"Primavera" di Massimo Fagnoni


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(da Massimo Fagnoni, Primavera, in Bolognesi per caso, Giraldi Editore,)

Fra le rovine di Casaralta spunta di nuovo il sole di marzo, sole indeciso figlio di un inverno malato e nebbioso, inverno emiliano uno di quelli tipici che lasciano nelle ossa un indolenzimento lungo che non se ne va fino all’estate, dolori reumatici, umidità definitiva di una terra fradicia, terra d’Emilia.

Ma il ratto che si aggira curioso fra i capannoni ancora in piedi nonostante i progetti di urbanizzazione previsti e mai completati, quel ratto se ne frega dell’umidità, dell’amianto che ha ucciso decine di operai, quelli che allestivano le carrozze dei treni, che lavoravano senza protezioni, senza preoccupazioni, le sigarette pendule dalle labbra serrate, e giorni e notti a costruire treni, ringraziando magari per avere un lavoro, per potere mantenere una famiglia. Oggi Casaralta è una grande area abbandonata, fino a qualche anno fa ci dormivano schiere di emarginati con tutti i colori della disperazione, erano gli unici a non avere paura del buio acciaio e dei vetri spaccati di una grande azienda abbandonata.

Dormivano rannicchiati negli anfratti di qualche padiglione, circondati dalle loro feci, dai resti di bivacchi ubriachi e notturni, fra legna marcia e avanzi di cibo rubato o pagato con le elemosine, poi c’erano gli altri, spacciatori nordafricani che usavano i tantissimi nascondigli per l’eroina, per la cocaina, per l’hashish, nuovi imprenditori autonomi e indipendenti, Nike sempre fiammanti ai piedi per scappare dai controlli della polizia. Adesso Casaralta è soprattutto un cantiere spesso interrotto dall’interruzione dei finanziamenti e corre fra via Ferrarese e via Stalingrado come un esempio dell’impossibilità di essere normali anche nella normalissima Bologna.

Parco delle Caserme Rosse, stessa mattina, stessa primavera, da una tenda igloo recuperata chissà dove spuntano due ipotesi di esseri umani, non si capisce da quale paese siano arrivati, forse un paese dell’Est Europa, hanno addosso l’odore tipico di panni non lavati, si avvicinano per pisciare al muro di cinta del parco che un giorno fu campo di concentramento. Loro non conoscono la storia del parco delle Caserme Rosse e anche se la conoscessero se ne fregherebbero, magari sono scappati da un paese dove i campi di concentramento ci sono ancora, magari no. Più tardi arriveranno i sudamericani, nei pomeriggi domenicali del parco, riempiranno gli spazi comuni e giocheranno a calcio, si berrà molta birra venduta abusivamente, molti si ubriacheranno e pisceranno ovunque, perché non ci sono bagni pubblici dentro il parco e se anche ci fossero loro riuscirebbero a sporcarli e distruggerli.

In altre giornate il parco diventa campo di cricket per squadre di indiani e sembra di entrare in un film inglese, uno di quelli storici. Quei giovani indiani costretti a vivere in Italia per lavorare e vivere si sono portati dietro un pezzo della loro storia imposta in passato dal dominio inglese e chissà se lo sanno, difficile comunicare con loro, isole di storie individuali e collettive in una Bologna a compartimenti stagni. La primavera è anche questa.

In piazza Verdi le serate primaverili sono convulse, chiassose e alcoliche, decine di giovani, a volte centinaia, mescolati insieme a bere e a cercare compagnia o sostanze stupefacenti, e le vedi giovani spagnole ubriache importate dal loro paese grazie a progetti universitari, che trascorrono la loro permanenza a Bologna fra alcool e bisboccia. Alcune sono belle, fanno pensare alla giovinezza, al sesso facile, alla voglia di divertirsi, al bisogno di stare insieme in una qualsiasi piazza. Le notti di primavera sono esplosioni alcoliche, come bottiglie di Berlucchi stappate tutte insieme contro gli antichi palazzi, contro i muri del teatro comunale, contro i muri di via Petroni. La mattina presto arrivano i ragazzi di Hera che devono raccogliere i cocci di migliaia di bottiglie abbandonati al suolo. Primavera è anche questa.

Primavera è piazza Maggiore con i suoi venditori abusivi di giocattoli cinesi, con le zingare vestire da mimi bianchi come fantasmi che derubano i turisti, con i musicisti che riempiono durante il tday via dell’Indipendenza con i suoni, con i colori, con i passanti ignari di quanto possa essere varia e diversa la primavera bolognese.

Primavera sono le partite di calcio nei tanti campi bolognesi, le gare podistiche, i pic nic a Parco Talon, le biciclettate lungo il Navile, le corse lunghe e sudate in solitaria lungo la Casaglia San Luca canticchiando un motivetto di Dalla mentre si scende veloci lungo il portico fino a via Saragozza. Primavera spunta rigogliosa, selvatica e intricata dietro l’ospedale Maggiore dove centinaia di rom bivaccano tutto l’anno fra gli arbusti, costruendo capanne con il legno marcio, cucinando carne in barbecue improvvisati e bruciando tubi di plastica contenenti il rame rubato da case e cantieri. La primavera bolognese è questa cosa e tante altre, è partire dall’aeroporto Marconi e andare a Londra per cercare di dimenticare le nostre contraddizioni per trovarne altre in una qualsiasi città europea.

Guardo questa nuova primavera dalla finestra di casa mia, in campagna. C’è stato un tempo nel quale Bologna era il luogo prediletto per vivere tutte le stagioni, era una città perfetta, perché io la volevo così, perché io la vedevo così, la Bologna del sogno realizzato, la Bologna dei migliori asili del mondo, la Bologna del socialismo illuminato. Ma tutte le stagioni finiscono, tutti gli imperi crollano, anche i più potenti.

Immagino una primavera qualsiasi in un futuro remoto, ma non impossibile, un futuro privo di uomini, privo di contraddizioni, dove le antiche mura della città turrita siano assediate da piante rampicanti, edere inarrestabili, crepe non riparabili, immagino una Bologna vuota, con ancora le case del centro storico in piedi in attesa della imminente riscossa della natura, una Bologna silenziosa, priva di gente, priva di miseria, di ipocrisia, di decadenza e arrivo alla conclusione che Bologna si può continuare ad amarla, annusandola attraverso la sua storia, attraverso i vecchi muri imbrattati da graffiti demenziali. Osservo la mia idea di una primavera bolognese privata dalla presenza dell’uomo e questo pensiero per me è fonte di pace, una pace duratura, quasi definitiva e rimango a contemplare il Navile che con il suo borbottio artificiale sembra quasi darmi ragione.


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