"Occasione" di Mirko Giacchetti


 

 

Non capisci davvero il significato della parola “coglione”, almeno sino a quando un’ottuagenaria non ti punta addosso la tua pistola. Quella con cui minacciavi tutti i presenti e che doveva essere il tuo passe-partout per la felicità contata a migliaia in simpatiche banconote.

Eppure, a preoccuparmi non è la nuova definizione con cui posso essere indicato, né il fatto che sia sdraiato a terra con fitte di dolore ai polsi e al ginocchio, ma l’artrite che affligge i corpi non più giovani; la pensionata armata ha delle mani secche, tendenti al violaceo. Valuto se possa essere per via del freddo, ma in quest’ufficio ci saranno almeno quaranta gradi, così non resta che l’alternativa della decadenza biologica della femmina che ho davanti.

La questione che mi angoscia è: l’ansia può provocare un attacco alla cariatide e obbligarla a chiudere con uno scatto malefico l’arto prensile di cui è dotata?

Mi sembra che funzioni così. Quindi sono fottuto, anche perché la nonna docile e simpatica di poco prima, a contatto con il mio ferro del mestiere si è trasformata in una versione esangue dell’omino dell’Urlo di Munch, con tanto di gonna marrone piuttosto abbondante e un lungo piumino grigio.

Allora, avete capito perché quell’indice sul grilletto è un grosso problema?

“Ascolti, dia la pistola a qualcun altro, ma per carità, la smetta di puntarmela addosso” dico, convincendomi che un soggiorno alla più vicina casa circondariale sia comunque più confortevole di un riposo adagiato sui velluti di una bara full-optional.

L’anziana non parla e un tic all’occhio le fa ballare la palpebra.

Il tempo è quello della rumba da balera, ma io sto ballando un tango con la morte.

Alle sue spalle, da una delle sedie predisposte per l’attesa del pubblico, emerge una montagna di muscoli fasciata dentro una sgradevole combinazione di abiti casual. Attento a non sgualcire il modello F24 nella mano sinistra, porge la destra. “La dia a me, per favore” dice, sbattendo gli occhioni blu come un Rodolfo Valentino qualunque.

Il manichino abbronzato a dicembre e palestrato quanto basta per tendere al punto giusto i tessuti in cui è avvolto, sorride. Sarà per la collezione autunno-inverno che indossa, o per un improvviso calo di zuccheri, ma il bestione sfoggia una voce flautata che ci si potrebbe aspettare da una piccoletta di cinque, forse sei anni. In tutto il tempo che ha passato a pompare i bicipiti, poverino, non ha approfondito il giusto atteggiamento e la psicologia adatta da tenere in un momento del genere.

Mr. Muscolo pensa che, parlando come una bambina a un’altra bambina, la situazione non precipiti.

Invece precipita, eccome se precipita, ma non nella direzione che tutti si aspettano.

Quella che un tempo, circa un eone prima, era stata una ragazza, piroetta con tempi geriatrici di mezzo cerchio e punta addosso la pistola al ragazzone. “Stai fermo lì, altrimenti ti sparo” dice, facendo colare l’abbronzatura posticcia sul colletto della camicia dal faccione dell’ominide griffato. “Tu, – prosegue rivolta a me – sei in grado di prendere i soldi, senza fare un altro casino?”

Avevo ideato un piano semplice. Una cosa da entri, arraffi i soldi ed esci. Invece ora ho una complice. Certo, non è una rapinatrice avvenente e affascinate, sembra più la morte senza la falce, ma data la situazione in cui mi ritrovo, direi che va bene anche così.

“Ehm… – penso un attimo prima di rispondere – credo di sì.” Mi alzo e al coro di pulsazioni per il dolore, si aggiunge una fitta al ginocchio che spicca come un acuto da voce bianca. “Almeno spero” aggiungo, nel caso in cui ne combini una delle mie.

Diciamo che le ultime parole sono un’assicurazione; nel caso qualcosa vada male, non dovrebbe rimanere troppo delusa.

“Allora datti da fare.”

“Ha sentito, vero?” dico all’impiegata, mentre zoppico sino al bancone.

Ora che posso rilassarmi, guardo la faccia del nuovo bersaglio. Non ne sono sicuro, ma anche lui sta facendo un breve ripasso mentale sull’artrite.

Il resto delle persone in attesa è allibita. C’è una coscritta della rapinatrice con dei capelli fuxia, modello tinta sbagliata, con la bocca aperta da cui non stanno più uscendo lamentele mischiate a orribili pettegolezzi fraudolenti. C’è anche un ragazzo che usa il dito come segnalibro nelle pagine dell’ottimo Casa di Foglie di Mark Z. Danielewski e il trio termina con una ragazza bionda e talmente pallida da sembrare un fantasma spaventato, che ha tutta l’aria di essere una badante sfuggita alle angherie di qualche dispotico anziano.

“Allora, se ha sentito, perché non raggruppa i soldi e me li passa?”

L’impiegata postale mi guarda e sembra non capire. Forse non ci sente più dalla fame, in fondo la pausa pranzo è vicina; ogni giovedì viene dalla città per aprire questo minuscolo ufficio di paese e all’una, cioè tra dieci minuti circa, lo chiude per parcheggiarsi nel bar a fianco e ingozzarsi con tutto ciò che da surgelato può diventare commestibile.

“Avanti Bruna, fai quello che ti dice.” La mia complice la sprona, cercando di velocizzare la tempistica.

Al comando giusto la incassa-bollette dietro al bancone si sblocca e apre il cassetto.

“Ma vi conoscete?” chiedo.

“Certo che ci conosciamo, allora?”

Dal tono della risposta, capisco che non è il caso di insistere.

“Ma ci sono tutti i versamenti” dice la Bruna, impiegata alle Poste.

“Avanti, mica mi bastano le parole, voglio proprio i soldi” ordina l’anziana.

Messa sotto pressione la donna si arrende e inizia a raccogliere il denaro.

Nel poco tempo che rimane, faccio un cenno all’intellettuale del gruppo. “Ti piace?” chiedo, fissando la copertina del libro.

“Sì, – dice guardandomi – ma…” non riesce a terminare la frase, perché la pistola finisce puntata su di lui.

“Basta parlare, siam mica qui per chiacchierare!” L’anziana tira dritto al sodo, non vuole perdere tempo.

Tutte le banconote sono impilate sul bancone davanti a me.

“Maria, vuoi anche le monete?” chiede Bruna, osservando il cassettino vicino al monitor del computer.

La mia complice ha un nome. Stacca gli occhi dal ragazzo, guarda la sua borsa sulla sedia. “Sì, fai che darmele, dovrebbero starci anche quelle.”

Il contenitore con tutte le monete disciplinate secondo il rigoroso ordine di valore finisce nelle mie mani.

“Allora, rovescia tutto dentro e poi vieni qui.”

Date le circostanze, eseguo. Più o meno, potrebbero esserci sui tremila euro e, se Maria è onesta, la metà dovrebbe finire nelle mie tasche.

Afferro la borsa nera di finta pelle, un modello serio e capiente, e mi avvicino senza incrociare la linea di fuoco, non sia mai che l’artrite…

Maria controlla l’ufficio, poi volge le spalle alla zona in cui non c’è nessuno. “Dai qua” dice, allungando la mano sinistra e puntandomi addosso, per la seconda volta, la mia pistola.

“Mah, siamo complici, non puoi trattarmi così.”

“Dammi quella borsa, oppure..” il dito accarezza il grilletto e non mi sembra che c’entri qualcosa l’artrite. No, è proprio decisa a sparare.

“Ragiona, – uso la borsa come scudo – non puoi andartene senza di me, non puoi cavartela.”

“Come, non posso farcela senza uno che entra in Posta per fare una rapina, ma cade e perde la pistola?” Scuote la testa, poi ripete: “dammi la borsa.”

Ecco, non ho molta stima di me, so di essere mediamente sfortunato, ma vorrei chiarire un punto. “Perché lo hai fatto?”

“Come, perché l’ho fatto – sorride meravigliata – mi è capitata una pistola tra le mani dentro un ufficio postale, mi si è presentata l’occasione, mica potevo lasciarmela scappare!” Maria da un’occhiata al resto dei presenti. “Me la vuoi dare, oppure no?”

“Finirai in galera” dico, consegnandole la borsa.

Vorrei farle scattare la paura delle conseguenze, almeno potrei filarmela io con il bottino, senza doverlo smezzare.

“Alla mia età? – scoppia a ridere – Ma va là, al massimo mi chiuderanno in una casa di riposo.”

Alla fine, dopo queste poche parole, non senza qualche difficoltà, apre la porta ed esce.

Ci guardiamo stupiti quando passa davanti alla vetrina dell’ufficio, salutandoci con la mano e la pistola bene in mostra, mentre molto lentamente si avvia verso casa.


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