"Quel ragazzo con l'Ibanez in spalla" di Dario Villasanta



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E così, mi ritrovo in strada con un’Ibanez in spalla.

La vorrebbero in tanti un’Ibanez. O forse ce l’hanno in tanti lo stesso, ma quanto a suonarla, beh… Gli piacerebbe più farlo che dirlo. Chi ce l’ha, e non se la porta addosso ogni volta che va in giro, è solo perché non sa suonarla come si deve, o perché la sa suonare fin troppo. Molto raro che sia così, ma ogni tanto capita E allora, anche se nessuno lo saprà mai, ‘sto poveraccio lascia l’anima e i calli delle dita sulle corde anche un po’ sporche della bastarda, ci danza sopra e vi muore dentro, respira ogni armonico e tossisce ogni pennata, sputa assoli impossibili e graffia la voce per sentimenti che nessuno capirà, tranne lui e chi di solito non c’è. Per ritrovarsi poi, quando riapre gli occhi e riprende fiato, solo il verde-nerastro sui polpastrelli della mano sinistra e il silenzioso vuoto di un pubblico che non esiste, non c’è mai stato e non ci sarà mai.

Fa male suonare, sapete? Fa male quando esce fuori quella sequenza di note che non ti aspettavi mai, dallo strumento e dalla voce, o da non sai mai neanche tu da cosa. Soprattutto non la sapresti mai rifare, non esatta, non così perfetta. Le note, succede anche che arrivino in contemporanea, come vecchi amici ad una festa a sorpresa, ed è solo così che si crea la magia, storie vissute ‘forte’ e che, ora, la musica zittisce per far cantare tutti. Li sgrida mentre stanno parlando, urla se stanno ridendo, o beve con loro se si stanno ubriacando finché, occhi sgranati e dolori in pausa, Madama Musica non li sbatte giù dalle brande con uno sparo di botti che solo loro possono udire. Li stranisce, ed è un attimo che si riconoscano in un tono che sanno loro, una schitarrata che lo stomaco gradisce, nella dolcezza di un assolo tormentato quanto basta o, insomma, in tutta una canzone che non fa che ‘chiamarli’, che dirgli “Ehi, mi riconosci? Io sono te… Abbracciami fratello! Baciami amore! Scopami grand’uomo!”

Le parole che ho sputato fino ad ora non servono comunque granché, se non hai mai almeno sofferto con una canzone, una strofa, o se non hai mai patito la sola esistenza di una musica qualsiasi, una di quelle che pugnalano il cuore. Se non ti è mai successo, credimi: è meglio che ti ammazzi subito o che liberi il mondo dalla tua sterile presenza, se ti sta a cuore la felicità del genere umano. Questo come consiglio generico. Per quanto mi riguarda sappi che ti invidio. Non scherzo! Credimi, ti dedico il mio sterile dolore, il mio come di chi non ce la fa davvero più; cederei in estremo sacrificio la mia sensibilità, per non doverla più e ancora mai più pagare, non così tanto al cospetto di una vita, una vita semplicemente del cazzo, che tanto finge di avere tante sorprese in serbo per te, poi però in fondo, ormai lo so, son sempre tutte cazzate e basta: la vita è una merda, punto.

E’ in queste sere, animo alleggerito da troppo vino e ancor troppe delusioni, che posso solo sperare di provare ancora fremiti indicibili al suono di un qualche rock, raccattato come capita. Io amo il rock, anzi no: è più giusto dire che mi ha cresciuto, perciò non è amore come, che so, per una sbarbata che ti fa dare di testa, è piuttosto amore per un padre, un fratello, uno zio strano o ancor meglio per una di quelle persone che ti capita di incontrare una volta nella vita, e basta un niente perché resti uno sfondo sprecato o un episodio che ricorderai per sempre.

Poi capita che siamo in cinque o sei per la strada, seduti su marciapiedi a caso, o ancora meglio in Piazza Vetra, che ci siamo appena conosciuti in un pub e uno ha detto ‘ehi, ho una chitarra, andiamo a suonare’ e l’altro’ dai sì, prendiamo anche qualche birra’ e l’ultimo, tanto per non deludere, esclama ‘ragazze, venite con noi?’. Ed eccoci, seduti dove capita e sperando che nessuno ci tiri un secchio d’acqua, o peggio un vaso in testa. Cerchiamo il posto più buio, dove gli occhi non vedono le corde, ma le dita le conoscono eccome. Passami la canna, passami la birra, poi il piccolo concerto improvvisato di chi ha canzoni sue, che mai hanno saggiato una sala registrazione e mai la vedranno, ma sono anche belle.

C’è sempre, per quello, anche il coglione che a un certo momento, visto lo sguardo adorante delle ragazze puntato su chi suona e canta, esclama ‘Ehi, anch’io so suonarne una!’ e, allora, sei prontissimo a passargli la tua chitarra, pure se è un’Ibanez, e a incoraggiarlo a suonarci la sua bella canzone, ‘dai coraggio, facci sentire!’, e lui, titubante perché in realtà non è capace per un cazzo, deve a quel punto accettare lo strumento e provarci.

A lui fa solo bene, mentre indugia smarrito sulle corde di rame e budello confronta il suo ego con la realtà dei fatti, anche perché intanto io e l’altro che sappiamo suonare davvero iniziamo a limonare con le ragazze. Un giorno, se avrà realmente voglia di imparare, succederà anche a lui, come molto altro che non ha niente a che vedere con la musica, ma è più probabile che possa soltanto imparare a rispettare un’Ibanez, che è già qualcosa. Non si prende in mano una chitarra come quella senza saperla usare. E non si accarezzano i sogni se non si ha realmente voglia di afferrarli. Poi, sia i sogni che le belle canzoni, valgono poco se non li sogni e non le suoni per qualcosa o per qualcuno. L’importante è che prima o poi tu lo faccia.

Ecco, non sarò né diventerò mai un guitar hero, ma mi piacerà sempre rendere chiaro a chiunque che non si può competere in niente, con un ragazzo con un’Ibanez in spalla.

 


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