“Onore al dio Sobek” di Rino Casazza


Appena messo piede nel salone, l’Ispettore Capo Paolo Betti provò un senso di disagio.
Gli sembrava che le innumerevoli figure umane con testa ferina lì raccolte – statue, statuette, bassorilievi, dipinti, ceramiche, affreschi murali e quant’altro – lo scrutassero ostili.
Quanto al bieco muso di coccodrillo con le fauci socchiuse e gli occhi inespressivi che, grottescamente incorniciato da una composta chioma scura, lo fissava da sopra la grande cassa oblunga ritta al centro della stanza, sembrava pronto a divorare chiunque varcasse la soglia.
«Che cos’è?» domandò istintivamente.
«Come, non lo sa?» fece il Direttore del Museo, accanto a lui «E’ il pezzo pregiato della collezione: il sarcofago di Sobek, il Dio-Coccodrillo…» Malgrado in quello stesso locale, disteso dietro una grande statua di Seth, la divinità con la testa asinina, si trovasse un cadavere di donna orrendamente mutilato, oggetto in quel momento delle attenzioni di due agenti della scientifica, nella voce dell’uomo era vibrata una nota di orgoglio.
“Tutti uguali, questi patiti dell’antichità”, pensò Betti. “Di fronte ad un importante reperto archeologico non capiscono più nulla…” Fanatici col cervello bacato, ecco cos’erano. Lo dimostrava l’idea di quella macabra esposizione, a cui lui non sarebbe andato spontaneamente per tutto l’oro del mondo: “GLI DEI ZOOMORFI DELL’ANTICO EGITTO: PUNTO D’INCONTRO TRA FERINITÀ E UMANITÀ”. Non sapeva chi era più matto: gli egizi con la trovata delle divinità mezze bestie e mezzi uomini, o gli studiosi che perdevano il tempo dietro a simili cazzate…
«Sarcofago, ha detto?» fece, vincendo la repulsione e avvicinandosi all’ effige «Beh, allora, tanto per incominciare, apriamolo. Ad occhio e croce» aggiunse, dando un’occhiata circolare al salone «mi sembra l’unico buon nascondiglio qui intorno…»
Il Direttore lo guardò inorridito. Doveva considerare la sua proposta poco meno di un sacrilegio. Betti pensò di aver commesso una gaffe: lì dentro c’era una mummia e lui stava attentando alla sua integrità. Non si sbriciolavano forse di colpo, se esposte all’aria?
«Lì dentro?» fece il Direttore «Non ci voglio nemmeno pensare! Il sarcofago è fragilissimo, potrebbe essersi danneggiato!»
Niente mummia, dunque, concluse Betti tre sé e sé. Ma allora che cosa conteneva, quel catafalco?
«Bella domanda» si complimentò il Direttore, quando glielo chiese «Va dritta al cuore del problema «aggiunse compiaciuto, non lasciandosi sfuggire il pretesto per una piccola dissertazione. – A rigore il sarcofago dovrebbe accogliere la mummia della persona raffigurata sul coperchio. – Betti guardò intimorito il lungo muso di coccodrillo – Già! – approvò il Direttore – E’ la stessa reazione che hanno avuto i primi scopritori: un irrazionale ma più che comprensibile timore di trovarvi, imbalsamato e strettamente fasciato con bende di lino, il corpo di Sobek…-
«Senta» si riscosse Betti «non ho tempo per gli aneddoti di archeologia. Sono qui per indagare sull’omicidio. Prenda tutte le precauzioni che vuole, chiami chi crede, ma mi faccia aprire il sarcofago.» E si diresse verso la severa figura marmorea di Seth.
Pur essendo preparato allo spettacolo che gli si presentò davanti, fece una smorfia di disgusto. Man mano che si avvicinava, dietro la statua, vicino al muro, incominciava a spuntare un busto nudo, senza testa, con il collo e gli omeri immersi in una pozza di sangue rappreso. Apparteneva al corpo floscio e rugoso di una donna anziana.

 

La segnalazione era giunta al Commissariato di Piazza San Sepolcro tre quarti d’ora prima, alle 23 circa, quando Betti aveva da poco iniziato il turno di notte. Un custode del Museo Egizio del Castello Sforzesco aveva scoperto il cadavere e dato l’allarme.
Betti si era precipitato sul posto con una pattuglia, a sirene spiegate, parcheggiando la Tipo direttamente nel cortile interno del Castello, davvero suggestivo nella tiepida notte stellata di fine aprile.
Le luci dentro al Museo Egizio erano tutte accese. Era illuminato anche lo striscione, appeso alle mura una decina di metri sopra il portone d’ingresso, che reclamizzava la mostra straordinaria: “IL COMUNE DI MILANO E L’ISTITUTO DI EGITTOLOGIA DELL’ UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, CON LA COLLABORAZIONE DI WORLD MICROCHIPS S.P.A. PRESENTANO GLI DEI ZOOMORFI…ecc ecc”. Betti si era subito ricordato di averne visto uno uguale, sospeso sopra la carreggiata di Via Manzoni.
Ad aspettarlo sulla soglia c’erano il Direttore, prof. Oreste Marinazzi, un ometto piccolo e calvo, e due custodi, uno dei quali, un panciuto sessantenne, a giudicare dall’aria scossa era lo scopritore del cadavere.
Si era soffermato a interrogarlo, alla presenza del Marinazzi, inviando in avanscoperta sul luogo del delitto, accompagnati dall’altro custode, i due agenti della scientifica che si era portato dietro.
Le informazioni raccolte in quel primo colloquio confermavano che il caso era bella gatta da pelare. Il Museo era costituito di sei grandi sale seminterrate, compresa quella, ultima in ordine di successione, che ospitava la mostra straordinaria. Per ragioni di sicurezza, l’unica via d’accesso era una scalinata che dall’ atrio, presso cui stazionava di continuo almeno un custode, scendeva fino alle sale. Tutti gli oggetti asportabili erano magnetizzati con un procedimento speciale, brevettato dalla multinazionale informatica sponsor della mostra, ed erano sensibili al sofisticato rilevatore elettronico (“un vero gioiello”, assicurava il Direttore) in funzione sulla porta della scalinata. Ciò rendeva superfluo qualsiasi controllo sulle borse di chi usciva. Il via vai di visitatori, specie in quel periodo, per l’attrattiva suscitata dalla mostra straordinaria, era notevole. L’orario di apertura al pubblico andava dalle 9 del mattino alle 10.30 di sera. Alle 10.30/10.40, usciti gli ultimi ritardatari, il Museo veniva chiuso. Prima di spegnere le luci, attivare i sistemi d’allarme e sprangare il portone blindato, i custodi facevano, per routine, un ultimo giro. Quella sera l’anziano custode, il signor Nabil Sgrò (“Che strano nome. Di che origine è?” aveva chiesto l’Ispettore, e il Direttore, pronto, con una punta d’ironia: “E lo chiede? Egiziana, no?”), guardando dietro la statua di Seth, per poco non rimaneva secco per lo spavento.
«Tutta nuda e decapitata. Una donna di oltre settant’anni…» aveva rimuginato ad alta voce Betti, al termine dell’inorridito resoconto del sig. Sgrò. «Ricorda di aver visto passare qualcuno che potesse assomigliare alla vittima?» aveva chiesto.
«Mi perdoni, Ispettore» s’era intromesso Marinazzi «ma lei non si rende conto di come è ridotto il corpo. A parte l’età molto avanzata, è privo di qualsiasi elemento di identificazione…Eppoi chissà quante vecchiette entrano ed escono dal Museo…»
«Ho capito, ho capito» aveva aggiunto, un po’ irritato «Ma io mi riferisco ad una vecchietta che è entrata verso la fine dell’orario di apertura…»
«Come?»
«Un delitto come il nostro ha bisogno di libertà di manovra e questa la si può avere solo quando l’afflusso del pubblico si dirada, cioè all’inizio della giornata, durante la pausa pranzo o poco prima della chiusura. Poiché è impensabile che il cadavere sia rimasto lì tante ore senza che nessuno lo scoprisse, la conclusione è logica…Allora, signor Sgrò?»
Il signor Sgrò, ahimè, non ricordava nulla. Betti aveva deciso di lasciar perdere, riservandosi di porre la stessa domanda all’ altro custode. «Beh, andiamo a vedere il cadavere, allora. Se non le dispiace, durante il tragitto faremo una perquisizione. In cerca degli indumenti e della testa della vittima, e dell’arma del delitto.»
Mentre l’impressionabile Sgrò rabbrividiva al pensiero, Marinazzi aveva obiettato: «Tempo perso, Ispettore. Credo che l’assassino li abbia portati con sé. Altrimenti non si sarebbe fatto scrupolo di abbandonarli sul luogo del delitto, non trova?»
«Sono d’accordo. Ma è bene verificare lo stesso»
Era seguita una lenta processione verso l’ultima sala, con Betti che, scrupolosamente, metteva il naso in tutto quanto poteva fungere da nascondiglio: anfore, arche, maschere funerarie, vasi canopi, canestri ecc., e Marinazzi che non si stancava di raccomandargli la massima cautela, temendo che sue mani inesperte facessero qualche danno.
Avevano ispezionato anche i gabinetti, senza tralasciare nemmeno, sebbene chiuse a chiave, le uniche due stanze di servizio. Senza trovare nulla.

«Allora, che ne dite?» chiese Betti ai due della scientifica.
«Beh, » fece uno «come confermerà il medico legale, la morte risale a poche ore fa. La decapitazione è netta, e sembra dovuta ad una lama molto tagliente, credo un’ascia. Purtroppo, a parte i segni della copiosa emoraggia, non si vedono altre tracce. Impronte zero.»
«Di bene in meglio.» pensò Betti «Di questo passo mi toccherà incriminare lo spirito di Tutankamon…»
Si volse verso il custode più giovane, alto e magro, all’incirca trentenne, disciplinatamente in attesa in disparte. «Può venire qui, per favore?» . Quello ubbidì. Si avvicinò anche Marinazzi che, evidentemente, si sentiva calato nel ruolo di supervisore delle indagini.
«Non doveva aprire il sarcofago, professore?»
«Senta Ispettore, sia ragionevole. Questo è un reperto unico, da maneggiare con estrema delicatezza. Non sa quante e quali precauzioni abbiamo preso per trasportarlo dal Cairo. Non posso assolutamente autorizzarne l’apertura. Le assicuro che se qualche folle inesperto l’avesse fatto, mi vengono i sudori freddi solo a pensarci, avremmo trovato a terra qualche pezzo. Non vede che è tutto corroso e scrostato?»
«Aprire il sarcofago di Sobek?» esclamò una voce alle loro spalle «Ma vi ha dato di volta il cervello?»
Si girarono verso la soglia, e videro sopraggiungere, a passo spedito, una donna di mezz’età, alta e asciutta, col volto severo privo di trucco e i capelli grigi raccolti a ciuffo sulla testa, vestita con un goffo tailleur fuori moda.
«Flavia!» esclamò Marinazzi «Anche tu qui? Chi ti ha avvertito?»
«Lui, una ventina di minuti fa» fece la nuova arrivata, indicando il custode più giovane «Mi sono precipitata subito!»
«Si può sapere chi è lei?» chiese Betti, piuttosto irritato.
«Mi presento subito» rispose la donna, in tono orgoglioso «Professoressa Flavia Pedemontani El Kalefh, docente ordinario di Egittologia all’ Università Cattolica del Sacro Cuore. Presidente del Comitato Organizzatore di questa mostra.»
«El Kalefh !?» ripeté Betti, perplesso.
«Sì. E’ il cognome di mio marito, l’archeologo egiziano Omar El Kalefh, il più grande del dopoguerra. Ma già, lei non l’avrà nemmeno sentito nominare…» concluse con una punta di sprezzo.
Vedendo Betti incupirsi, Marinazzi intervenne per gettare acqua sul fuoco. «Ehm…, la qui presente Professoressa, Ispettore, è una valentissima studiosa, degna del suo compianto consorte. Se questa importante mostra è stata fatta, è anche merito suo. Quanto alla viva preoccupazione per l’integrità del sarcofago di Sobek, si deve al fatto che da una decina d’anni è impegnata nello studio del reperto, di cui è la massima conoscitrice.»
Betti aveva una gran voglia di ripetere la richiesta di aprire quella stramaledetta bara egizia, aggiungendo a tutti e due di togliersi dai piedi, invece prevalse la curiosità, e fece, accennando col capo al sarcofago: «Ma che cos’ha di tanto notevole?»
«Che cos’ha di notevole?» esclamò la Pedemontani «Tutto!» Per incanto, come già’ il prof. Marinazzi, dover illustrare a un estraneo le meraviglie del prezioso oggetto l’aveva trasfigurata, convertendo la sua sgradevole alterigia in contagioso entusiasmo «Innanzitutto l’immagine scolpita sul coperchio, quella di una divinità invece che di un defunto»
«Si può sapere chi c’era dentro?» chiese Betti.
«Il sarcofago è stato ritrovato vuoto. Ma taluni pensano, e anch’io sono di questo parere, che in origine contenesse un gigantesco coccodrillo mummificato» La faccia perplessa di Betti spinse la Pedemontani a precisare: «E’ un’ipotesi tutt’altro che fantasiosa, per chi conosce il culto dei coccodrilli sotto il faraone Huni, della III dinastia, nella cui piramide “a gradoni”, un gioiello della necropoli di Saqqara, nel Basso Egitto, è stato ritrovato il sarcofago di Sobek. Una scoperta sensazionale, colorata di romanzesco, avvenuta nel 1961. Pensi che la piramide di UNI era stata violata e i tesori della camera funeraria saccheggiati subito dopo la morte del faraone, ma nessuno, fino a 36 anni fa, si era mai accorto del lungo cunicolo sotterraneo che conduceva alla “stanza di Sobek”»
«Se questo luogo è rimasto sconosciuto fino al nostro secolo, chi avrebbe trafugato la mummia di coccodrillo?»
«Sono state trovate tracce di una precedente penetrazione. Forse da parte di un membro della stessa famiglia reale, che si è impadronito del coccodrillo per motivi imprecisati, e poi ha richiuso il passaggio. Ma è tutta la vicenda del sarcofago, ad essere avvolta nel mistero. Venga con me.» fece, invitandolo ad avvicinarsi all’oggetto. Betti lo seguì riluttante. Il racconto l’aveva catturato, ma non era sicuro che servisse all’indagine.
«Ecco, come noterà» spiegò la professoressa «il sarcofago, in legno pregiato, originariamente doveva recare nella parte inferiore, dove finisce il busto della figura, numerosi disegni e iscrizioni, ma sono stati accuratamente raschiati. Anche l’interno del coperchio è raschiato nella parte superiore, dietro la testa e il busto. A mio parere tutto ciò è opera del contemporaneo di Huni che ha trafugato la mummia di coccodrillo. Altri invece sostengono che…»
«Argomento affascinante, professoressa,» l’interruppe Betti «ma non ho ancora ben capito perché lei e il Direttore insistete a non aprirlo»
Lo sguardo della Pedemontani tornò tagliente. «Perché ciò rischierebbe di mandare stupidamente in fumo il mio lavoro dell’ultimo mese, ecco perché!»
Di nuovo Marinazzi, per evitare possibili scintille tra i due, s’intromise. «La professoressa Pedemontani, Ispettore, sta tentando di applicare al sarcofago una nuovissima tecnica informatica per l’analisi e la ricostruzione dei reperti archeologici danneggiati. Il software è stato realizzato dalla World Microchip S.P.A su misura per la professoressa, che l’ha ulteriormente affinato e personalizzato. La tecnica si chiama “prospezione frattalica”»
«Fratta che?» fece eco Betti.
«Frat-ta-li-ca.» scandì Marinazzi «Basata cioè sulla “geometria dei frattali”, del matematico Mandelbrot. I margini estremi delle parti rovinate vengono fotografati e ingranditi in modo da evidenziarne la microstruttura geometrica. Poiché questa segue precise regole di simmetria, è possibile calcolare e visualizzare le parti prossime mancanti. E’ un procedimento lungo e complesso, perché per verificare e aggiustare la prospezione è necessario ogni giorno fornire al computer nuovi dati, relativi alla microzona rovinata immediatamente vicina, e così via, ma alla fine, grazie alle particolari elaborazioni di cui solo la nostra insigne professoressa conosce le diavolerie, si dovrebbe ottenere un’immagine accettabile della superficie com’era prima di essere scrostata. Naturalmente è essenziale che quest‘ ultima non si alteri durante il processo. Ecco perché da quando è iniziato cerchiamo di evitare al sarcofago sollecitazioni non dovute…»
“Non dovute. Sic!” considerò Betti tra sé e sé.
«Comunque» aggiunse la Pedemontani «domattina faremo la prima fotografia a raggi X, dal di fuori, senza aprirlo, dell’interno del coperchio, e se lo desidera, fotograferemo l’intera cavità del sarcofago. Così potrà rendersi conto che è assolutamente vu…»
Fu interrotta dal grido di stupore di uno degli agenti. «Ispettore, venga!»
Si affrettarono tutti verso la statua di Seth, dove il cadavere era stato appena rivoltato. Sull’avvizzita pelle della schiena un’affilata lama aveva inciso una nitida doppia fila di segni. Come anche un non addetto ai lavori quale Betti riconobbe immediatamente, si trattava di una scritta geroglifica.
«E questo che significa?» esclamò l’Ispettore.
Dietro di lui la Pedemontani, seria e impassibile, lesse: «Onore al Dio Sobek, possente signore del grande fiume» Quando Betti si volse a guardarla meravigliato, aggiunse: «E’ l’invocazione con cui si aprivano le cerimonie religiose in onore del Dio-Coccodrillo. Il prof. Marinazzi le ha parlato dei riti di decapitazione molto diffusi sotto il regno di Huni e in genere nell’ultima fase della III dinastia?»
«Riti di CHE COSA?» A Betti sembrava di sognare.
Marinazzi era confuso. «Veramente, non ce n’è stata ancora l’occasione…»
«Volete seguirmi tutti e due nell’ Ufficio di Direzione?» fece l’Ispettore, incredulo e indignato a un tempo. – E venga anche lei- aggiunse sbrigativo, rivolto al custode più giovane- signor…signor?»
«Lo Cascio. Hassan Lo Cascio.» rispose questi.

Betti condusse aggressivamente gli interrogatori. Per prima cosa sottopose il custode ad una serrata batteria di domande sull’ ultima ora di servizio: dove l’aveva trascorsa, che cosa aveva fatto, chi aveva visto passare ecc ecc. Il giovane, seppure intimidito, aveva risposto in maniera credibile. Non ricordava movimenti sospetti né se poco prima della chiusura era entrata una vecchietta: sfilavano così tante facce sotto i suoi occhi, nel corso della giornata… Quando l’altro collega era andato a fare l’ultimo giro, se ne era rimasto in anticamera, ed era accorso al suo grido di terrore. S’era adoperato per calmarlo, poi aveva telefonato al prof. Marinazzi, che risiedeva nelle vicinanze e questi, prima di precipitarsi sul posto, dove era arrivato in pochi minuti, lo aveva invitato a chiamare senza indugio la polizia.
«Perché ha avvisato anche la professoressa Pedemontani, signor Lo Cascio?»
«Beh, mi sembrava normale» rispose dopo un attimo di imbarazzo «visto il suo ruolo nella Mostra…»
Congedatolo, Betti si dedicò ad interrogare i due egittologi.
» Nabil, Hassan» esordì, fissandoli severo, e si vedeva che era tentato di aggiungere “El Kalefh” » Che cos’è, questo Museo, una colonia egiziana?»
«Guardi Ispettore» fece Marinazzi «non so a cosa stia pensando, ma le assicuro che la spiegazione è molto banale: il signor Lo Cascio è nipote del signor Sgrò. Appartengono ad una famiglia siciliana di lontane origini egizie che, per antica consuetudine, impone ai primogeniti un nome avito. Il fatto che siano entrambi dipendenti del Museo Civico (il signor Lo Cascio con un contratto trimestrale) è solo un esempio del nepotismo nelle assunzioni comunali…Devo però dire che il sig. Sgrò ha sempre svolto il suo lavoro con encomiabile solerzia, dimostrando che la scelta di mettere un custode di sangue egiziano in un Museo Egizio è stata felice…Ed anche il nipote mi sembra un buon elemento.»
«Uhm…Veniamo ai riti di decapitazione. Di che si tratta?»
«Glielo spiego io» intervenne la Pedemontani «Il culto di Sobek culminava in crudeli ed esaltate cerimonie sacrificali, in cui veniva tagliata la testa di un gruppo di vittime e gettata nelle acque del Nilo, per sfamare i branchi di coccodrilli…Quanto ad Huni, era così devoto a Sobek che dopo la morte voleva farsi assistere da lui nella cerimonia della “pesatura dell’anima” di fronte al tribunale dell’aldilà, e per ingraziarsene la benevolenza ha fatto mettere accanto al proprio sarcofago una ventina di teste tagliate. Nella camera funeraria sono stati rinvenuti i teschi…»
Trattenendo un’espressione di disgusto Betti commentò, rivolto a Marinazzi: «Perché non me ne ha parlato subito? Non le è venuto in mente che qualche fanatico potrebbe aver rinverdito i barbari riti di quel faraone?»
«Beh…mah…»
«E quando ne ha avuto il tempo?» lo soccorse la Pedemontani «lei è piombato qui come un carrarmato, interrogando, perquisendo, pretendendo di sballottare il sarcofago di Sobek. Era troppo occupato ad arginarla…»
Betti si sentì cadere le braccia. Del resto, aspettarsi collaborazione da quei due fanatici saccenti era pura utopia…

Nei due giorni successivi, Betti ebbe solo motivi di malumore. L’interesse morboso suscitato dal caso (l’edizione serale di un noto TG aveva immaginosamente titolato: “L’ OMBRA DELLE PIRAMIDI SI ALLUNGA SINISTRA SUL CASTELLO SFORZESCO”) faceva ben sperare che in breve tempo si sarebbe fatto avanti qualcuno in grado di identificare il cadavere. Invece niente: a parte i soliti mitomani, nessuno sembrava essersi accorto della scomparsa della povera vecchietta.
Dopo un giorno di chiusura, il Museo aveva riaperto. Per la pubblicità dell’omicidio, si era registrato un cospicuo aumento di visitatori nelle ore diurne, mentre in quelle serali le sale rimanevano deserte…
L’ Ispettore si era dedicato ad indagare sui due custodi e sui due professori. Con la stampa era rimasto abbottonato, ma le circostanze del delitto indirizzavano decisamente i sospetti verso qualcuno, o più d’uno, che lavorava nel Museo. Purtroppo, non era riuscito a trovare appigli validi. Sgrò e Lo Cascio, entrambi sposati con prole, erano due normali immigrati di prima e seconda generazione, riservati e tradizionalisti come tutti i siciliani. Anche l’usanza famigliare sui nomi egizi era risultata vera. Marinazzi e la Pedemontani si erano confermati due cervelloni interamente, maniacalmente dediti allo studio dell’Antico Egitto. Marinazzi era scapolo, e la Pedemontani dopo il matrimonio senza figli con Omar El Kalefh, non si era risposata. I due si rispettavano, ma non erano amici. Anzi, forse, come spesso accade nell’ambiente accademico, un po’ rivali.
La prima vera svolta nelle indagini avvenne il terzo giorno, quando il titolo dell’articolo di un commentatore esperto in cose mediorientali: “UNA POSSIBILE PISTA NEL DELITTO DEL CASTELLO: I SEGUACI DI SOBEK, DIMENTICATO GRUPPUSCOLO ANTISIONISTA DEGLI ANNI 60”, fece saltare Betti sulla sedia. L’ Ispettore aveva così appreso che dal 62 al 64, sull’onda del ritrovamento del sarcofago, una banda clandestina, denominatasi “I seguaci di Sobek”, divinità simbolo della fermezza del faraone nel piegare sudditi e nemici, aveva perpetrato tre decapitazioni nel quartiere ebraico del Cairo. L’articolo terminava segnalando, malignamente, che il defunto marito della Pedemontani, il grande archeologo Omar El Kalefh, era un fervente antisionista.
Ce n’era abbastanza per recarsi a chiedere spiegazioni alla professoressa.

Betti si presentò senza preavviso nel disordinato studio della Pedemontani, all’Istituto di Egittologia della Cattolica. La donna era davanti al video del computer, immersa nei calcoli e nelle elaborazioni del programma di prospezione frattalica.
Era così eccitata che a stento si accorse di lui.
«Ha letto il Corriere, professoressa?»
«Eh? Cosa vuole che mi ne importi dei giornali! Sono praticamente riuscita a ricostruire la parte esterna del coperchio, capisce?»
«Ah, sì? Magnifico!» ironizzò Betti «Si dà il caso però che io debba scoprire un assassino e…»
«Si rende conto» lo travolse col suo incontenibile entusiasmo «che avevo ragione io? I disegni rappresentano l’immagine di Sobek che esce trionfante dal sarcofago! Sa cosa troveremo disegnato all’ interno?»
«Ma che cosa vuole che me ne…»
«La scena della deposizione nella cassa di un coccodrillo mummificato! Capisce? Il sarcofago era lo strumento per un rito di evocazione simbolica del Dio: Sobek che risorge dalle spoglie di un coccodrillo morto!»
«Perché non mi ha parlato dei “Seguaci di Sobek”?» venne brutalmente al dunque Betti.
La Pedemontani parve finalmente prestargli un po’ di attenzione. «Dove ha sentito di quella storia?»
«Sul Corriere, come le dicevo. Lei però dovrebbe avere qualche notizia di prima mano sull’argomento, appresa da suo marito…»
Questa volta la Pedemontani s’inalberò. – Che vorrebbe insinuare? –
«Che lei sa molte, troppe cose che non vuol dirmi, professoressa. Ma sappia che la tengo nel mirino. C’è un filo che lega lei, il delitto e quell’ obbrobrioso Dio dal muso di rettile, e stia pur certa che lo scoprirò!»
«Beh, allora se vuol proprio saperlo, prima che glielo dicano altri, io e mio marito ci siamo sentiti orgogliosi che i Seguaci di Sobek avessero trovato nella nobile, ineguagliabile cultura egizia le radici della loro lotta contro gli ebrei usurpatori!»

Il giorno dopo Betti era ormai lanciato sulla pista di un omicidio rituale, probabilmente di una vecchietta ebrea, commesso da una banda composta da Lo Cascio, Sgrò e la Pedemontani, con la possibile complicità anche di Marinazzi. Questa ricostruzione mancava di parecchi importanti tasselli, ma Betti pensava che una volta dimostrato un diretto legame fra la professoressa e i due custodi – e “doveva” esserci, per Dio!, i nomi egizi dei tre stavano lì ad indicarlo – le cose si sarebbero chiarite di molto. L’identificazione del cadavere – che continuava a tardare, ma, diamine!, non ancora per molto, no? – avrebbe fatto tornare definitivamente i conti.
Fu così con un senso di smarrimento che accolse l’arrivo, nella posta del Commissariato, di una lettera anonima indirizzata a lui. Diceva, semplicemente: “Che fine ha fatto l’anziana zia del prof. Oreste Marinazzi?”
Marinazzi aveva un’anziana zia? Fece fare una rapida indagine, e scoprì che nell’appartamento sopra l’abitazione del Direttore del Museo viveva, sola, l’ultrasettantenne sorella della madre… Una vecchina piena di acciacchi, che usciva poco, della quale l’affezionato nipote, unico parente rimastole, si prendeva amorevolmente cura. Negli ultimi giorni nessuno l’aveva più vista. La signora, Maria Luisa Folli si chiamava, era di origini emiliane. Betti, un po’ a sproposito, fece verificare se aveva ascendenze ebraiche, ma la risposta fu negativa.
Piuttosto scettico, ma allo stesso tempo anche un po’ disorientato, si decise a mandare un poliziotto in borghese a suonare il campanello della signora Folli, a metà pomeriggio, quando sapeva per certo che Marinazzi era al lavoro. Non rispondeva nessuno.
“E’ assurdo” pensava Betti “Anche ammesso che Marinazzi avesse un movente per uccidere la zia, il che è tutto da dimostrare, perché mai scegliere un modo così crudele e soprattutto contorto? Di più: perché ricorrere alla complicità, ovviamente indispensabile, di Sgrò, se non anche a quella di Lo Cascio? I complici sono sempre un rischio…Eppoi, come si può pensare che due innocui custodi di Museo si prestino ad una sanguinosa messinscena come questa? A meno che…” Incominciò a frullargli in testa l’ipotesi, ardita ma allettante, di un delitto “a doppia chiave”, in cui il movente antisionistico-rituale, che rimetteva in gioco anche l’altera Pedemontani, si fondeva a quello personale-famigliare di Marinazzi.
Ma prima di ogni altra considerazione era indispensabile visitare l’appartamento della signora Folli.

Per tagliare la testa al toro, decise di farlo quella sera stessa. Andò di persona, in borghese, facendosi accompagnare da un agente esperto nell’uso del grimaldello. Alle 20 e 30 erano davanti alla porta dell’appartamento, al quarto piano di una vecchia casa di Via Dell’Orso con le scale ripide e senza ascensore. La serratura cedette facilmente, ed iniziarono un’accurata perquisizione. In casa non c’era nessuno, ma le stanze erano in ordine come se qualcuno le avesse abitate fino a qualche giorno prima. Nel frigo c’era cibo fresco e il letto era rifatto. Si soffermarono sugli abiti e sulle foto della signora, che risultò essere di altezza e corporatura compatibili con il corpo ritrovato al Museo. Stavano frugando nel cassetto di un comodino, colmo di scatole di medicine contro le affezioni bronchiali acute, usate di recente, quando udirono armeggiare alla porta, e prima che potessero imbastire una qualsiasi reazione, si ritrovarono di fronte l’allibito Marinazzi.
«Ispettore! Che cosa ci fa qui?»
«Lo chiedo io a lei» replicò Betti, aggressivo «Dov’è finita sua zia?»
Marinazzi rimase per un attimo perplesso, poi scoppiò in una risata che suonò sgradevolmente derisoria alle orecchie dell’Ispettore. «Ma che cosa si è messo in testa? Che abbia decapitato la mia dolce zietta per immolarla al Dio Sobek?»
«Non usi questo tono con me!» provò a reagire Betti.
«Venite, venite di sotto» proseguì Marinazzi, sempre più divertito, il che accentuava il disagio e l’irritazione di Betti. Ma non c’era niente da fare: avevano rimediato una figuraccia. In barba all’ingeneroso e malfidato autore della lettera anonima, in un letto vicino a una stufa elettrica riposava la spaurita ma oramai quasi sfebbrata signora Folli. Il nipote l’aveva convinta a curare a casa sua la fastidiosa bronchite che l’affliggeva da alcuni giorni.
«Meno male che sono salito a prendere la biancheria della zia e vi ho scoperto» infierì Marinazzi «altrimenti chi mi avrebbe salvato da un arresto?»
A Betti non rimaneva che subire in silenzio. Per fortuna in suo soccorso giunse il trillo del cellulare. Si appartò per rispondere, e saltò letteralmente in aria:
«CHECCOSA? Arrivo subito!»
A Marinazzi, che lo guardava disorientato, nel precipitarsi alla porta comunicò: «Hanno trovato morta la Pedemontani. Sul pianerottolo di casa sua.»

La scena del nuovo delitto era impressionante. La professoressa era distesa in un lago di sangue davanti alla porta socchiusa. Decapitata ma, contrariamente alla vecchietta del Museo, vestita e con la testa che giaceva, macabramente, a lato del corpo. L’assassino l’aveva sorpresa alle spalle mentre stava entrando.
Il portiere dello stabile era uno straccio. Il delitto era avvenuto al più tardi un’ora prima, dopo che la professoressa, passando davanti al gabbiotto della portineria, era rientrata dal lavoro, ma l’uomo, confuso e scosso, non riusciva a fornire indicazioni utili. Nel trambusto dei rilievi medico-legali e scientifici, Betti cercava di interrogarlo in preda ad un crescente nervosismo.
Il prof. Marinazzi, accorso sul posto assieme a lui, guardava il povero corpo della Pedemontani e scuoteva il capo. «Una perdita incalcolabile!» ripeteva sconsolato «Flavia stava per ricostruire i disegni sul sarcofago. E adesso? Lei sola sapeva usare il software per la prospezione frattalica…»
Betti gli rivolse un’occhiata di rimprovero. Quell’uomo non era normale. La morbosa passione per l’egittologia non lo abbandonava neppure di fronte alla morte orrenda della collega…Irritato, l’Ispettore proseguì nello strapazzare il portinaio.
«Senta, non è possibile che dopo l’arrivo della professoressa non abbia visto uscire persone sospette. Ci pensi meglio, per Dio!»
«Le ho già detto che mi sono assentato per qualche minuto…Per il resto ho visto passare solo due inquilini e gli ultimi clienti dello studio dentistico al primo piano.»
«Sì, lo so: una mamma con un bimbo di circa dieci anni e quell’avvocato che ha lo studio qui vicino…»
«No, aspetti. Adesso mi viene in mente che è uscita anche una vecchina un po’ ingobbita con una sciarpa intorno al collo ed una grossa sporta…»
«COME HA DETTO?»
Impaurito il portiere ripeté la descrizione, mentre Betti lo fissava con gli occhi sbarrati. Nella sua mente stavano sovrapponendosi vorticosamente una serie di immagini. L’indecifrabile sarcofago con la testa di coccodrillo. Le iscrizioni raschiate e la prospezione frattalica che doveva rivelarle. La vecchietta nuda e senza testa, di cui nessuno rivendicava la scomparsa. La vecchietta con la sciarpa e l’ampia sporta. La professoressa che gli diceva, entusiasta: “I disegni rappresentano l’immagine di Sobek che esce trionfante dal sarcofago! Sa che cosa troveremo disegnato all’ interno?”
Scattò giù per le scale con un’espressione da matto, trasognata e atterrita a un tempo.

Dopo una concitata corsa in macchina, giunse al Museo del Castello Sforzesco. Vedendolo arrivare con quell’aria stravolta Sgrò e Lo Cascio si scambiarono uno sguardo smarrito.
«E’ entrata una vecchietta con una sciarpa intorno al collo e una grossa borsa?» chiese Betti. Prima che potessero rispondergli, si era già precipitato verso le sale deserte. Raggiunse ansimando l’ultima e si appoggiò allo stipite per riprendere fiato.
Nel locale stava svolgendosi una scena sinistramente irreale. La vecchietta era ferma di fronte al sarcofago. Sopra le spalle aveva solo la base del collo, recisa di netto ma completamente esangue, e stava riponendo nella sporta, appoggiata a terra, la propria testa.
Con gesti rapidi, trasse dalla borsa una grande testa di coccodrillo, la sollevò in alto e se la innestò sulla cervice. Rivolse per un attimo lo spaventoso muso ghignante verso l’Ispettore poi, afferrati i bordi esterni del coperchio, lo aprì con mossa decisa e lo appoggiò contro un lato del sarcofago. Gettata la borsa nella cassa, sollevò di nuovo il coperchio e, reggendolo davanti a sé, indietreggiò fin dentro la cavità, che la conteneva esattamente.
Betti notò solo allora che era fatta per un uomo della corporatura media di 5000 anni fa, pressappoco simile a quella di una minuta donna utrasettantenne di oggi…
Il coperchio si richiuse con un colpo secco. Trascorsero alcuni secondi in silenzio, poi dall’interno della cassa provennero alcuni rumori indecifrabili. “Sta facendo quanto era descritto nella parte interna del coperchio!”, pensò Betti.
Vi fu un ultimo suono strano, come una specie di risucchio, poi più nulla.
Nelle sale vicine echeggiavano i passi e i richiami dei portieri. Betti non se ne curò. Affascinato, si avvicinò al sarcofago e, con gesto temerario, riaprì il coperchio. Dentro non c’era nessuno. Era rimasta, sul fondo, solo la sporta. Poiché, convinto dai due egittologi, non aveva più fatto perquisire la cassa, avrebbe potuto trovarsi lì fin dalla sera del delitto. Conteneva, orridi trofei, la testa della vecchietta e i suoi abiti. Mentre sulla soglia Sgrò e Lo Cascio gli urlavano allarmati di lasciar stare il reperto, Betti si chinò febbrilmente a frugare, rialzandosi con in mano la carta di identità di Antonietta Merici, vedova Pieri, pensionata, classe 1921, residente a Corsico.


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