"Le forbici" di Maria Teresa Bucco


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Cosa possiamo fare con un paio di forbici? Una cosa sola. Tagliare. E’ quello che fece il Sig. Pallini. Aveva un paio di forbici enormi. Gli venivano in eredità dalla nonna di sua moglie che aveva fatto la sarta a servizio di una nobildonna torinese ai primi del novecento. Erano morte tutte e due, la moglie, e ovviamente anche la nonna.
Le forbici erano rimaste a lui, passate di cassetto in cassetto, tra un trasloco e l’altro, tra una vita e l’altra. Aveva buttato via scatole e scatole di roba vecchia, riempito sacchi di carte, donato oggetti alle vicine, abiti ai poveri, ma le forbici erano sempre dove dovevano essere: nel cassetto del vecchio tavolo di cucina. Erano forbici singolari, argentate, eleganti, le dita si infilavano in occhielli ovali, decorati da fregi e riccioli, e lasciavano sulla mano una piacevole sensazione di freddo. A guardarle si aveva la certezza, forse per la lunghezza straordinaria delle lame, che il taglio dovesse sempre risultare perfetto, diritto, senza sbavature. Non ci faceva molto, diciamo che non ci faceva mai niente; non era tipo da cucire, o riparare indumenti, ma gli piaceva, ogni tanto, prenderle in mano, soppesarle, verificarne il filo. Gli piaceva pensare a cosa succedeva attorno a loro, quando lavoravano assiduamente tra le mani della nonna, nel beaudoire della casa borghese dove si cucivano lenzuola di lino fine, camicie da notte di satin, abiti da sera, mutandoni di mussola. Si immaginava i chiacchiericci delle servette, i pettegolezzi, i capricci, i dispetti, i bambini riacciuffati dalle baby sitter, gli odori del cibo che contunuamente veniva preparato nella cucina vicina.
In un giorno di primavera, di buon mattino, mise le forbici nella borsona di pelle che usava quando faceva il postino, e se ne andò sul ponte romano alla periferia del suo paese di montagna. Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, ci si preparava da anni, e quando si alzò capì che era quello. Si avviò senza fretta, godendosi l’aria frizzante delle prime belle giornate, sentendo con eccezionale lucidità i profumi di un marzo asciutto, dell’erba nuova, dell’acqua del torrente, dello sterco delle mucche al pascolo.
Anni fa, quando aveva acquistato quel biglietto, sperava, come tutti, in una vita migliore. Sognava una nuova macchina, o una nuova casa, o una vacanza milionaria, o il ritiro anticipato dal suo lavoro. Quando seppe che lo avevano estratto, per poco non si ammalò per l’emozione, ma si prese tempo e non ne parlò con nessuno. Non voleva commettere errori o farsi influenzare da altri, nemmeno da sua moglie. Analizzò con cura maniacale ogni aspetto della sua vita, per intervenire con intelligenza dove serviva. Ora che aveva a disposizione un bel gruzzolo, poteva decidere con calma, senza lasciarsi prendere da stupidi entusiasmi puerili. Si prese talmente tanto tempo, che quel biglietto era ancora nella tasca interna della giacca da caccia, e lui non cacciava più da 20 anni. Dentro di sè non ci aveva messo molto a capire che il suo lavoro gli piaceva, e non sarebbe stato facile consegnare le posta ai suoi compaesani, senza sollevare commenti ostili sulla sua imprevista fortuna. E la casa, era davvero da cambiare? Per andare dove, e per metterci cosa? Non gli serviva altro se non quello che lui e Emma avevano messo insieme in anni di attenti risparmi, e proprio per questo ogni oggetto aveva un valore speciale, che niente avrebbe potuto sostituire. La chimera della vacanza non era cosa loro, che trovavano serenità nelle abitudini e nella routine, e non avrebbero dormito bene in un letto diverso. Cambiare l’auto poi era da scartare immediatamente: un gesto talmente sfacciato che non avrebbe saputo spiegare, se non con delle menzogne. La malattia che si sarebbe portata via Emma si era affacciata proprio in quel periodo, non era il caso di agitarla con novità sconvolgenti. Nel frattempo i soldi si erano svalutati, ora ci avrebbe potuto fare ben poco, ma non era questo il motivo che lo spingeva sul ponte. Quei soldi erano stati importanti, anche se chiusi in un biglietto mai riscosso. Gli avevano spiegato in modo limpido e chiaro che lui era felice, con la sua Emma, la sua casa, il suo paese, e non gli mancava niente.
Era arrivato il momento di aggiustare il conto che aveva in sospeso con la vita. Quando fu sul ponte, aprì la sacca, prese le forbici e tagliò il biglietto della lotteria in minuscoli pezzettini che finirono nel torrente: sparirono in pochi minuti cinquecento milioni delle vecchie lire, una vera fortuna di cui avevano parlato i notiziari nazionali, mentre la valle si riempiva di giornalisti venuti a scovare il nuovo fortunato. Ma lui niente, non una parola, non un gesto. Il caso si era sgonfiato nel giro di poche settimane, e tutti erano rimasti con un palmo di naso.
Pallini tornò a casa e si preparò la solita colazione: caffè, latte caldo e miele versati su una spessa fetta di pane che il giorno prima lasciava a seccare sul tavolo. Più tardi sarebbe andato al leggere il giornale al bar di Franco; in cambio gli avrebbe portato uno delle uova appena trovate nel suo piccolo pollaio, per un tacito accordo grazie al quale evitava di comprare consumazioni di cui non sentiva il bisogno. Tutti i giorni così, serenamente, fino alla fine.


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