"Milan by night" di Alessandro Bastasi


Per gentile concessione di Novecento Editore.

Quattro ore di macchina, un traffico assurdo, un banco di nebbia fitta da Piacenza fino al casello, adesso però sono arrivato. Al Grand Visconti Palace Hotel, in viale Isonzo.
Qualcosa più centrale non l’ho trovato, per via delle «Giornate della Moda Special». Tutto esaurito. Non bastava la «Settimana della Moda» normale, no, ci hanno infilato anche questa, riservata agli stilisti russi e cinesi. D’altronde mi sarebbe proprio piaciuto stare in centro, è vero che a Milano ci vengo spesso, ma un giro di gnocche così ricco in altri periodi è difficile trovarlo.
Boh, in fondo è meglio così. Sono le dieci di sera, e domani avrò una giornata molto impegnativa: riunione conclusiva con i capi della Siningest, due tizi tosti, pignoli fino all’inverosimile, che mi faranno vedere i sorci verdi. Comunque io non sono da meno, anch’io sono bravo nel mio lavoro, e poi l’affare è buono anche per loro, alla fine li convincerò, mi sono fatto il mazzo a preparare la presentazione, quarantacinque slide e alla fine un calcolo del ritorno dell’investimento a prova di qualunque contestazione.
Sì, sono soddisfatto di me. Faccio due passi fuori e poi a letto. Il tizio della reception mi ha chiesto se volevo la connessione wi-fi, gli ho detto di no, basta, non voglio rotture di balle, sono stanco, voglio solo svuotare la testa. Mi infilo il giaccone ed esco.

Non me la ricordavo così buia, Milano. Mi dirigo verso piazzale Lodi, dove vedo un po’ di vita, di luci. Qui non c’è quasi un’anima in giro. D’altronde è il dodici novembre, un freddo cane. E poi sono sulla circonvallazione, chi vuoi che ci sia in giro? Solo macchine e semafori. Macchine e semafori, in un viale costeggiato da grandi alberi spogli, qualche foglia gialla ancora sui rami, per terra un tappeto di foglie secche imputridite dall’umidità autunnale. Cammino con le mani in tasca lungo una successione di saracinesche abbassate, coperte di graffiti colorati, ogni tanto un’insegna con i caratteri arabi. Poco più avanti scorgo due ragazzi dal berretto di maglia nero intenti con le bombolette spray a coprire di segni incomprensibili un portone di ferro. Un uomo basso dai tratti orientali, che sta uscendo dalla porta accanto, li apostrofa con violenza, uno dei due gli spruzza lo spray in faccia, l’altro gli sferra un pugno nello stomaco, per poi darsi entrambi alla fuga.
Osservo la scena e scuoto il capo. «Negri, viola, gialli. È un’invasione, ormai.»
Uno scoppio in lontananza. Una marmitta, un petardo, o chissà cosa. Tranne i graffitari e qualche disperato di colore sono tutti ben tappati in casa. Normale, con certa gente che va in giro di notte.
Meglio che rientri in albergo. Mi guardo un film su Sky, un whiskino dal frigo bar e poi a nanna.
Mi giro sui tacchi.
Ed è allora che la vedo.

Bionda, alta, un corpo da favola dentro un cappottino viola. Avrà sì e no vent’anni. Lì, ferma sul marciapiede.
Si accorge che la guardo, esita qualche istante poi si dirige verso di me. Due occhi castani, grandi, pelle chiara, un sorriso dimesso. Io ricambio il sorriso, lei si guarda un po’ intorno, con aria apprensiva, come se temesse qualcosa. Si avvicina, a voce bassa mi chiede se voglio fare l’amore con lei.
Ci penso un po’ mentre la osservo. E’ davvero bella, profuma di lavanda. Non ha l’aria della puttana. Mi posa una mano sul braccio, quasi a rassicurarmi. In fondo non ho nulla da fare, ho solo voglia di rilassarmi in vista della battaglia di domani. Mi stringo nelle spalle e rispondo di sì.
«Cento euro», fa lei, con un filo di voce.
Io annuisco, lei, senza perdere un attimo, si affretta verso una Punto bianca parcheggiata sul ciglio del viale.
«Andiamo a casa mia», dice.
Non faccio obiezioni e salgo in macchina.

Ci mettiamo venti minuti ad arrivare, con lei che se ne sta ostinatamente zitta, mentre io cerco in tutti i modi di conversare, raccontandole di me, del mio lavoro, disseminando le chiacchiere di battute divertenti. La ragazza tiene lo sguardo fisso sulla strada davanti a sé, è tesa, non ride alle mie arguzie. La sola cosa che mi dice è che si chiama Tatiana. «Una russa», dico tra me e me. «Forse una modella, sarà a Milano per le Giornate della Moda e vuole arrotondare un po’. Che c’è di male?»
«Da quanto tempo sei in Italia?», le chiedo. «Cosa fai, studi? Lavori?»
Nessuna risposta.
No, c’è qualcosa che non va. E’ strana, troppo strana. Non va bene per un cazzo. Mi accorgo che ogni tanto sospira, le tremano le labbra. Forse per lei è la prima volta, magari non ha voglia farlo, vi sarà costretta per pagare l’affitto o chissà cos’altro. Per pagarsi la droga, vai a sapere. A un tratto le dico: «Se non vuoi, non lo facciamo, ti lascio qualcosa lo stesso e me ne torno indietro. Non c’è problema, davvero!»
Lei fa di no con la testa, un no nervoso, poi si gira dall’altra parte, cercando di evitare il mio sguardo, che continua a frugarla, sospettoso. E indispettito, anche. Penso alla mia stanza d’albergo, a quello che dovrò fare domani, all’imprudenza che forse sto commettendo. Ma ormai sono in ballo, voglio andare fino in fondo, questa tipa me la voglio scopare, e vedrai che una sana scopata farà bene anche a lei.

Finalmente arriviamo.
Non riconosco il posto, è un palazzone grigio di periferia che dà sulla tangenziale, uguale a tutti i palazzoni di periferia, con una pulsantiera zeppa di cognomi. L’ascensore sale al quarto piano, in silenzio lei infila la chiave nella serratura ed entriamo nell’appartamento. Mi accoglie un corridoio lungo e stretto, sul quale si affacciano quattro porte, una in fondo, due a destra e una a sinistra. Quello in fondo è il bagno, lo riconosco dal vetro smerigliato. Sempre senza dire una parola, la ragazza mi precede nella prima stanza a destra, malamente illuminata da una lampadina che penzola nuda dal soffitto. E’ la cucina, una cucina unta, il tavolo di fòrmica, avanzi di cibo, i piatti sporchi nel lavello. Fa freddo, tocco il termosifone ed è appena tiepido. Decido di tenermi il giaccone addosso. Ma dove mi ha portato? Perché in cucina? Guardo la ragazza, ha la fronte corrugata, mi accorgo che sta sospirando.
Ho una gran voglia di mandarla a fanculo, una roba del genere non mi è mai capitata, e sì che di puttane ne ho conosciute a iosa. Ma cosa cristo ha, ‘sta russa del cazzo? Se non vuole, basta che lo dica. Non un sorriso, un complimento. No, no, scopare con quella lì, adesso ne sono convinto, sarà meno divertente che farsi una sega, no, non è roba per me, già me la vedo, si stenderà sul letto, aprirà le gambe e starà in tensione finché non avrò finito. Ma vaffanculo, ma per chi mi ha preso?
«Vuoi mangiare qualcosa?», mi chiede, distrattamente.
«No.»
Mi siedo di sbieco sul bordo di una sedia sbilenca, mi guardo in giro, in attesa. Lei, come se niente fosse, estrae dal frigo una scatola di pelati da mezzo chilo, l’apre con un coltello, ne infilza uno e comincia a mangiarlo così com’è, gelido, grondante di rosso come una ferita aperta. La guardo ammutolito, a disagio per lei, per quel modo desolato di ingurgitare cibo.
Poi mi chiede i soldi. Le do i cento euro.
«Non puoi darmi qualcosa di più?»
La guardo. Scuoto la testa.
«Vedremo dopo», le dico.
Lei non fa una piega, prende i soldi, solleva le sopracciglia e senza guardarmi mi dice: «Aspettami qui un momento.»

E adesso dove va?
Andrà a lavarsi, dove vuoi che vada. O a nascondere i soldi per paura che li rivoglia indietro.
Continuo a non essere tranquillo. Non è il modo di comportarsi, questo. Di solito le altre mi lavano l’uccello, mi portano subito in camera, poi vanno a fare la doccia e mi raggiungono sotto le coperte belle calde e sorridenti.
Non sono tranquillo eppure rimango lì, non so nemmeno io perché, in quel buco di cucina, con il pavimento di linoleum, la scatola di pelati aperta mezza vuota, il coltello e una forchetta buttati in disordine sul tavolo di fòrmica.

Ma quanto ci mette? Cosa sta facendo?
Me ne vado. Sto posto mi mette a disagio, la situazione…
Ma no, le ha dato cento euro, cazzo.
E forse… Magari sono io che mi faccio dei film strani. Può essere che sia meglio di quanto non appaia. Forse la tipa, come si chiama, Tatiana, è fatta così, in fondo ne ho conosciute altre, di ragazze del genere, tutte di ghiaccio all’inizio, che poi però, quando te le trovi nel letto, ti portano in paradiso. Magari adesso quella arriva qui, tutta nuda, a spataffiarmi una figa profumata sotto il naso. E, dopo tutto, è davvero un gran pezzo di gnocca. A pensare alle sue tette mi viene già duro.
Mah! Meglio mettere al sicuro gli altri soldi, intanto.
Tolgo quattrocento euro dal portafoglio, lasciandoci solo pochi spiccioli, e me li metto nella tasca interna del giaccone.
E continuo ad aspettare.
Aspettare. Quando cazzo arriva?
Finisce che la chiamo, a voce alta:
«Tatiana! Dove sei?»
Nessuna risposta.
La tensione mi sale dallo stomaco, mi fa chiudere la mani a pugno, ritmicamente. E mi viene un colpo, una scarica di adrenalina, quando va via la luce di quell’unica lampadina pendente triste sopra il tavolo. Si riaccende subito, per fortuna, e io respiro forte. Mi tolgo gli occhiali, li poso sul tavolo e mi strofino il viso, a lungo.
«Adesso me ne vado», mi dico, «sì, adesso mi alzo e me ne vado.»
Ma sto inchiodato sulla sedia, rimango qui, perché lei deve per forza ritornare, rimango qui, a guardare fisso la porta aperta della cucina, che dà sul buio fitto del corridoio.
A un tratto lo spazio di quella porta si riempie.
E mi si rizzano i capelli in testa.

È un uomo giovane, alto, bruno, vestito di tutto punto, con un completo grigio scuro e una cravatta azzurra. Una macchia marrone in bella vista sulla camicia bianca.
Mi accorgo subito che è ubriaco fradicio, anche dal fetore del suo alito. Mi guarda per un po’, in silenzio, le labbra gonfie, gli occhi offuscati. Barcolla, ma continua a fissarmi.
«Occhei, occhei, sta buono… Vado via», balbetto, alzandomi, impacciato e impaurito.
Ma l’uomo si avvicina, e mi scarica un pugno sullo zigomo sinistro, ricacciandomi sulla sedia. Mi sento morire dal dolore, grido, cerco di rialzarmi, devo raggiungere la porta dell’ingresso, aprirla, richiuderla dietro di me e scappare via, di corsa, giù per le scale.
Cautamente, le mani in avanti, senza perderlo di vista, cammino adagio, rasente il muro, verso la porta della cucina.
L’altro si fa ancora avanti, afferra il coltello che sta sul tavolo, me lo agita contro, alitandomi in faccia.
«Dammi i soldi! Tutti i soldi che hai!»
Apro la bocca, terrorizzato, ma non esce un suono che sia uno. Tiro fuori il portafoglio, glielo mostro, «Guarda, ho solo venti euro», balbetto, «li vuoi? Sono tuoi, prendili, prendi!»
L’uomo emette un grugnito e me li strappa via, porta la banconota vicino al naso, la osserva a lungo, gli occhi socchiusi, come a esaminarla, come se non la riconoscesse, continuando a vacillare, con il coltello serrato nell’altra mano.
È un attimo.
Con un urlo mi lancio su di lui, lui crolla a terra come un sacco vuoto, senza un lamento, trascinandosi dietro una sedia e la scatola dei pelati.
Quasi non ci credo: «Ce l’ho fatta! Posso andarmene!»
E invece no. Rimango lì, a guardarlo, come un coglione, con uno strano ghigno. Lui muove lentamente le braccia verso l’alto, con i venti euro in una mano.
«Bastardo», mi sento sibilare. «Bastardo!»
Comincio a tempestarlo di calci. Ai fianchi. Colpi secchi, soffocati.
Chiudo gli occhi e prendo a colpirlo così, alla cieca, in faccia, nella pancia, gli schiaccio le mani e le braccia con il tacco delle scarpe. «Figlio di puttana!», grido. Afferro la sedia e gliela calo con violenza sulla testa, ho gli occhi appannati, il sudore che cola dalla fronte, non riesco più a distinguere il sangue dalla salsa dei pelati.
Respiro forte. L’uomo è a terra, immobile, dalla bocca aperta un lamento che sembra un mugugno.
Scorgo il coltello sul pavimento. Senza pensarci lo raccolgo, lo stringo tra le dita.
«Dove sei, maledetta puttana? Rivoglio indietro i miei cento euro, cazzo di un dio!»
Esco nel corridoio, spalanco tutte le porte, finché la vedo. E piombo nella stanza come una furia, puntando il coltello verso la ragazza.
Ma mi blocco. Di colpo.
E non perché lei è rannicchiata in fondo al letto, con il terrore negli occhi, incapace di dire una parola.
No. E’ per l’odore bestiale che mi investe.
Tre bottiglie vuote sul comodino e una chiazza di vomito fresco sul luridume del tappeto.
La ragazza mi guarda, cercando di farsi piccola piccola, lontana, impaurita. Ha un grosso livido sotto l’occhio destro. Rimaniamo lì, a fissarci per qualche istante, lei si porta le mani al viso, le agita, le palme rivolte verso di me, io urlo una bestemmia e butto il coltello sul letto. Esco in corridoio, l’uomo in cucina è ancora lì, immobile, sul pavimento, steso su un lago rosso sangue, uno sguardo veloce e mi lancio sulla porta d’ingresso, via da quella casa, via, discendo le scale a quattro gradini per volta, il cuore che picchia come un martello pneumatico, l’aria che fatica a raggiungere i polmoni, la sensazione di porte che si aprono sui pianerottoli, di occhi che si sporgono, e mi inseguono, di sirene della Polizia sempre più incalzanti, via, via, di corsa!
Anche fuori, sulla strada deserta, corro a rotta di collo, ogni tanto mi volto indietro, inciampo, cado, mi rialzo bestemmiando.
Nessuna sirena della Polizia.
Rallento.
Incrocio un’auto dei Carabinieri, che prosegue lenta senza degnarmi di uno sguardo.
Finalmente mi fermo e crollo seduto sul marciapiede. Ma non posso rimanere, cazzo, sono troppo vicino, così riprendo ad avanzare, nel buio, tra file di palazzoni bianchi come fantasmi, in un cazzo di nebbia che si è alzata all’improvviso, un nulla lattescente nel quale vago con il sangue delle tempie che mi martella il cranio. Dodici novembre di merda. Me lo ricorderò fin che campo. Sento un rumore di passi dietro di me, mischiati a frammenti di parole che non capisco, non ho il coraggio di voltarmi, dopo un po’ un gruppo di cinque neri, alti, magri, infagottati, mi si affianca all’improvviso, tre di loro mi guardano per qualche secondo, indirizzano un grugnito agli altri due, ridono, mi sorpassano e filano in fretta chissà dove.
Cammino per oltre mezz’ora, senza pensare a nulla, solo ad allontanarmi, il più possibile, prima o poi da qualche parte arrivo. Cammino, la pelle gelida, fradicia di sudore, sotto un giaccone pesante, faticoso. Vorrei sfilarmelo di dosso, e lasciarlo lì. E sto quasi per farlo, quando in fondo intravvedo lo sfarfallio di qualche luce.
Mi metto a correre.
Trecento metri, la nebbia che si dirada e io che sbuco su un viale che riconosco. Con le sue macchine e i suoi semafori.
La circonvallazione esterna.
Emetto un grido di sollievo.
Mi fermo e respiro forte, chino in avanti con le mani che serrano le ginocchia. Mi sollevo, inspiro, espiro, e so quello che devo fare.
Alzo gli occhi in cerca di una targa sul muro che mi indichi il nome del vialone, o di una traversa, insomma, il punto esatto in cui mi trovo. Cammino ancora, con calma, lo trovo: viale Campania angolo via Zanella. Estraggo lo smartphone, nella rubrica rintraccio il numero del servizio taxi. Chiamo.

Il taxi arriva dopo dodici minuti.
Lungo il tragitto però non smetto di tremare. Perché, accasciato sul sedile posteriore, sto rivivendo dentro di me quello che è successo. E davanti agli occhi, d’improvviso, si materializza l’immagine di Tatiana, in piedi, di fronte a un funzionario della Polizia. Gli sta raccontando che un tizio che alloggia al Grand Visconti Palace Hotel ha massacrato di botte un uomo nel suo appartamento. E, sì, è in grado di riconoscerlo.
Sto per impazzire.

La sera successiva sono seduto nella hall del Grand Visconti Palace Hotel. Gli occhi bassi, sto fissando il tappeto, studiandone i disegni e i colori. In attesa dell’inevitabile.
Avrei potuto cambiare albergo, ma non me la sono sentita, in ogni caso prima o poi mi avrebbero beccato. Non sono il tipo dell’avventuriero, io, sono soltanto un piccolo uomo d’affari, e la parte del fuggiasco non mi si addice.
Stamattina ho cancellato l’incontro di lavoro a causa della febbre che mi ha tenuto sveglio tutta la notte. I due tizi della Siningest mi
hanno risposto che erano venuti apposta da Roma apposta, e che non avevano alcuna intenzione di rimanere a Milano ad aspettare me. O mi facevo vivo o l’affare sarebbe saltato. Li ho mentalmente mandati a fanculo. «Mi dispiace, oggi proprio non ce la faccio», ho detto loro. «Quand’è così, la ringraziamo per averci fatto comprendere quanto sia inaffidabile la sua società. Buongiorno». Cazzo, un affare da quattrocentomila euro andato in fumo. Non oso immaginare quale sarà la reazione del mio Presidente. Forse anche per questo non sono mai uscito dall’hotel, non ho mangiato nulla e il tremito alle mani non mi è ancora passato. E me ne sto qui a guardare le losanghe rosse del tappeto.
A un tratto sollevo lo sguardo, ma non me ne accorgo subito. Riprendo a fissare il tappeto, la testa ormai svuotata. Dopo qualche istante però realizzo che quello che doveva accadere sta per succedere. La guardo di sottecchi. Chiudo gli occhi e li riapro. E’ ancora lì.
Tatiana. A meno di tre metri da me. Con il livido ancora in evidenza sotto l’occhio destro, nonostante l’abbondante pennellata di fard. E’ sola, non c’è la Polizia, con lei. La staranno aspettando fuori, vai a sapere.
Vorrei scomparire, ma lei si sta avvicinando.
«Hai dimenticato questi», mi dice a bassa voce, porgendomi un paio di occhiali.
Confuso, impaurito, non so dove guardare. Alla fine li prendo e li inforco. Ora ci vedo meglio. Decisamente.
«Grazie», sussurro.
Lei si gira per andarsene, io però mi alzo e la fermo con la mano.
«E lui… Come sta…»
Tatiana si irrigidisce.
«E’ morto», dice in fretta.
Mi si blocca il respiro. Una vampata di sangue alla testa.
«Come…»
«L’ho finito io, a coltellate», continua lei, inespressiva.
Tace per un attimo. Poi, fissandomi negli occhi, prosegue:
«No, nessuno sa di me. Sanno di te, invece.»
Mi guarda, con aria di sfida.
«Sai, succede che nel palazzo, a quell’ora, molti hanno sentito un gran rumore per le scale. Mentre io stavo finendo quel bastardo con il coltello che hai buttato sul letto. Ah, una condomina dalla finestra ha anche visto un uomo per strada che correva. Dopo un po’ ho gridato, in modo che tutti venissero a vedere quello che era successo.»
Non riesco ad aprire bocca, un crampo mi attorciglia lo stomaco. Lei solleva il viso e mi sfiora la guancia con le labbra.
«Ma non devi preoccuparti. Ho aspettato che tu ti allontanassi. E ho raccontato di un uomo di colore che era entrato per rubare.»
Mi sorride. E’ la prima volta che la vedo sorridere.
«Grazie di tutto», mi dice. «Ora però è meglio che vada.»


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