltrata.
“Non importa” si disse “Ho un angelo che mi aspetta e mi saprà consolare”.
Ma giunto al motel non trovò Ilaria. Il suo bagaglio era sparito dalla camere, come pure il necessaire nel bagno. Si guardò attorno angosciato alla ricerca di un messaggio, di un biglietto, di una traccia di lei, ma invano.
Allora si precipitò alla reception e chiese al portiere di notte se l’avesse vista.
“Sì, signore” rispose “Mi ha chiesto di fare una telefonata. Mezz’ora dopo l’ho vista uscire col suo zaino in spalla.
“C’era qualcuno ad aspettarla?”.
“Che sappia io no, nessuno”.
“Ha notato in lei qualcosa di cambiato dopo la telefonata?”.
“Sì, signore, mi è sembrata preoccupata e pallida in viso”.

Ora Matteo si torturava. Si spostò sulla spiaggia e si sedette su uno scoglio, accanto alla risacca, a rimuginare. Solitario dai tristi pensieri, Matteo sulla pallida spiaggia giaceva. La notte declinava verso l’alba. Il mare già recepiva sprazzi di porpora ardente. La ragazza di cui si era innamorato l’aveva lasciato senza una spiegazione. Non avrebbe neppure potuto rintracciarla, non ne conosceva il cognome, né l’indirizzo. Era sempre stato lui soltanto a consegnare il passaporto laddove alloggiavano e non aveva mai pensato di farle domande che riguardassero la sua anagrafica.
Ora si sentiva in bilico sull’orlo del mondo, di un mondo che l’aveva reso felice per tre giorni con la prospettiva di un futuro insieme. Il ricordo di un frammento di una vita così appassionante sfumava nella luce di un nuovo giorno. Matteo capiva bene ciò che aveva perduto, un sogno realizzato e in un lampo sparito. Era ritornato libero, così libero e affranto come non era mai stato, con il vento del mare che soffiava implacabile sulla sua vita. Stava già volando oltre l’orlo di un amore finito precipitando in un vortice doloroso mentre la sabbia gli scorreva tra le dita. Estrasse dalla tasca del suo abito da sera il portachiavi della Mini. Era la parte della medaglia rimasta a lui insieme con le chiavi della macchina. La sua mezzaluna riportava la scritta “Ti”, in alto, seguita dell’incisione a mano del nome di una donna fugace quanto indimenticabile: “Ilaria”. Era l’unica traccia rimasta a sigillare quel sogno.
Una lacrima disarmante scendeva lenta lungo il viso di Matteo …

Da quel giorno erano passati trentotto anni. Matteo non aveva mai dimenticato quei pochi giorni che mancavano alla sua vita, non avendo a disposizione alcun elemento per rintracciare Ilaria. La sua parte di medaglia era sempre rimasta con lui.

Finalmente però aveva un indirizzo ben preciso a cui affidare la speranza di capire cosa nascondesse quell’incontro fatale e quale mistero avesse causato quell’amore interrotto all’apice della sua passione.

Pochi giorni dopo, la sua smania di sapere era in gioco sulla Serenissima: destinazione Verona.

Erano appena passate le tre del pomeriggio quando arrivò al numero 9 di via Ippolito Nievo. Si trattava di una villetta beige, tra pioppi che svolazzavano al vento. La casa aveva la vista dall’alto del corso dell’Adige e della città vecchia. Fermò la macchina senza esitare e, stringendo nel pugno i due portachiavi, suonò al citofono del cancelletto.

Matteo non immaginava che da lì a poco la sua sorte sarebbe cambiata.

“Chi è?” si sentì chiedere poco dopo, da una voce femminile.
“Mi chiamo Matteo, sono un vecchio amico di Ilaria”.
“Ilaria chi?”.
“Non conosco il cognome, l’ho incontrata tanto tempo fa in Jugoslavia”.
“Sei fortunato ad avermi trovata in casa, di solito sono in negozio! Entra”.
Scattò l’apriporta automatico.
Con qualche esitazione Matteo aprì il cancelletto e prese per il breve sentiero che portava alla soglia di casa dove già era apparsa una donna bionda sui trentacinque.
Matteo le strinse la mano con un po’ di imbarazzo.
Lei lo scrutò da capo a piedi senza un minimo di pudore.
“Sei il Matteo che s’innamorò di Ilaria nell’estate del 1980?”.
“Sì, sì, sono proprio io” rispose un po’ emozionato.
“Ti aspettavo, ti ho aspettato per tanto tempo, sapessi quanto”.
“Veramente non capisco, noi non ci conosciamo”.
“Entra che ne parliamo con calma, è una lunga storia”.
Ancor più meravigliato, Matteo la seguì nel salotto.
“Vuoi un caffè?”.
“Sì è una buona idea, sono un po’ agitato”.
“Lo credo”.
Poco dopo erano entrambi seduti in poltrona l’una di fronte all’altro accanto a due tazze di caffè fumante.
“Come ti chiami?” le chiese Matteo.
“Cristina Rezzonico”.
“E hai a che fare con Ilaria?”.
“Come no? Ascolta con attenzione e capirai. Ma lasciami parlare perché la storia è lunga”.
“D’accordo, sotto tutto orecchie, Cristina”.
“Ilaria ha avuto una vita piuttosto travagliata. Suo padre era un imprenditore nel campo immobiliare. La famiglia stava bene e lei poté conseguire la maturità al Liceo Classico Maffei. Avrebbe voluto continuare gli studi, ma avvenne che suo padre andò incontro a un fallimento con bancarotta fraudolenta. Fu condannato a un paio d’anni con la condizionale, la sua vita era compromessa. Incominciò a bere e, una volta ubriaco, diventava violento. Si trasformò in un cinico alcolista. Era sul lastrico. Cominciò a picchiare sua moglie perché voleva che si prostituisse. Lei non aveva reddito, non sapeva come tirare avanti, ma preferì le botte alla prostituzione. Ilaria, come puoi immaginare, era sconvolta. Anche a lei chiese di prostituirsi, anche lei fu picchiata e umiliata. La loro famiglia era diventata un lager. La casa pignorata. E così avvenne per un paio d’anni. Finché un giorno perse a poker i risparmi che gli rimanevano. Per fortuna il suo creditore non era un tiranno, ma un opportunista sì. Gli disse che gli avrebbe condonato l’intera perdita e in più gli avrebbe dato una certa somma di denaro per tirare avanti se avesse concesso in sposa Ilaria a suo figlio Silvano, un ragazzotto di quasi trent’anni, impiegato alle poste che, per via del suo aspetto, piuttosto goffo, non aveva mai avuto una donna. Anzi appena ne vedeva una gli sudavano le mani e non era più in grado di smozzicar parola. Il creditore del padre di Ilaria voleva insomma dare una compagna a suo figlio che, da solo, non avrebbe mai trovato”.
“E Ilaria come reagì?” chiese Matteo che stava seguendo con fermento la narrazione di Cristina.
“Ilaria di quel ragazzo provava ribrezzo e pietà insieme. Chiese del tempo per rifletterci. Forse sarebbe stata disposta a sacrificarsi, pur di non vedere più sua madre così massacrata. Ma suo padre non glielo concesse. Ti devi fidanzare subito, hai capito? E’ l’unica via di salvezza per la nostra famiglia. Quel ragazzo è insignificante, lo so, ma è ricco e ci risolverà la nostra situazione economica. Devi collaborare!”. E al diniego di Ilaria, le mollò un ceffone. Era il mese di luglio del 1980. Durante la notte decise di fuggire. Aveva bisogno di pensare, di farsi una ragione di tutto questo oppure di andarsene da qualche parte, dimenticare tutto e tentare una nuova vita. Fu così che si diresse in Jugoslavia, coi pochi soldi che aveva, perché sapeva che lì il costo della vita era basso e forse avrebbe potuto mantenersi per un paio di settimane, dormendo negli ostelli. Nel frattempo avrebbe valutato se cercarsi un posto da cameriera o da barista e iniziare un nuovo percorso di vita.
“Ora capisco” sospirò Matteo in tutta spontaneità “A questo punto intervengo io!”.
“Proprio così. Tu accogliesti l’autostoppista che alla frontiera ti aveva chiesto un passaggio e te ne innamorasti. Il resto lo sai”.
“No, non so un bel niente, so solo cosa accadde in quei tre giorni, niente di più”.
“Proprio questo volevo dirti. Quando tu andasti al Casinò di Abbazia, Ilaria telefonò a casa e sentì la madre risponderle che aveva il volto tumefatto e un polso rotto perché non aveva saputo riferire a suo padre dove fosse andata. Lei non lo sapeva proprio perché Ilaria se ne era andata di notte senza lasciar detto nulla a nessuno.
A questo punto Ilaria le rispose che si sarebbe sposata con Silvano e di tener tranquillo suo padre. Sarebbe ritornata. Ti abbandonò perché non voleva coinvolgerti, non voleva coinvolgere la persona di cui si era innamorata. Ci soffrì un casino. Ma fu ripagata dalla mia nascita”.
“Che storia incredibile, Cristina! Tu non sai quanto mi sono tormentato …”.
“Lo immagino, conosco la storia dei due ciondoli che rappresentavano la vostra unione. Ma la metà di Ilaria non serviva più. Mamma è morta l’anno scorso di un brutto male, Silvano se ne era già andato al creatore da un po’ di tempo: sapevo che non era mio padre. Con gradualità e con tanta delicatezza mamma man mano che crescevo mi raccontò la vostra storia ed io sapevo di essere figlia tua anche se la speranza di conoscere mio padre era legata al lumicino. Tu non eri rintracciabile ed è per questo motivo che il mese scorso ho deciso di vendere il portachiavi, insieme ad altri oggetti dismessi, a un rigattiere. Ora dimmi, come hai fatto a rintracciare questa casa?”.
E proprio per via di questo ciondolo che ho riconosciuto subito su di una bancarella del mercatino di Castelleone”.
“Non l’avrei mai immaginato, dopo tanti anni ero convinta che non avrei mai potuto conoscere mio padre!”.
“Tuo, padre, cosa intendi dire?”.
“Che tu sei mio padre. Una volta in Jugoslavia, Ilaria aveva già pensato che per salvare sua madre avrebbe dovuto accettare quel compromesso. Ma non avrebbe mai voluto avere figli da quell’uomo, ma soltanto da un uomo che amava. E, miracolo dei miracoli, quell’uomo sei tu! Sapeva che quel giorno rappresentava il periodo della sua maggiore fecondità e ti indusse a fare l’amore senza protezioni”.
“Cristina, fu un amore stellare e tu ne sei il frutto! Cristina, non avrei mai pensato di avere una figlia, bella come te”.
Lei si alzò, abbracciò stretto stretto suo padre, e disse “E ti assomiglio pure tanto, papà!”.
“Sei una figlia bellissima, Cristina, il più bel regalo della mia vita”. Matteo la baciò con il cuore e con il cuore pianse le lacrime di una grande emozione.
“Aspetta, papà, c’è ancora una cosa, importante … La mamma, nella speranza seppur lontana che tu un giorno saresti venuto qui, prima di morire mi ha lasciato un busta sigillata da consegnarti. Ora la vado a prendere.
Cristina aprì un cassetto a gliela porse mentre Matteo si asciugava le lacrime con il fazzoletto.
Vieni, Cristina, leggiamola insieme, mettiti qui accanto a me.
I due si tennero stretti e lessero la lettera di Ilaria, una grande accorata dichiarazione d’amore per Matteo e per Cristina.

Dopo quanti anni d’infelicità il destino si commuove? È come se il destino ti desse una sola possibilità e concentrasse tutto dentro quel momento preciso …
“Il destino non si scomoda quando lo speri o quando lo temi, ma quando meno te l’aspetti, papà”. Le parole che Matteo aveva pronunciato quel giorno in Jugoslavia, entro una bolla d’amore, erano state riportate da Ilaria a Cristina.

Un padre all’improvviso e una figlia ritrovata stavano consacrando una nuova, possente ragione di vita.


Lascia un commento