"L'eterno presente" di Fabio Mundadori


“L’esperienza più dolorosa per un uomo è ricordare il futuro, specialmente il futuro che non si potrà mai avere”
Søren A. Kierkegaard

È stato molto peggio.
Non mi hanno preparato all’incubo di un corpo paralizzato: nei primi istanti del risveglio anche le palpebre sono sembrate foderate di piombo. Aprirle ha richiesto uno sforzo sovrumano, ma necessario a permettere alla fioca luminescenza della culla di riattivare la retina dopo decenni di oscurità
Lentamente mi sono riappropriato di ossa, muscoli, cuore, polmoni, vene, capillari, pelle, braccia, gambe, mani, piedi… dita, fino alla prima contrazione muscolare volontaria che più di ogni pensiero razionale significa vita.
Ora, devo solo sperare che i meccanismi messi a punto dalle migliori menti scientifiche al servizio del fascio, funzionino a dovere anche dopo quasi settant’anni.
Sposto appena le dita e trovo subito le piccole leve: azionate nella sequenza corretta mi libereranno da questo guscio senza il quale non avrei potuto attraversare decenni di storia e sopravvivere sotto invecchiamento controllato dal 1939.
Respiro a fondo: è il momento, ora devo solo ripetere la combinazione, così come l’ho provata migliaia di volte.
Molti anni fa.

– Professore, perché costringermi a ricordare una combinazione precisa? Quando e se mi rianimerò avrò altro cui pensare. Potrebbe bastare una leva sola…
– No. Dobbiamo essere sicuri che il tuo cervello non risulti danneggiato.
Anulare,
– Questo delle levette sarà un test sufficiente. Richiede memoria,
indice,
– coordinazione,
medio,
– precisione!
ancora indice.
– Avrai a disposizione due soli tentativi;
Nulla!
– se sbaglierai
Eppure ne sono certo: la sequenza è corretta;
– la culla si riempirà di acido
la compongo di nuovo, nello stesso preciso ordine.
– e la fase finale del progetto M finirà con te.
Trattengo il respiro, ormai mi aspetto solo che il liquido mortale ponga fine a questa vita appena ricominciata.
– Non ci serve un agente incapace di portare a termine la missione. Questo è quanto.
Invece, accompagnata da sinistri scricchiolii, la parte superiore del guscio ruota sui cardini incrostati dal tempo.

Facendo leva sugli avambracci riesco a mettermi seduto, tutto sembra aver funzionato come previsto.
Fissati con ventose di gomma alla mia pelle, elettrodi che con le loro micro scariche elettriche a bassa tensione hanno mantenuto attivi i muscoli. Ora non servono più, li stacco uno a uno.
Poso a terra prima una gamba poi l’altra, le ginocchia cedono senza preavviso, solo le mani protese in avanti evitano al volto di colpire il pavimento freddo.
Il cervello continua a ripetermi che mi sono svegliato da una dormita, magari pesante, in realtà ben settant’anni sono trascorsi dall’inizio del letargo dal quale sono appena tornato.

– Tu non sei solamente “stato scelto”. Sei il prodotto di un’accurata selezione genetica. Sei il risultato finale del progetto militare Progenie M!
Mentre parlava, il professore gli camminava attorno, lui stava immobile in piedi, gambe divaricate e mani dietro la schiena, nella posizione marziale di “riposo”.
Sì, perché lui era un soldato, Il Soldato, il Milite Definitivo come l’aveva soprannominato il Duce stesso. Ciò che avrebbe dovuto essere l’arma finale del fascio littorio. Ma i risultati erano arrivati troppo in là nel tempo e nonostante la grancassa trionfalista della propaganda, tutti erano ormai consapevoli che le sorti dell’Italia volgevano verso altre chine molto più accidentate. E quindi…
– Tu sei stato “progettato” per combattere. Così come si progetta un albero per dare mele più succose, o delle spighe affinché diano più grano. Ma il destino che la storia ti ha riservato è un altro. Vieni, seguimi.
Preceduto dallo scienziato si diresse verso un portellone a chiusura stagna in tutto simile a quelli che si trovavano a bordo dei sommergibili. Ai due lati due guardie con un’uniforme che solo lui e pochi alti funzionari del fascio potevano dire di aver mai visto.
Il professore fece un cenno, uno dei due abbandonò il posto di guardia, ruotò il volantino di chiusura e spalancò il portellone. Davanti ai suoi occhi si mostrò per la prima volta quella che il suo mentore chiamò, mentre la indicava estasiato con la mano,
– La Cripta del destino!

A fatica riesco a issarmi di nuovo sul bordo della culla, la guardo: sembra un enorme mollusco bivalve. La sua superficie verdastra e opaca attraversata da una intricata trama di tubi e tubicini di vetro, mi affascina ancora come la prima volta che la vidi, anche se allora era del rosso lucido e caldo del rame giovane. Altri tubi, di diametro maggiore e in metallo brunito si ripiegano e curvano più volte, disegnando labirinti impossibili da seguire con lo sguardo mettono in collegamento blocchi sparsi di valvole termoioniche la cui luminescenza è l’unica fonte di luce all’interno della Cripta del destino.
Grossi fasci di cavo gommato si staccano da ognuna delle due valve del “guscio” andando a confluire nell’imponente blocco che occupa tre delle pareti della cripta stessa: una gigantesca batteria.
Le forze poco alla volta stanno tornando, mi rimetto in piedi: come previsto, il metabolismo si sta riprendendo il proprio ritmo; da ora il tempo che ho a mia disposizione comincia il suo conto alla rovescia.
O forse no, quello cominciò molti decenni or sono.

– Domani, Muzio, sarà un giorno importante!
In quel ricordo i capelli del professore erano un po’ meno bianchi, con screziature di ciocche grigie che in alcuni punti sfumavano in un nero ancora corvino.
– Faremo una bella gita poco lontano da Roma e là assisteremo alla posa della prima pietra di una nuova città, ma tu sarai molto di più che semplice spettatore! – sorrise – Vedrai!
Poco più di un bambino, camminava al fianco del professore che lo guardava dall’alto verso il basso. Percorrevano un lungo corridoio: da un lato con ampi finestroni che davano su un cortile interno, dall’altro busti di marmo con le sembianze di papi e alti porporati che lì avevano vissuto in passato, o almeno così gli avevano detto.
In fondo al corridoio si fermarono davanti a una porta.
– Tra pochi istanti incontrerai qualcuno che vuole parlarti. Qualcuno che, di solito, non riceve dodicenni. – sorrise sornione.
Oltrepassarono la porta e si trovarono in un disimpegno antistante un massiccio portone; il professore si mise di lato e lo aprì.
La sala che si estendeva al di là della soglia era enorme, aveva pareti ricoperte da sontuosi affreschi, unici arredi una massiccia scrivania e un candelabro.
Al centro, in piedi, lo aspettava un uomo tarchiato vestito completamente di nero, dallo sguardo corrucciato. Sentì appena sulla schiena, la mano del professore dargli la spinta necessaria a entrare. Poi udì solo il portone chiudersi, alle sue spalle.

Non ho mai riferito a nessuno, nemmeno al professore, il contenuto del colloquio che ho avuto quel giorno con colui che, solo dopo, seppi essere Mussolini stesso.
Non l’ho fatto a prescindere dall’ordine che me lo vietava, ricevuto proprio dal dittatore un attimo prima di essere congedato: subito ho avvertito l’importanza delle parole del Duce, ma solo ora, che la mia missione sta per compiersi, posso comprendere il perché della mia esistenza.
Poco distante da me un armadio in metallo, lo apro; dentro trovo una tuta grigia priva di insegne da pilota militare, sufficientemente anonima da poter essere indossata per breve tempo senza attirare troppo l’attenzione.
Il fisico risponde già molto meglio, guardo la mia immagine riflessa nello specchio interno all’anta. Avevo vent’anni quando mi hanno rinchiuso qua dentro e ora ne dimostro sì e no una trentina. Capelli e barba non sono cresciuti: uno degli effetti del metabolismo rallentato.
Con il pettine che trovo nella tasca sistemo i capelli e mi dirigo verso il portellone a chiusura stagna. La combinazione e il sistema di apertura sono gli stessi della culla: posiziono le levette nel medesimo ordine poi ruoto il volantino.
Sono di nuovo libero.
All’esterno della Cripta del destino i settant’anni sono trascorsi inesorabili e tutto è in rovina, le pareti di quella che era una sorta di anticamera sono franate in più punti.
Accendo la torcia a dinamo in dotazione, non senza difficoltà riesco ad arrivare dalla parte opposta dove trovo il montacarichi che mi farà risalire in superficie: un semplice pianale di legno collegato a un argano a mano; tutto sommato sembra ancora in buone condizioni.
La salita termina in un buio e anonimo scantinato, con la torcia individuo i gradini di pietra che mi condurranno fuori di qui.
Tutto è come ricordo, la ripida scala finisce sotto una botola, c’è da augurarsi che frattempo nessuno l’abbia sepolta o, peggio, murata.
Preoccupazione inutile, alla terza spallata il legno cede e la luce mi colpisce gli occhi con tutta la violenza della quale il sole è capace.
Chi dovesse guardare nella mia direzione vedrebbe un operaio uscire da un chiusino di servizio che si apre nel mezzo del prato attorno la Villa Inglese nei pressi del lago Fogliano.
Scavalco lo steccato che circonda il prato, mi dirigo verso la strada. Con un po’ di fortuna otterrò un passaggio da qualcuno che mi porterà a Littoria.

– Littoria sarà il suo nome.
L’Alfa Romeo 1500 con la livrea nera lucente sobbalzava sulla strada sterrata. Al di là del finestrino, in pochi chilometri, i campi di grano maturo appena fuori le porte di Roma avevano lasciato posto a distese di terra smossa, popolate di operai che scavavano e spingevano carriole colme di altra terra.
Il professore sedeva accanto a lui sui sedili posteriori, mentre un soldato in uniforme teneva saldo il volante al posto di guida.
Il colloquio con il Duce nella Sala del Mappamondo a Palazzo Venezia era avvenuto solo il giorno prima ma Muzio, ugualmente, lo guardò incuriosito.
– La nuova città si chiamerà Littoria. Tra poche ore assisterai alla posa della prima pietra. È importante che tu sia presente.
Sì lo sapeva, Mussolini stesso gli aveva detto cosa si aspettava da lui, e anche del perché avrebbe disertato la cerimonia. La versione ufficiale avrebbe tratteggiato un “Duce fortemente contrario al progetto”, tanto da imporre il silenzio totale alla stampa. Ma le cose non stavano proprio in quei termini. C’era il bisogno che quell’evento preciso passasse quasi inosservato.

– Erano anni che non mi capitava di sedere accanto a un bel ragazzo come lei, sa!?
Non saprei dire quanti anni possa avere questa donna, di certo lascia scoperta più pelle di quella che l’età consentirebbe.
Il tutto è reso più complesso da quelle labbra esageratamente gonfie e lucide. E gli occhi? Quasi appesi alle tempie, dischiusi in fessure da sembrare frutto di patrimoni genetici orientali.
– Nonna per favore! Lascia stare il signore, non lo vedi che viene da fuori?
– Macché da fuori! Questo mi ricorda tanto i ragazzi dei tempi miei con tutte le cose al posto giusto! Mica quelli di oggi che non si sa bene che sono! – poi avvicinandosi e abbassando la voce – Ma li ha visti mai a quelli? C’hanno le sopracciglia rifatte!
– Nonna! Basta!
La giovane al volante ostenta una bellezza priva di difetti, senza dubbio prodotto della scienza genetica del fascio. Forse gli stessi studi che consentirono la mia genesi, hanno permesso la creazione della bellezza perfetta di razza italiana.
– Ma no signorina! Che dite! È così simpatica vostra nonna!
– Ma lo stai a sentire?! Del voi! Ah, quanto tempo che non sentivo un giovane rivolgersi così a una donna! Date retta a me giovanotto! Voi sì che sareste l’uomo giusto per mia nipote, mica quelle mezze femminucce che ogni tanto si carica…
– Nonna!
Sorrido. Ma qualcosa non torna: tutto qui è troppo colorato, troppo lucido. Anche questa auto che porta sul muso il glorioso biscione, è troppo poco essenziale.
Mi aspettavo il progresso, nuove forme di tecnologia: sono stato preparato, ma quello che vedo è tutto “troppo”. Il Duce è morto ormai da tempo, ma il fascismo? Non avrebbe dovuto proseguire nel solco tracciato dalle sue parole?
La strada di campagna sta per finire, in lontananza la città, sono certo che là ritroverò i segni di quell’ideale che sono orgoglioso di servire.
Poi lo vedo, e comprendo che non tutto deve essere andato come ci si aspettava: davanti ai miei occhi il cartello che annuncia l’inizio della città.
I grossi caratteri neri su fondo bianco dicono LATINA.

Il Quadrato, poco più di un fazzoletto di terra selvaggia, appena civilizzato dall’urbanistica essenziale all’uso degli operai e dei tecnici idraulici impegnati nelle opere di bonifica, stava per assurgere a centro, cuore e anima di una nuova città.
Contrariamente a quanto ordinato da Mussolini, il commissario Orsolini Cencelli, per celebrare la posa della pietra di fondazione, aveva organizzato una vera e propria cerimonia.
– Ci sono proprio tutti – disse il professore indicando con un cenno del capo il palco affollato di personalità civili ed ecclesiastiche.
Più in basso, appeso a un paranco con una grossa catena, un blocco di marmo penzolava sospeso a pochi centimetri dallo scavo delle fondamenta.
Tutto intorno la folla gremiva ogni angolo a disposizione, la gente saliva fin sopra i tetti delle baracche e sui pali che avrebbero sostenuto i cavi dell’energia elettrica. Decine di bandiere tricolori con lo scudo sabaudo coloravano l’aria accanto a cartelli che dicevano “W IL DUCE”. Un Duce inspiegabilmente assente.
Muzio si sentiva confuso ed eccitato, attorno a lui tutti sgomitavano per vedere, e lui era lì a pochi passi dal cuore dell’evento.
– Figliolo, tra poco toccherà a te – gli sussurrò a un orecchio il professore.
Il chiacchiericcio assordante sfumò prima in un mormorio poi in silenzio, quando il commissario Cencelli prese la parola e cominciò il proprio discorso. Un applauso scrosciante seguì alle ultime parole del presidente dell’O.N.C.
Il cardinale benedì con solennità la pietra, mentre la catena si srotolava calandola nello scavo.
– Va’!– disse il professore – E mi raccomando, ricorda ciò che devi!
Con le gambe che tremavano per l’emozione fece un passo in direzione della pietra appena posata. Accanto a lui comparvero, quasi dal nulla, altri due bambini che riuscì a vedere appena. Le istruzioni erano state chiare: non doveva distrarsi, doveva concentrarsi con attenzione sulla pietra. Doveva cercare… sì! Eccola! Proprio accanto all’incisione che diceva OPERA NAZIONALE COMBATTENTI su uno dei lati del blocco. Poi prese della terra da una carriola e ne gettò una manciata nella buca. Tutt’attorno altri applausi si levarono e lui ritornò a fianco del professore. Gli altri due ragazzini erano di nuovo scomparsi. Ma forse se li era solo immaginati.

Littoria non c’è più. Il Partito Nazionale Fascista è stato messo fuori legge e il Duce ucciso. L’Italia annoverata senza una spiegazione apparente tra i vincitori di una guerra che ricordavo ormai persa.
Cammino per le vie di questa città che non riconosco, qui tutto è cambiato: i marmi bianchi del Palazzo M ingrigiti dal tempo e dall’ incuria, il viale di palme che conduce alla chiesa di S. Marco sostituito da un’anonima strada costeggiata di palazzoni, l’Opera Balilla trasformata in un museo. La babele di veneto ed emiliano soppiantata da una lingua a metà tra romano e partenopeo.
L’italiano deturpato dagli idiomi dei nostri nemici.
Per strada, mescolata a gente normale, altra che sembra appena uscita da un incubo di Salgari, con creste, chiodi conficcati nelle narici, catene e borchie cucite sui vestiti e nell’aria un senso di eccesso, di ostentazione a tutti i costi.
Quasi all’improvviso si apre davanti a me Piazza del Popolo.
Ricordo questa stessa piazza straboccante di folla il giorno dell’inaugurazione di Littoria e l’emozione, potente, mi assale.

Il Duce quel giorno, di dicembre, era là a benedire con la sua presenza l’esistenza di quella città nuova.
Questa volta la stampa aveva dato un risalto eccezionale all’avvenimento, sull’onda della propaganda propugnata dal P.N.F. stesso.
Molti si chiedevano come fosse stato possibile un cambio di rotta così repentino da parte di Mussolini che in soli sei mesi era passato dal bollare il nuovo insediamento come un borgo rurale, all’esaltarlo come la nuova grande città del Novecento.
Come al solito la verità si trovava nella risposta più semplice, quasi ovvia. Se era stato necessario che la posa della prima pietra passasse sotto silenzio, dare all’inaugurazione una tale eco contribuiva a minimizzare ulteriormente l’evento di sei mesi prima. Muzio sapeva che tutto ruotava attorno a quella prima pietra; ma in quel 18 dicembre 1932 non gli era ancora dato sapere in funzione di che cosa.
Mussolini terminò il discorso e la piazza esplose in un “Duce! Duce! Duce!”

Piazza del quadrato. Dove tutto ha avuto inizio, dove tutto finirà.
Come in un organismo vivente, la prima cellula che diede vita alla grande città è stata inglobata fino a diventare solo una piccola parte di essa.
A meno di un centinaio di metri da me il palazzo dell’ Opera Nazionale Combattenti, eretto sulla pietra di fondazione. La stessa che ho visto calare, nel terreno strappato alla palude, quasi ottant’anni prima. La stessa pietra che ora devo ritrovare per continuare a vivere, perché il mio mandato abbia compimento.
Il giallo delle luci allo iodio dà alla notte un colore quasi rassicurante; unico suono nella piazza deserta il gorgoglìo dell’acqua che zampilla dalle cannule della fontana con il “Monumento al bonificatore”.
Attraverso a passo spedito prima la piazza, poi il largo viale che la delimita a est, fino a trovarmi ai piedi della scala di marmo che sale al palazzo dell’O.N.C.
Il portone a quest’ora della notte è chiuso. Ma io so come entrare e raggiungere le fondamenta. Devo solo sperare che il meccanismo nascosto nella cornice attorno al portone funzioni ancora.
Salgo le scale appoggio la mano sulla colonna di marmo alla mia destra. Il blocco che cerco dovrebbe essere più o meno all’altezza dei miei occhi.
– Fermo! – intima una voce alle mie spalle.
Il rumore di un proiettile che viene messo in canna rimbalza nell’aria.
– Molto bene, sei dunque tu l’altro! Il protetto del Professore!
Mi giro in direzione della voce.
– Lentamente! – mi ammonisce.
Obbedisco e quando incrocio i suoi occhi, nelle mie vene il sangue si ferma.
E non perché in pugno stringe una Beretta M34.

– Domani, Muzio, sarà il tuo grande giorno. La tua vita, così come l’hai vissuta fino a oggi cesserà di esistere.
Il professore aveva di nuovo tutti i capelli bianchi e lui, adulto, seduto su di una sedia di metallo ascoltava chi fino a quel momento gli aveva fatto da padre.
– Sei stato preparato, in questi anni, al lungo periodo che passerai in uno stato di metabolismo rallentato. Ti ho parlato di come il tuo corpo sia concepito, grazie a studi genetici avanzati, per sopravvivere in quella condizione. Una condizione nella quale rimarrai settant’anni.
Sappi che il tuo corpo, poco dopo il risveglio, comincerà a degenerare in fretta. Per questo sarà fondamentale che tu raggiunga la pietra di fondazione quanto prima.
Come ben sai si tratta in realtà di un blocco cavo al quale tu solo avrai accesso e che solo tu potrai aprire. Al suo interno troverai ciò che ti servirà per arrestare l’invecchiamento accelerato e il necessario che ti permetterà di far sì che il fascio possa, anche in quel futuro, governare le sorti dell’Italia.
Come potrai immaginare, non possiamo sapere che situazione politica troverai al tuo risveglio, ma confidiamo nel tuo addestramento e nelle tue capacità. Hai domande?
Muzio si limitò a un cenno di diniego.
– Bene. Ora va’ a prepararti. Non abbiamo molto tempo.

– Eccolo qui Muzio B! – segue una risata.
– Chi sei?
– Dovresti conoscermi bene, no?
Non sbaglia, è identico a me in tutto e per tutto.
– Ma non mi dire! Non ti hanno raccontato nulla! – ride ancora.
– Non hai risposto alla mia domanda.
– Io sono Muzio C, o forse sarebbe più corretto dire MU710C! Sì perché tu sei MU710B.
– Che vai farneticando!?
– Davvero pensavi che affidassero un compito così vitale a una sola persona? Che rinunciassero alla loro ossessione per la selezione della razza? Fratello mio, là dentro entrerà solo uno di noi due, perché l’antidoto alla degenerazione è per uno solo: il migliore!
– Non posso credere che abbiano fatto questo. – mormoro.
– Certo che no, tu sei il clone buono, il prodotto del Professore!
– Clone?
– E come lo chiami uno che è stato generato in serie? Oh, certo, forse starai pensando che tra il 1930 e il 1940 la genetica fosse abbastanza progredita per progettare esseri umani, ma non per clonarli.
Non dico nulla.
– È troppo ovvio pensare quanto sia più facile “duplicare” che “creare”! Fa troppo orrore accettare che gli scienziati del Progetto M abbiano condiviso gli esperimenti dei campi di concentramento nazisti! Lontani dalla perfezione certo, in fondo la sindrome degenerativa è un effetto indesiderato. Ma rimediabile!
Sul suo volto si notano i primi effetti visibili della degenerazione: partendo dagli angoli degli occhi, profonde rughe scavano la carne.
Rabbrividisco al pensiero che lo stesso male si sta facendo strada nel mi corpo, ma chiedo – Perché clonarci?
– Domanda sbagliata, fratellino! Quella giusta è clonare chi?
– Dunque, chi?
– MU710, sette sta per settima generazione, dieci per decimo livello di selezione e MU…
– …Mussolini…
– Vedo che cominci a entrare nell’ingranaggio. Tu sei il clone B, io il C. E l’A? Beh! Temo ce lo siamo perso! Chissà, sciolto nell’acido o forse sepolto vivo! Oppure, forse, ho sabotato la sua culla. Chi può dirlo? Ora siamo io e te: il buono e il cattivo!
– Il buono e il cattivo?
– Sì. Io, te e MU710A siamo identici in senso assoluto: tutti con i geni del Duce in corpo, ma cresciuti, addestrati secondo filosofie differenti. Il tuo Professore ti ha formato nel solco della scienza, della ragione.
– E tu, come sai tutte queste cose?
– Chi ha seguito il mio addestramento è stato un ufficiale dell’OVRA, il colonnello Marzorati. Mi ha insegnato, ancor prima delle arti della guerra, che la più letale delle armi è l’informazione. Come poteva non mettermi in condizione di vantaggio su di voi fornendomi ogni dettaglio del progetto?
– Avete barato.
– Sì. Ma non lo saprà mai nessuno – MU710C solleva il cane della pistola e mira al mio cuore.
Per nulla impressionato cammino verso il mio gemello, lui con un sorriso feroce preme il grilletto, che però non si muove di un millimetro.
Nessun proiettile esce dall’arma.
Sotto il suo sguardo esterrefatto, allungo la mano e gli sfilo la pistola dal pugno.
Non sono più io il bersaglio.
– Ma come… Sapevi che non avrebbe sparato!
– Beretta M34, – soppeso la pistola nella mano destra – un’arma eccezionale. Ma con un piccolo difetto, ha un meccanismo di sicura molto elementare, agisce sul blocco del grilletto. Se la manutenzione non è perfetta tende a incepparsi.
Ho giocato sul fatto che in questi anni tu non avessi avuto molto tempo per occuparti della salute di questo giocattolino. – ora tocca a lui, il clone C, fissare la canna dell’arma puntata al suo volto. – Un problema al quale si ovvia con facilità. Vedi? Basta mettere e togliere la sicura e il grilletto è libero.
Questa volta l’arma spara e un fiore rosso si apre sulla fronte di MU710C.
Adesso davvero più nessun ostacolo si frappone tra me e il mio obbiettivo. Devo solo azionare il meccanismo che aprirà l’accesso che porta alle fondamenta del palazzo, una volta là sarà sufficiente porre la mia mano sull’incavo corrispondente, quello che ho visto il 30 Giugno 1932, e lo “scrigno” si aprirà.
Poi, all’improvviso tutto mi è chiaro, come ho fatto a non capirlo!? La mia mano è la chiave di tutto.
Quando prepararono il meccanismo di apertura io ero un bambino, le dimensioni della mia mano erano molto diverse da quelle attuali. Solo se avessero avuto la certezza di come sarebbe cresciuta avrebbero potuto creare un meccanismo funzionante.
E lo sapevano. La mia mano e quella di Mussolini avrebbero avuto stesse fattezze e dimensioni stessa conformazione: sono una il clone dell’altra.
Ora lo so, sono stato la pedina di un gioco, manovrato proprio da chi rappresentavano la mia fede e i miei ideali.
Forse non vale darsi pena per questo futuro impazzito.
Ma io posso ancora ottenere una vittoria tutta mia, capace di spiazzare chi ha giocato con il mio futuro: morire.
Devo solo lasciare che il processo degenerativo faccia il suo corso.
Siedo sulle scale e aspetto che il tempo si riprenda quanto gli è stato tolto.
Epilogo

Il suo maestro lo ripeteva sempre.
“Muzio, il tempo non esiste… è una semplice convenzione, l’ossessivo desiderio dell’uomo di controllare anche il susseguirsi degli eventi. Il prima e il dopo sono concetti che hanno un senso se li leghi a un momento particolare, altrimenti sono solo avvenimenti.
Passato, futuro: quale dei due si compie prima?”
Nessuno può dirlo.
E così, se il guscio si apre nel momento giusto, ma qualche ora dopo rispetto agli altri due, ecco che il futuro cambia.
MU710A si preoccupò di cancellare ogni prova dell’esistenza degli altri cloni. Poi premette il blocco giusto sulla cornice attorno al portone del palazzo dell’O.N.C. Nel prato che si estendeva appena sotto il palazzo, un’intera zolla di terreno si spostò di lato, mostrando una scala di pietra che conduceva direttamente alle fondamenta.
Un gradino dopo l’altro, Muzio A andò incontro al suo nuovo futuro.


Lascia un commento