"Pioggia sulla città" di Massimo Fagnoni


img_4600Piove.

È decisamente un marzo piovoso, piove oltre ogni ragionevole aspettativa.
Bologna è lucida d’acqua, i tetti rossi del centro sono percorsi da torrentelli selvaggi che finiscono nelle grondaie e subito verso il suolo a riempire le fognature, che a fatica continuano a raccogliere questo dilagante inizio di primavera.
A lui non interessa il clima, la pioggia lo accompagna, lo nasconde agli occhi della città.
Bologna è una piccola città, piena di luoghi oscuri, dove le persone per bene non si avventurano. È completamente avvolto da un poncho impermeabile, verde militare.
Il cappuccio nasconde i lineamenti. Visto da lontano potrebbe sembrare Bruce Willis in Unbreakable, il super eroe buono che si aggira nella città a salvare gli innocenti.
Stiamo parlando del personaggio di un film.
La realtà è diversa, sempre.
Lui non è buono, la cattiveria non è un aggettivo, o un’opinione.
Lui ne è l’incarnazione, a lui piace fare male.
I suoi desideri diventano realtà, non è in grado di contenerli.
Come certi bambini che non sopportano le frustrazioni anche lui pesta i piedi e fra sé e sé vince sempre la parte malvagia.
È notte. Nella pioggia, trascina un corpo. Sopra di lui, a venti metri d’altezza, la pioggia colpisce inclemente il tetto del capannone numero dieci del grande stabilimento della “Casaralta”.
Un tempo in questo luogo costruivano treni, li facevano con l’amianto, perché l’uomo allora pensava che servisse solo per isolare le carrozze. Adesso è un luogo abbandonato.
Centinaia di metri quadrati in rovina, decine di capannoni enormi, desolati, scarnificati da balordi notturni che hanno bruciato, depredato, distrutto le macerie che gli uomini hanno lasciato alle loro spalle.
La notte, questo luogo si popola di sinistre presenze.
Uomini approssimativi, extracomunitari allo sbando, gruppi di punk bestia con i loro pitbull, bande giovanili in cerca d’emozioni.
Qui c’è posto per tutti, ognuno a suo rischio e pericolo.
Lui non ha paura di nulla, perché è la quinta essenza del male.
Gli altri animali del posto lo annusano da lontano e lo evitano.
Sta trascinando il suo ultimo cadavere. Poche ore fa quel fagotto di stracci insanguinati era una ragazza, aveva un nome.
Da qualche parte ci sono adulti che stanno piangendo nell’attesa di un segnale, nella speranza di una notizia, che presto arriverà.
Lui non pensa. Ha preso ciò che questa sera gli serviva.
Un bisogno. Un desiderio. Ha affondato le mani e le zanne nel giovane corpo.
Tutto ciò che è necessario.
Questa è la sua unica religione, adesso è stanco, trascina il cadavere, come se fosse un sacco di patate. Al termine della strada un cadavere non è nient’altro che un corpo, senza il conforto dell’anima. Quella, se veramente c’era, si è alzata per scappare da quel luogo oscuro.
Il Maresciallo Greco si sveglia di soprassalto.
Nel suo piccolo monolocale in Via Solferino, la pioggia colpisce con violenza le imposte.
Abita qui da un mese.
Da quando la sua ultima compagna lo ha scaraventato fuori di casa sua.
Greco con le donne ha sbagliato qualcosa di fondamentale.
A quarantacinque anni non sa ancora cosa.
Lavora sedici ore al giorno, è vero.
Al lavoro si dimentica gli anniversari, i compleanni, gli onomastici e le feste istituzionalizzate.
Le donne certe cose non le possono capire.
Trovare una donna che riesce a sopportare gli appuntamenti dimenticati, le serate con i genitori naufragate, le feste e tutte le ricorrenze disertate è abbastanza difficile.
E’ corretto aggiungere che Greco non è il classico maresciallo dei carabinieri, con l’alta uniforme stirata e le medaglie in bella mostra.
Lui coordina il nucleo operativo dei carabinieri di Bologna.
Lavora in borghese.
Più che in borghese, con la divisa incollata alla pelle.
Lui lavora nei luoghi più complicati della città, s’insinua in posti dove nessuno vuole andare e scova i cattivi, quelli veri, come solo i segugi sanno fare.
Si è svegliato a causa della pioggia battente.
Una fitta alla spalla sinistra gli dà il tormento ad ogni cambio di stagione.
Il dolore alla spalla è il ricordo più vivo dei sei mesi in Iraq.
Ha lavorato all’ufficio traduzioni e collegamenti internazionali.
La sua conoscenza dell’arabo gli ha permesso di avere quell’incarico.
Una bomba artigianale lo aspettava sulla strada percorsa dal suo convoglio durante uno spostamento dalla caserma bunker.
Una scheggia di metallo gli è entrata nel braccio ed è fortunosamente uscita senza danni.
E’ tornato a Bologna, con una medaglia e i gradi di maresciallo maggiore.
L’Iraq gli è rimasto nel cuore.
Sabbia e sudore. Paura, sangue e gli occhi di bambini incolpevoli.
In quel paese si muore per motivi misteriosi.
A Bologna, in questo momento qualcuno uccide per i soliti motivi.
Sesso, potere, pura crudeltà, noia.
Sono state uccise due adolescenti. Due ragazze normali, che tornavano alla loro casa pensando ai compiti da fare, al fidanzatino, ai primi amori, all’esame per il patentino.
Occhi grandi, corpi sinuosi, apparecchi per i denti.
Capelli lunghi, grandi speranze.
Una ragazza al mese, due omicidi nel giro di pochi mesi.
Non si può più parlare di un caso. C’è un seriale che si aggira per la periferia della città.
Greco coordina 15 carabinieri.
Tutti giovani, arrabbiati e grintosi, la divisa gliel’hanno tatuata nel DNA.
In realtà non l’indossano mai, loro lavorano in borghese.
Arrivano dopo che gli altri sono passati. Si appostano in luoghi spaventosi.
Sono i carabinieri del nucleo operativo. Greco si aggira in boxer per il piccolo monolocale.
Gli è piaciuto subito l’appartamento, è come lui, buio, riservato, sgualcito e accogliente.
In un angolo c’è la scrivania con il personal computer sempre acceso.
Dall’altra parte c’è la cucina, sempre pulita, perché Greco mangia poco, male e solitamente altrove. L’unico locale separato è il bagno, minuscolo, essenziale.
Greco apre il piccolo frigorifero, tira fuori una Beck’s ghiacciata e si siede davanti al personal per riguardare i dati scaricati dall’ufficio.
Deve imporsi di concentrarsi sulle fotografie delle due quattordicenni violentate e uccise.
Nelle fotografie sono vive, piene di desideri.
La belva, le ha viste, osservate, desiderate, le voleva consumare, dilaniare, distruggere.
Sono simili le due ragazze, alte, attraenti, capelli castani, lunghi.
Corpi allenati d’adolescenti, studentesse di terza media.
I giornali parlano dell’allarme extra comunitario.
I vari partiti si sbizzarriscono nelle raccolte firme.
La caccia al mostro è iniziata.
Greco sorseggia la Beck’s, accende una Marlboro, si gratta la barba di due giorni.
È piccolo Greco, alto un metro e sessantotto, magro, con una coda di cavallo che comincia ad ingrigire. Il suo costume di scena comincia ad essere poco credibile.
Sembra uno di quei nostalgici del settantasette, che continua a sfilare nelle manifestazioni studentesche perché non saprebbe dove altro andare.
Greco ha voglia di terminare quest’indagine, togliere gli abiti di scena e tornare a fare il maresciallo dei carabinieri, magari in una stazione fuori Bologna.
Non capisce più questa città, i suoi ritmi, la violenza, l’orrore gratuito, la morbosità dei quotidiani locali. In questo momento i suoi ragazzi sono in giro, nella notte, sotto la pioggia, nei posti più fetidi della città, in cerca di un indizio.
Non è ammesso tempo per il riposo, quando c’è una belva in libertà.
L’assassino è sazio. Si trascina come un ubriaco fuori dalla grande area abbandonata.
In questo momento è vulnerabile, come un coccodrillo con la pancia piena.
Si muove veloce fra le ombre dei capannoni che un tempo accoglievano vagoni ferroviari.
Topi famelici e grossi come gatti si aggirano in quei luoghi.
Nella mente dell’assassino esplodono immagini. Una vera tortura per l’uomo.
Rivede il corpo della ragazza, mentre si muove fra la gente, ignara di essere spiata e seguita. La vede sorridere ad uno sconosciuto.
La ricorda nell’atto di salire sull’autobus che la porta verso il centro della città.
L’ha desiderata. Un languore continuo allo stomaco.
Un appetito incontenibile, un’ansia di possesso, nei confronti di tanta bellezza, ancora incontaminata. Adesso, terminato lo scempio, non rimane nulla da desiderare.
Una stanchezza pesante lo raggiunge, mentre rientra nella sua tana, fradicio di pioggia, sporco di sangue. Ci vorrà ancora un’ora prima di potere riposare.
Ci vuole una doccia purificatrice, per eliminare tutte le tracce.
Sa già che non potrà dimenticare quegli occhi, è per questo che li ha portati con sé, per poterli conservare per sempre.
Una telefonata interrompe il sonno leggero di Greco.
“Pronto” riesce a biascicare nel cellulare.
“Maresciallo sono Albanese”.
“Che ore sono ragazzo, e dove sei?” chiede Greco, mentre si siede sulla sponda del suo letto da single.
“Sono le cinque Greco e abbiamo trovato la terza ragazza.
Mi dispiace dirglielo così, siamo abbastanza a pezzi, nel complesso. E’ meglio se ci raggiunge subito, presso Casaralta, appena fuori ci sono le auto”.
Cerca il pacchetto di sigarette. Ne accende una, sente la nicotina che gli entra in circolo.
Per un secondo spera che lo uccida in quell’istante.
Impreca piano Greco, dentro di sé.
Albanese non deve sentirlo.
“Arrivo subito”.
Scende in strada dopo essersi vestito approssimativamente.
Anfibi, una giacca militare sdrucita, la Beretta infilata come un coltello nella fondina in cuoio marrone che porta dietro la schiena.
Jeans neri e orecchino d’ordinanza.
Sembra un terrorista in pensione.
E’ arrabbiato Greco, mastica parole che è meglio non ascoltare e sa già che sarà una giornata da dimenticare.
Sale sulla Tipo che non vuole decidersi a rottamare.
Dal portico all’auto dieci metri di pioggia battente.
Sale in auto già fradicio, la reazione con l’abitacolo interno dell’auto provoca l’immediato appannamento dei vetri.
Il maresciallo mette in moto e parte, cercando, con le mani, di pulire i vetri interni dell’auto. Da Via Solferino a Casaralta pochi minuti. Si scivola dal centro alla prima periferia. La periferia in Via Ferrarese fa paura.
Inizia lì e s’ingrandisce la Chinatown bolognese. In Via Ferrarese comandano i cinesi.
Davanti a Casaralta ci sono le auto dei carabinieri, la scientifica, i primi giornalisti, il Vicequestore. Greco sente il freddo salire lungo la spina dorsale.
La scena non lascia spazio per le parole. Il rituale lo stesso delle altre volte.
I tempi si sono accorciati, dalla seconda alla terza vittima solo 15 giorni.
Il cadavere è al centro esatto di un capannone, adagiato in una pozza d’acqua piovana che cade da un lucernario del tetto sfondato.
Greco si china vicino alla vittima, a fianco del medico legale.
“Dimmi qualcosa che non so” sospira Greco nell’orecchio di un uomo ossuto, pelato, con gli occhiali, che sta esaminando il cadavere.
L’uomo, un cinquantenne segaligno, vestito con un impermeabile degno del miglior Colombo, si gira verso Greco, con lo sguardo assente, acquoso, senza speranza.
“Solita modalità, un colpo di taglio alla gola.
Gli occhi strappati post mortem.
Probabilmente violentata e uccisa altrove e trascinata fino a qui.
Ci sono tracce evidenti di trascinamento e sangue negli ultimi cinquanta metri”.
La voce dell’uomo è rassegnata, faretti alogeni illuminano l’area.
Un tecnico fotografa tutto, la scena è irreale, il luogo agghiacciante.
Bologna è scomparsa, sembra di essere in un brutto film americano.
Alle sei e trenta briefing in caserma.
Greco guarda la sua squadra.
“Testimoni?”
Albanese alza la mano e consulta un block-notes.
“L’uomo che ha telefonato era un extra, probabilmente.
Ha indicato una sagoma d’uomo, alto, nascosto da un impermeabile con cappuccio, modello poncho, per intenderci, che dopo avere abbandonato il cadavere si è allontanato dal capannone.
Non abbiamo altro che una telefonata anonima”.
Greco ha lo sguardo nel vuoto.
“Meglio di niente. Ragazzi al lavoro, e attenti agli uomini incappucciati, lui non sa di essere stato visto”.
Un’altra giornata di caccia è cominciata.

Greco è in caserma sta guardando il notiziario nazionale con Albanese e con i carabinieri che stanno per iniziare il turno. Bologna è al centro della cronaca.
I carabinieri sono nel mirino dei mas media. Albanese è più scuro del solito.
Alto, abbronzato, calabrese, con una testa imponente di capelli ricci e un accento che non ammette equivoci.
“Chissà, alla omicidi, le risate, per la patata bollente che stiamo ingoiando, porca puttana!”.
Greco è distratto dalla voce eccitata del cronista.
Realizza in ritardo la frase d’Albanese.
“Ascoltami bene, ascoltatemi tutti…” inizia Greco con voce alterata.
“Non mi frega un cazzo della Polizia, né del mondo intero, né della figura da quaquaraquà che stiamo rischiando.
Io penso alle tre ragazze, ai loro genitori e al fatto che la fuori c’è un pazzo psicopatico che colpirà ancora, molto presto, capito bene?”
Lo guardano tutti, in silenzio.
Albanese abbassa la testa.
Greco gli prende le spalle, fa fatica ad afferrarle, il carabiniere lo sovrasta di una testa.
“Adesso fuori a lavorare, torchiate gli informatori, scavate negli ambienti che conoscete, non ci sono ferie o permessi, fino a nuovo ordine”.
E’ trascorsa una settimana d’indagini, appostamenti, intercettazioni.
Sono stati intensificati i controlli.
Nella zona universitaria sono stati arrestati, controllati, espulsi, decine di extracomunitari.
Sono state fatte comparazioni con il DNA dell’assassino e quello di molte persone.
La sezione investigativa ha svolto ricerche sui crimini sessuali avvenuti in regione negli ultimi anni, individuando possibili sospetti.
I carabinieri di Greco sono instancabili, trovano una pista, la seguono pazienti, pedinano persone, trascorrono la notte in discoteche, circoli Arci, osterie, pub per raccogliere un indizio, una qualsiasi traccia. Greco impartisce ordini, studia la vita delle tre ragazze uccise, frequenta le scuole dove le vittime studiavano.
Ha fatto visita ai genitori, cercando di capire se fra le righe può emergere una nota stonata, una persona non conosciuta. I suoi uomini hanno sequestrato i personal computer delle ragazze, scandagliando la posta elettronica, le Chat, i siti visitati.
Greco e i suoi uomini sono al palo.
Alcune piste, molta confusione.
Sara sta camminando in Via Ugo Bassi. Oggi è andata al Palasport di Bologna per la visita del medico sportivo. Sara è stata selezionata dallo Staff sportivo della sua scuola per partecipare al torneo interregionale di nuoto.
È forte, determinata, disciplinata, famiglia d’operai, origini meridionali.
Sara abita al Pilastro in Via Salgari, sono palazzi popolari, costruiti in un tempo in cui lei non era neanche immaginata. Gli anni cinquanta, sessanta.
Il dopoguerra, il boom economico. Migliaia d’italiani che dal sud si spostavano al nord, con l’unico progetto di trovare un lavoro, per potere avere diritto alla propria fetta di benessere.
Il Pilastro come la Barca furono costruiti per assorbire la grande richiesta di case che proveniva da persone che chiedevano solo di lavorare.
La dotta Bologna, città della cultura, costruì due enormi ghetti.
Dal punto di vista architettonico sono rimasti tali.
Adesso però ci abitano persone come Sara, che hanno aspirazioni, studiano, riescono a realizzare progetti. Sara passeggia serena per strada, veste in tuta.
Nonostante l’abbigliamento sportivo, la sua bellezza, l’elasticità dei movimenti è subito evidente. Ha quattordici anni, è solo un’adolescente, è alta, formata, non passa inosservata.
Lui la guarda, la segue da giorni, sa dove abita.
Sa dove è stata oggi pomeriggio, sa che alla fine tornerà verso casa.
Piove in Via Ugo Bassi e in tutta la città. In Via Ugo Bassi come in tutto il centro, la pioggia non è un problema insormontabile, perché ci sono chilometri di portici che riparano i viandanti. Sara arriva alla fermata dell’autobus che la porterà verso casa.
Arriva alle 19 e trenta un autobus carico di persone che parte arrancando nel traffico cittadino. Lui non l’ha persa di vista, sa dove potrà ritrovarla.
Luci accecanti gli passano davanti agli occhi.
Vede solo lei in mezzo alla folla. Tutto il resto scompare, suoni, rumori, odori di corpi.
Ogni cosa viene annullata dagli occhi della ragazza. Il suo desiderio è imperioso.
La prenderebbe lì se non fosse per la gente che lo circonda.
Tutta questa folla di bestie in movimento che non capiscono il suo dolore, la smania incontenibile, che ogni giorno cresce. Una sete che non si placa nel sangue, ma continua ad aumentare. Nella sua mente accecata l’uomo intuisce, a tratti, di avere perso il controllo.
L’ultima adolescente doveva essere la perfezione.
Lui pensava che non ne avrebbe incontrata una più bella, più desiderabile.
Era convinto che si sarebbe fermato, si sbagliava.
È sera, quartiere Pilastro. Portici di palazzoni popolari scarsamente illuminati.
Sara corre veloce verso casa.
Sono quasi le otto di sera, piove.
Occhi la guardano, occhi famelici.
L’uomo, magro, ossuto, nord africano, l’aspetta dietro un angolo, le mette una mano sulla bocca, la trascina nel buio del giardino.
La ragazza è forte, reagisce, urla, finestre s’illuminano improvvisamente.
La gente è sul chi vive, arriva un uomo, dal buio.
Afferra il marocchino, lo alza come un fuscello e lo scaraventa a terra.
Altra gente accorre, gente del quartiere.
Quartiere popolare, molti meridionali, molto arrabbiati, stanchi di subire.
Il Pilastro ha una brutta nomea, la gente vuole il mostro, vuole farsi giustizia.
Arrivano le gazzelle urlando nella sera.
I carabinieri sottraggono a fatica e malvolentieri la bestia dalle mani della folla inferocita.
Poco dopo l’uomo è in caserma presso il nucleo operativo.
La ragazza è stata medicata, in caserma si festeggia.
L’incubo è finito, Greco ascolta il testimone, eroe per un giorno.
“Domani lei sarà sul Carlino” afferma Greco.
L’uomo, un bel quarantenne, alto, spalle larghe, capelli cortissimi, alza le spalle.
“Ho fatto solo il mio dovere, è stato l’istinto, stavo andando a casa, io abito a Granarolo.
Ho sentito le grida, è stato tutto talmente veloce”.
Greco guarda l’uomo e pensa che c’è ancora speranza se ci sono degli eroi normali come questo.
Il Signor Guerra rilascia sommarie informazioni e poi viene congedato.
Greco è stanco, è stato un periodo duro.
L’assassino era un nord africano, con precedenti per spaccio e molestie sessuali.
Greco guarda i risultati dell’Afis, la storia uguale a quella di altri.
La differenza è che questo africano è anche un maledetto omicida seriale.
“Incredibile”, pensa Greco, “stanno imparando le nostre peggiori patologie”.
Adesso manca la conferma del d.n.a. e poi tutti a casa.
Nella sala riunioni si festeggia, non importa che le indagini siano state inutili.
L’importante è finire, come diceva Mina, in una famosa canzone.
Greco, riguarda le tre adolescenti massacrate, fotografie di sorrisi congelati nel tempo.
Tutte tre uguali, sportive, innocenti, poco appariscenti, pulite.
Troppo uguali, pensa Greco, le somiglianze richiedono lavoro.
Il lavoro di seguirle, annusarle, pianificare, questa quarta ragazza era uguale alle altre tre.
La quarta vittima designata.
Greco si gratta i capelli crespi, accende una sigaretta, cerca di pensare, ragionare, mentre i ragazzi nell’altra stanza brindano.
“Albanese!”, urla all’improvviso Greco.
“Prendi le chiavi dell’auto e seguimi!”.
Albanese guarda Greco con occhi spalancati.
Pensa subito ad un tracollo nervoso, a volte capita ad una certa età.
“Dove andiamo Maresciallo?”
Chiede il carabiniere, mentre s’infila la Beretta nella fondina.
“Devo levarmi un dubbio” risponde Greco.
Arrivano al Pilastro in un attimo, piove, al Pilastro. Piove sul bagnato.
Greco cammina sotto l’acqua, coperto da un impermeabile militare. Compie giri concentrici intorno alla zona dell’aggressione. Oltre ad un muro di cinta finalmente trova quello che cerca.
“Albanese andiamo!” Intima Greco.
Ripartono, nel sedile posteriore dell’auto un fagotto.
“Che cosa ha trovato capo?”
Chiede Albanese curioso.
“Quello che cercavo” risponde Greco evasivo.
“Non tornare in Caserma vai nell’altra direzione”.
Gli ordina con fare perentorio.
“Nell’altra direzione usciamo dalla città, Maresciallo”.
“Lo so albanese, sono vecchio ma non rincoglionito. A proposito, hai la pistola?”
“Sempre Maresciallo, anche quando dormo, perché?”
Chiede Albanese.
“Te lo dirò, quando sarà il momento”.
La Tipo, di Greco, guidata da Albanese arriva alla caserma di Granarolo alle 22,30.
Greco ha già avvertito con il cellulare il Maresciallo capo della Stazione di tenersi pronto.
Lui sa dove bisogna andare.
Il Maresciallo Bruno guarda dall’alto dei suoi centoventi chili Greco e gli mormora:
“Greco, sei sicuro? Non abbiamo neppure uno straccio di mandato”.
“Mai stato tanto sicuro” risponde Greco.
L’irruzione nella villetta è veloce e silenziosa.
Nella tavernetta i militari trovano il signor Guerra, nudo come un verme, intento a guardare un video che ha come protagonista una delle ragazze uccise.
Guerra è in ginocchio, davanti al monitor al plasma, trema in tutto il corpo e mormora frasi sconnesse. Albanese gli punta contro la Beretta.
Greco gli getta il poncho verde militare che ha trovato in un giardino al Pilastro.
“Hai dimenticato questo al Pilastro, Guerra.
Il marocchino ti voleva soffiare l’ennesima vittima, vero?
Tu non hai potuto fare altro che salvarla, saresti poi tornato a cercarla, giusto?”
Guerra è sudato, febbricitante. Sta piangendo, gli occhi fissati sulle immagini rubate ad una ragazzina di quattordici anni. Non riesce neanche a capire cosa sta accadendo intorno a lui.
Lo sforzo di non crollare, che ha sostenuto fino a casa, è stato enorme.
La frustrazione per non avere preso la sua preda insopportabile.
Sente un vuoto, incolmabile, rabbioso, pieno di luci e rumori spaventosi.
Sente le urla delle vittime, nel ricordo dei massacri precedenti.
Greco lo guarda con disgusto, se lo uccidesse adesso il mostro neanche se ne accorgerebbe.
“Questo è il nostro destino, Albanese, fermare l’abominio, quando ormai è troppo tardi.
Mettigli le manette e portiamolo dove non potrà più nuocere a nessuno”.
Albanese è frastornato.
“Maresciallo mi può spiegare come…”
Greco sorride.
“Aveva i vestiti asciutti, ragazzo, non era possibile che scendendo dall’auto per soccorrere la ragazza non si fosse completamente bagnato. Guerra era già là, nella pioggia, e la guardava”.
Coperto con il poncho, l’assassino si fa trascinare dai carabinieri, senza opporre resistenza, completamente in balia delle sue allucinazioni.
Un sabato mattina ha smesso di piovere.
Sono rimaste pozzanghere cupe in tutta la città.
Il sole fa capolino fra le case antiche del centro.
Greco è solo oggi. Ha in mano una rosa, rossa, come il sangue, come l’amore.
Entra nel capannone di Casaralta. Non può sbagliare.
Il luogo del ritrovamento dell’ultimo cadavere è ancora circondato dai segni lasciati dalla scientifica. Il maresciallo cammina piano verso il luogo dell’ultimo ritrovamento.
I suoi passi riecheggiano nell’enorme capannone.
Il gesso è rimasto a ricordare la sagoma della ragazzina abbandonata in quel luogo oscuro.
Greco si china sopra quel disegno, l’acqua della pozzanghera dove era distesa è quasi asciutta. Non è uomo di parole.
Tira fuori una fotografia. La ragazza della foto ride, abbracciata alle compagne di scuola.
Lei non sapeva che avrebbe finito in questo punto la sua corsa.
Greco appoggia la rosa, lascia la foto e si allontana. Una lacrima gli scivola sul viso.
Oggi è tempo di piangere.
Nessuno lo verrà a sapere.


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