"Olinto!" di Maria Masella


Mercoledì — alba
Al suono della sveglia l’uomo si alza. Ha dormirò: certo; è turnista da una vita, ormai dorme a comando; così ha dormito, ma è più stanco di prima.
Davanti allo specchio del bagno si passa una mano sulle guance: no, di radersi non vale la pena. E poi non è più come quando era giovanotto che dopo mezza giornata era già selvatico; dipenderà dai peli sempre più bianchi… O da non avere la tua donna a dire di tenerti in ordine.
Invece si attarda in cucina, a farsi una tazza di caffè fresco. E’ la stanza che ama di più: a volte rientrando dopo il turno di notte può ancora vedere la Gina, come quando si alzava per lui.
Da anni ormai lei non c’è più e la casa è silenziosa e troppo grande e vuota, da quando i due ragazzi se ne sono andati.
Dovrebbe cercarsi una casa più piccola, ma questa è la sua, l’hanno comprata lei e la Gina, soldo dopo soldo, facendosi tutti i lavori da soli. Dicono che non è un bel quartiere e hanno ragione, ma è vicina alla fabbrica.
L’uomo apre la finestra: non è ancora giorno, dovrebbe essere l’ora migliore, quando il vento vien giù dai monti e spazza l’odore e i fumi degli altiforni.
Invece niente.
C’è una macaia pesante che si trascina da giorni.
L’uomo beve il suo caffè in piedi.
Mentre si veste, i suoi pensieri vanno di qua e di là, rimbalzano. Come boccette contro le sponde del biliardo. Il biliardo d’inverno e le bocce d’estate sono sempre stati i suoi unici svaghi. Ma tempo libero lui ne ha avuto poco. C’era da imbiancare la cucina, da controllare la guarnizione di un rubinetto, da sistemare una porta.
Con le mani ci ha sempre saputo fare, anche i ripiani per i libri, a Mario, li ha fatti lui.
Mario e i libri. Ora è laureato. Prima il diploma, poi la laurea, il primo della famiglia.
L’uomo esce di casa, dieci minuti a piedi ed è in fabbrica. Giusto il tempo di una delle sue due sigarette quotidiane. Una entrando, l’altra uscendo.
In fondo la fabbrica ha regolato tutta la sua vita. C’è entrato ragazzo, ne uscirà fra qualche anno.
Mario l’ha detto non una volta ma tante che lo ritiene un relitto del passato, un “fossile”. Sì, una volta l’ha chiamato proprio così.
Quel giorno ha capito di aver perso il figlio grande.
Quando dopo il turno stava ore e ore a discutere durante le riunioni del sindacato, a studiare, a cercare di capire, per chi lo faceva se non per Mario?
Ancora più che per il piccolo.
Mario, il primo figlio. Come erano stato entusiasti lui e la Gina dei suoi esordi: buoni voti a scuola, serietà, impegno.
L’amore per i libri! L’uomo si diceva che almeno suo figlio avrebbe potuto capire bene tutto, anche quello che lui sentiva solo di pelle.

Prima del turno delle sei — in città
— Hai capito?
L’altro fa segno di sì, come per dire che non è scemo e che ha capito; l’ha già detto e ridetto.
— Fai attenzione, lasciali solo se sei sicuro che nessuno ti vede. Non farti beccare.
— Non è colpa mia se ieri uno stupido li ha trovati e li ha buttati. Uno stupido che ha paura di compromettersi.

Il turno delle sei — in fabbrica
L’uomo si affianca ad altri che stanno entrando. Si parla poco. Una parola smozzicata ormai sostituisce un discorso, ma spesso un gesto basta.
— Stasera. Ci sei, Olinto?
All’uomo l’ha chiesto un vecchio compagno, da anni si conoscono.
Olinto fa segno di sì, solo per motivi molto gravi ha disertato le riunioni del sindacato.
Il partito? Non gliene è mai importato molto. Sì, c’era, ma era là.
Per gente come lui ci voleva il sindacato; parole facili: lavoro, sicurezza, retribuzioni giuste. Del sindacato ha accettato tutti i cambiamenti anche quelli che non ha capito.
Nel ’69 è sceso in piazza per i contratti come era sceso contro la legge truffa. Strana piazza con quei ragazzi con la verità in tasca che facevano di un corteo operaio una carnevalata.
Dopo, ha accettato che il sindacato si aprisse all’esterno, che dicesse la sua non solo sull’economia ma sul “sociale”.
L’ha visto diventare forse più forte ma diverso.
Ha accettato tutto. Fino a ieri.

Il turno delle sei — in fabbrica
Da ieri Olinto non è più lo stesso uomo. Distratto saluta gli altri. Infila tuta, guanti di protezione, maschera. Da una vita ripete gli stessi gesti, li fa senza pensare.
Quando è pronto, invece di andare al suo posto si avvicina ad Attilio. — Vai al mio.
L’altro lo guarda.
— Io sto qui, al tuo. — E’ una richiesta strana, ma Attilio conosce Olinto da anni e, se chiede “Rogne?” mentre si sta già spostando, è solo per abitudine e per poter dare una mano se serve.
— Niente. Solo voglia di cambiare panorama.
Un gesto e poi un altro. A volte una parola con il vicino. Olinto non è più stanco: anche il senso di vuoto alla bocca dello stomaco è svanito.
La collera monta fredda sommergendo la nausea.
Per vie misteriose è l’Olinto di tanti anni prima. L’Olinto ragazzo appena assunto da apprendista, mentre scopriva il grande amore della sua vita, oltre la Gina: la fabbrica, quella fabbrica. Subito scopriva che doveva proteggerla dai nemici che volevano portarsela via.
Poi l’avrebbe odiata come luogo di fatica quotidiana; ma quell’adolescente amore di fondo non sarebbe mai scomparso.
Così rinasce intatto e Olinto sente sangue giovane di collera sciogliergli i muscoli, mentre guarda il corridoio verso i gabinetti.
Aspetta. Aspetta per ore fin quasi alla fine del turno. Ha registrato entrate e uscite.
Lo vede imboccare il corridoio: perché lo guarda più attentamente degli altri?
Perché è sicuro che sia lui?
E’ uno assunto da poco, ma si è già fatto notare, perché non ha lesinato critiche ai vecchi della commissione interna. “Riformisti piccoli borghesi che con tre lire vi si compra”. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo.
Olinto per un po’ ha cercato di capirlo, per Mario, poi gli ha voltato le spalle.
Ma ora non volta più le spalle; da una vita vede uomini in tuta e ricorda bene quando sotto si portava roba nascosta: fogli clandestini, volantini partigiani o pezzi di fabbrica da portar via. E in gioco c’era la vita: attività sovversiva e sabotaggio. Non il licenziamento ma una raffica davanti a un muro e prima un assaggio d’inferno nelle celle della Casa dello Studente.
Via il passato che distoglie dal presente. Quello è “gravido”.
Olinto lascia il suo posto. Entra nel gabinetto, mentre quello sta armeggiando. Con il suo peso lo blocca e gli passa una mano sulla tuta.
Se avesse avuto dubbi basterebbe l’atteggiamento del ragazzo a spazzarli via; fosse pulito si divincolerebbe, invece fermo e zitto.
Olinto vorrebbe dirgli tante cosa e chiedergli perché lo fa. Ma non è mai stato uno di parola facile. Si limita a dire: — Ieri. Li ho trovati. Un caso. Li ho buttati.
L’altro sta zitto. Eppure sembra più rilassato.
— Li ho buttati. Chi te l’ha dati? Voglio saperlo. Voglio sapere chi è coinvolto.
Silenzio.
Poi di colpo il viso dell’altro si trasforma, come uno stampo quando si rompe. E non c’è più paura, tensione, ma qualcosa che Olinto non sa definire. Come se l’altro si stesse raccontando per sé una storiella non da donnette e si preparasse a riderne.
E la risata arriva. Ride. Ride del vecchio Olinto che lì è una leggenda. Proprio il vecchio Olinto non saperne niente e scandalizzarsi come una verginella!
Solo loro due sentono la risata perché è silenziosa.
Poi le parole. Rapide. Beffarde. Un nome. Uno solo. Un punto fermo.
Olinto abbassa le mani. Inutili.
Ritorna al proprio posto, senza vedere l’occhiata di Attilio.
Ha i gesti ancora sicuri; da una vita fa quel lavoro, forse riuscirebbe a farlo anche da morto. Ride fra sé.
— Stai male?
Fa segno di no. E’ solo una macchina legata a una macchina. Al fischio della sirena lascia il suo posto.
Va via senza guardarsi attorno. Dovrebbe andare a casa, vorrebbe andare a casa. Rintanarsi. Vorrebbe la Gina, ma l’unico sollievo è che lei è morta e non può sapere di un dolore così grande.
Vorrebbe rintanarsi. Non può, perché ha sempre combattuto, sapeva sempre cosa era giusto e cosa no. Ma ora non sa cosa fare. Un uomo dovrebbe avere qualcuno per chiedergli consiglio. Da chi può andare? Attilio? I compagni del sindacato? No. Ormai non si fida di nessuno e poi sarebbe una denuncia e lui non può denunciare.
Tanto varrebbe andare alla polizia. Forse dovrebbe fare così. Ma per troppi anni i questurini sono stati avversari, servi dei padroni, ora non può considerarli alleati.
E poi lui la sua battaglia l’ha già persa e nel modo peggiore.
Ci vorrebbe uno così intelligente da dirgli cosa fare.
Mario.
Va di rado dal figlio grande e solo se invitato. Mario abita in centro, in una palazzina. Ha una bella casa e una bella moglie. Olinto sale sull’autobus. Il centro non gli piace. Si vede goffo. In corteo è diverso: l’ultima volta è stato contro il terrorismo!
Ride forte senza accorgersene. La gente sul bus si volta, lui distoglie lo sguardo perché non lo vedano piangere.
In piazza scende e cambia bus, come una macchina.
Potesse muoversi così per sempre.
Arriva da Mario. Suona. E’ proprio il figlio ad aprirgli. Mario è gentile, affettuoso, tutti i contrasti sembrano dimenticati.
La moglie, medico, è fuori. Olinto potrebbe parlare, ma non sa trovare le parole per dirlo.
Va via.
Uscendo ha abbracciato Mario. — Avevi ragione, ho fatto tanti errori.
— Dai, pa’. Ero ragazzino. Tutti scemi da ragazzi. Tu eri così sicuro e io così confuso.
— Hai fatto la tua strada.
— Vieni più spesso — una pausa — Da tanto non vedo Renzo. Come sta il piccolo?
Ma Olinto si è già svincolato dall’abbraccio e corre.
E’ lunga la sera, ancora più lunga la notte.
Olinto non è uno sciocco; sa che ha poche alternative. Potrebbe far finta di nulla ma non può. Tutta la sua vita perderebbe significato. L’unica altra possibilità è denunciare il fiancheggiatore che ha depositato in fabbrica il pacco di volantini con la stella.
Ma dovrebbe denunciare anche chi li prenderà.
Denunciare è una parola sporca. E poi non può farlo.
Cammina tanto quella sera Olinto. Ha dimenticato la riunione sindacale. La sua casa? Non ha la forza di tornarci.
Fosse meno forte la farebbe finita.
Non potrà mai prendere una decisione.

Mercoledì — dopo il turno delle sei
— Il ragazzo si è fatto beccare. — Comunica la notizia così, senza tanti fronzoli.
Anche l’interlocutore va subito al sodo. — La sorveglianza?
— No, un operaio. Uno dei vecchi.
— Cosa ha fatto? — Neppure un accenno d’ansia nella voce dell’uomo venuto da fuori.
— Niente.
— Ti aspetti rogne?
— Non lo so. Può essere che non faccia niente.
— Quieto vivere? Paura? O è un simpatizzante?
— No. Ora ti spiego chi è.

Giovedì — nel piazzale — prima del turno delle sei
Il corpo è una macchina indipendente dalla mente e dal cuore. Poco prima dell’inizio del turno ha portato Olinto davanti alla fabbrica.
Verso la fine della notte, alle tre, le quattro, quell’ora gelida che è più notte della notte fonda si è alzata la tramontana.
Olinto ha tirato su il bavero del giubbotto di pelle e si è sistemato meglio il basco in testa, tutti gesti automatici.
Nel piazzale davanti al cancello della fabbrica la tramontana taglia l’aria, come un coltello affilato.
Cosa ha riempito la notte di Olinto? Un passato ormai finito, senza più dolori. Ricordi quella volta? Si raggiungeva la famiglia sfollata nell’entroterra con l’incubo dei tedeschi e dei rastrellamenti.
E la voce di sua madre che, per far scappare, grida “Olinto!” nell’aria livida dell’inverno.
Lui, ragazzo, si butta giù dal treno e scappa, scappa. E’ stato uno dei pochi a evitare la Germania.
La tramontana taglia l’aria e arrotola su di sé quell’antico grido “Olinto!”.
Nella lunga notte fra mercoledì e giovedì l’uomo venuto da fuori ha convocato quei pochi fidati, quelli che capiranno. Lui ha già deciso, ma ora saranno loro a dover proporre la medesima alternativa.
Uno, fidato, è stato lasciato fuori e lui ha cominciato proprio da quell’assenza. — I legami personali gli impedirebbero la necessaria lucidità.
Uno chiede: — Cosa proponi?
L’uomo venuto da fuori allarga le braccia. — Siete voi a dover proporre. Voi che conoscete la situazione locale.
Un altro. — Se parla?
La domanda pesa su tutti ed è necessario un po’ di tempo prima che un altro metta il dubbio in parole: — Resteremmo sempre col dubbio, con la paura dietro l’angolo.
— Ma è… — Uno ha buttato là e non si sente di concludere la frase.
— Sono considerazioni personali. Chi non è con noi è contro di noi.
In fondo non sarà poi un male, così si è ripetuto l’uomo prima di convocarli, non sarà poi un male. E’ venuto da fuori con un lavoro da fare, dei contatti e qualche nome su cui contare, sapendo che a Genova c’era gente dura ma testarda. Dopo questo non si tireranno indietro.
Quello che deve essere fatto e che sarà fatto li renderà un gruppo compatto, senza indecisioni e ripensamenti.

Giovedì — nel piazzale
Si volta Olinto. Non ha più l’agilità di un tempo e neppure i motivi per vivere.
E resta lì. Fermo. Sagoma immobile, facile bersaglio per l’uomo con il passamontagna. E’ stanco di vivere. Ha pensato a Renzo, il piccolo, per tutta la notte. Renzo che come lui ha scelto la fabbrica. Perché proprio Renzo? Il suo Renzo diventare uno di quelli…

Dopo è solo un burattino buttato lì, sull’asfalto, fra le rotaie del treno interno.
Il vento si è alzato anche per lui.


Lascia un commento