“Liberami” di Elisabetta Miari


E se morissi? No, sarebbe troppo bello, troppo facile. La vita vuole che continui a soffrire, lentamente, costantemente. Uno stillicidio senza soluzione di continuità, per pagare colpe ancestrali delle quali non sono neppure  a conoscenza.
Come per Tess d’Uberville, la vita vuole divertirsi ancora un po’ con me prima di lasciarmi andare.
Eppure c’è stato un periodo nella mia vita dove ero pieno di speranza e di amore.
Ora in questo letto di ospedale, hospice per la precisione, il senso di queste parole mi sfugge, così come tante cose della mia vita, ma non lei.
Lei la ricordo fin troppo bene, fa parte della sofferenza, la sua assenza nel mio mondo ovattato è un dolore sempre costante, un compagno di camera invadente.
Ho il suo viso che danza davanti a me, disteso come sono su questo letto di piaghe da decubito:  mi parla, che mi sorride come faceva allora, prima di quella fatidica notte.
Quindici anni sono passati ormai da quando ho giocato alla roulette russa con la vita e ho perso nel peggiore dei modi.
Quando ho capito, tra le fitte lancinanti alla testa, che mi si era rotto un aneurisma nel cervello, ho pensato che se avessi passato la notte avrei potuto cavarmela senza grossi danni, sempre che fosse una cosa leggera, oppure morire, piuttosto che restare offeso. E invece no, sono finito in coma, per anni, per poi risvegliarmi paralizzato e cerebroleso in questo posto di merda che puzza di piscio e di disinfettante.
Sono, anzi ero un medico, e ho capito fin troppo bene cosa mi stava succedendo, ma l’ho tenuto nascosto alla mia famiglia e a lei, che in quei due fatidici giorni e mezzo che hanno deciso il mio destino, mi dava il tormento, intasandomi il cellulare di messaggi, ora allarmati per la mia sparizione, ora minacciosi. Non volevo che sapesse che l’uomo che amava, l’uomo possente e sportivo che la prendeva cin passione e vigore, era un povero essere umano, fragile e malato. Non volevo che pensasse a me come un infermo: ero un dottore, mio padre lo stesso e mio nonno prima di lui. Noi non potevamo essere pazienti, noi eravamo medici. E così le nascosi anche che anni prima avevo fatto un infarto ed avevo qualche problemino. Ho sempre giocato a fare il superuomo, quello che va a correre tutti i giorni pausa pranzo per un’ora, quello per cui il tempo non passa mai.
Bell’idiota, forse se fossi andato subito al Pronto Soccorso e avessi detto quello che mi stava succedendo, me la sarei cavata con poco.
O forse no.
Fatto sta che il venerdì sera ho avuto la prima rottura di aneurisma e durante il weekend ne ho avute altre due, tanto per essere sicuri di affogarmi bene il cervello.
Nessumo ha sospettato che lo sapessi: chi è quel folle che davanti alla paura della morte non cede e chiede aiuto con la speranza di salvarsi? Eccolo qui invece il coglione che ha deciso di passare 15 anni in un letto, di ridursi a uno scheletro, con i denti marci e i capelli diradati.
Ma era ovvio che lo sapessi, un medico davanti a sintomi così chiari non può non capire: la testa mi scoppiava, la vista era offuscata, talvolta doppia, e quella  notte ho rimesso finché ho avuto un filo di bile in corpo.
La mattina dopo, in un momento di rara lucidità, ho deciso che non avrei fatto nulla, se non soffrire ed aspettare.
E’ stata molto dura, entravo e uscivo dal torpore della coscienza, e ogni tanto accendevo il cellulare e vedevo i suoi messaggi ai quali quando riuscivo rispondevo a monosillabi, lasciandola ancora più confusa e arrabbiata.
Non so se mi ha fatto più male la sofferenza della rottura di tre aneurismi, sopportati stoicamente nel mio letto di sudore, o farla soffrire in quel modo, mandarla fuori di testa, farle pensare che non la volevo più, quando invece l’unica cosa che mi dava sollievo era pensare all’ultima volta che c’eravamo visti.
Erano i primi di giugno ed eravamo andati a fare un giro sulle nostre colline: l’erba era verde, il sole caldo e l’aria dolce e profumata. Ci siamo stesi in un posto appartato e abbiamo fatto l’amore con il sole negli occhi e le foglie sui rami che danzavano con un impercettibile accenno di brezza. Lei indossava un vestitino rosa antico, leggero e femminile: solo un santo avrebbe potuto resistere al richiamo del suo corpo, che sapevo cosi gonfio di piacere da ricevere e da dare.
Questo è l’ultimo ricordo che ho di lei, che mi si para sempre davanti, croce e delizia della mia interminabile Via Crucis.
Mi uccide ancor più della malattia non sapere nulla della sua vita ora:  cosa fa, con chi sta e dov’è in questo momento.
L’unica cosa che so è che non mi ha dimenticato, perché ogni tanto, sempre più di rado, viene a trovarmi.
Mi parla, ma non capisco bene quello che dice, ho capito che mi pensa, che non ha mai smesso.
Provo con la forza del pensiero a parlarle: noi abbiamo sempre avuto un’intesa telepatica, quindi dovrebbe capire cosa la dico.
“Ti amo” le dico “sei il mio più grande rimpianto, la mia più grande gioia. Ma ora, stacca la spina per favore , tu che mi hai dato la felicità, ora dammi la libertà da questa prigione, che ha soffocato, anno dopo anno, tutto il buono che c’era in me. Liberami”.
Lei mi guarda e sorride sempre, ma non capisce. Come fa a non capire?
Oggi è tornata, è vestita di nero, che vorrà dire? Ho rinunciato a comunicare con lei, la guardo e basta.
Mi da un bacio, ma poi si rattrista e mi dice “addio” staccandosi da me. Non capisco e continuo a fissarla: si muove con lentezza e, sempre fissandomicon una tristezza infinita negli occhi, si ferma davanti al respiratore. Tutt’un tratto mi sento soffocare, Mio Dio, è terribile la mancanza d’aria nei polmoni, ma non resisto perché capisco che sto morendo, finalmente. Sono attimi di morte lunghi come la vita, ma so che passerà presto e pur senza vederla, perché la vista mi si è completamente offuscata, percepisco la sua presenza accanto a me.
Ora solo il buio danza davanti a me e non ho più memoria, né dolore, né bisogni da soddisfare .  Ho un vago ricordo della vita in cui sono stato medico e di una donna che mi ha amato talmente tanto da darmi la libertà.


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