“Ombre a Trieste” di Davide G. Zardo


Il locale era piccolo e buio, e oltre che di alcool sapeva di fumo e musica jazz. La barista, che quando entrai stava pulendo un bicchiere con uno straccio, sembrava un angelo sorridente, con l’aureola dorata di una lampada gialla intorno ai lunghi capelli biondi, quasi rossicci.

‹‹Sto cercando un’ombra.››, le dissi, avvicinandomi al bancone e tirando fuori una banconota da una tasca dell’impermeabile.

Lei continuò a sorridere, ma i soldi rimasero sul banco.

‹‹E’ un tizio che si fa chiamare così››, aggiunsi, facendo un cenno a una bottiglia piena di un liquido che ricordava l’ambra dei suoi capelli.

‹‹Le ombre sono tante. – disse lei, prendendo i soldi con una mano e la bottiglia con l’altra – E pericolose, a volte.››

Infatti una di loro si staccò da un angolo del bar e venne velocemente verso di me con uno sguardo tutt’altro che amichevole. Era un tipo grande e grosso, con una giacca di pelle nera.

‹‹Ti sta dando fastidio?››, chiese.

‹‹No. – risposi – mi sta solo versando da bere››.

‹‹Non parlavo con te, buffone.››

‹‹Anch’io ne farei volentieri a meno. Ma la vita, si sa, è piena di chiaroscuri.››

Rimase a pensarci su per circa mezzo minuto. Doveva essere il genio del posto.

‹‹Sarebbe a dire?››

‹‹Che è piena di ombre. E forse tu sei una di quelle.››

Non aveva colto l’accenno. Oppure stava facendo finta di niente. Fatto sta che se ne andò, dopo che la ragazza gli ebbe lanciato un’occhiata tranquillizzante. La conversazione doveva essergli parsa insostenibile, con tutti quegli argomenti. Chissà, magari avrebbe anche potuto rischiare di trovarsi di fronte a un congiuntivo.

‹‹Non conosco nessuno con quel nome. – disse la barista – E nemmeno lui, credo.››

Rimasi in silenzio, sorseggiando il liquore. Era dolce ma con un retrogusto secco, deciso. Proprio come doveva essere lei.

Anche l’Ombra era un tipo del genere. Appariva dal nulla, commerciando in fascicoli segreti, documenti militari e governativi, foto e registrazioni compromettenti. Incontrava i suoi contatti in fondo a un vicolo, nell’angolo di una piazza, nel retro di un negozio, sulla terrazza di un albergo. Comprava, vendeva, poi spariva tornando da dove era venuto. Nell’ombra.

L’Agenzia aveva saputo che Grossman sarebbe stato in quel bar proprio quella sera, per incontrare qualcuno. Se fosse lui l’Ombra, o se si trattasse invece del suo contatto, non eravamo ancora in grado di stabilirlo. Ma tutto faceva pensare che quell’incontro ci avrebbe portato a scoprire l’identità dell’agente responsabile della più grande fuga di notizie del nostro governo. E anche di altri.

Quando ad un tratto vidi Grossman entrare, osservando il suo riflesso nel grande specchio alle spalle della barista, mi spostai verso un angolo in fondo al bancone, voltando la faccia dalla parte opposta a quella verso la quale si stava dirigendo l’uomo. Era magro e scavato, con occhiaie tristi accentuate dall’ombra del cappello di feltro grigio che gli copriva la parte superiore del volto come una mascherina. Nella mano sinistra teneva una valigetta ventiquattr’ore.

Ordinò un bicchiere di vino rosso, e dopo il primo sorso si girò verso di me. Non mi conosceva, perciò potevo stare tranquillo. Ma c’era la possibilità che la mia faccia non fosse nuova all’uomo che doveva incontrare.

Dopo circa mezzo minuto, un altro tizio gli si affiancò, mormorando qualcosa alla barista. Era un piccoletto dalla folta barba nera, le mani affondate nelle tasche del cappotto di panno verde.

‹‹Ecco la sua ombra, signore››, disse lei alzando la voce. Non stava guardando dalla mia parte, ma in una frazione di secondo capii che il messaggio era diretto proprio a me.

Lentamente mi girai verso i due. Ma fui comunque troppo veloce, perché il piccoletto diede uno spintone a Grossman e schizzò verso il retro del locale. L’altro barcollò e cadde all’indietro, mollando la presa della valigetta.

‹‹La tenga d’occhio. – dissi alla ragazza – Torno subito››. E tanto per farlo star buono, diedi un pugno in faccia a Grossman.

Era sveglia, la piccola. Aveva usato un termine che lì a Trieste, crocevia dello spionaggio tra Est e Ovest, era molto in voga, ma che era nato a Venezia diversi secoli prima, dai mescitori di vino che in piazza San Marco si spostavano seguendo l’ombra del campanile, per mantenere le loro bevande al fresco.

Sarebbe finito al fresco anche il piccoletto. Aveva le gambe corte, come le bugie. Io invece no.

Quando tornai nel locale tenendolo per il bavero del loden, Grossman stava riprendendo i sensi.

‹‹Sei stato stupido a usare quel termine. – dissi al barbuto – Non sapevi che ti stavamo addosso?››

‹‹Cosa stai dicendo? Non capisco››.

‹‹Come, non te lo ricordi più? Hai ordinato un’ombra. Non è da questo che è nato il tuo nome d’arte?››

‹‹So benissimo cos’è un’ombra. – replicò lui, stizzito – Ma io veramente avevo chiesto un boccale di birra››.

Rimasi impietrito. Mi voltai verso il bancone, ma la ragazza era sparita. Con la valigetta, il suo sorriso angelico e i suoi capelli d’ambra. Nell’ombra.


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