"Sbagliando s'impara" di Amalia Lilla Pezzi


image1

 

Prima o poi doveva succedere; infatti ogni volta che mia madre macinava il caffè, allungavo furtivamente una mano e afferravo qualche chicco prima che venisse ingoiato e tritato nel rumoroso macinino. Ogni volta ne mettevo uno fra le labbra, ma il sapore amarognolo immancabilmente mi disgustava, così quella sera, ubbidendo al misterioso impulso che spinge i bambini a combinare i più impensabili malestri, afferrato il solito chicco, tanto per cambiare, me lo infilai in una narice, ma in seguito ad un brusco movimento, mi sfuggì di mano e non potei più recuperarlo.
Figurarsi il mio spavento! Cominciai a strillare, ad agitarmi ma, per quanto la mamma e mia sorella tentassero in tutti i modi di fare uscire il chicco scomparso, non approdarono a nulla. Pur non sentendo alcun dolore, continuavo a versare lacrime su lacrime, chiedendomi angosciata come avrei potuto uscire da quella bizzarra situazione. Esternando come sempre le sue preoccupazioni, la mamma espresse il timore che quel dannato chicco potesse durante la notte bloccarmi il respiro e soffocarmi. A quella prospettiva io, che già mi ero un po’ calmata, ricominciai a strillare come un’aquila e, quando il babbo rientrò dal caffè, mi trovò col viso congestionato per il gran piangere. Messo al corrente dell’accaduto, cercò di tranquillizzarmi con carezze e parole dolci, ma quando manifestò l’intenzione di condurmi l’indomani dal dottore, fui colta da una nuova crisi di pianto disperato.
Infine, spossata per l’emozione, col corpicino scosso da singulti sempre più rari, mi addormentai. Come Dio volle, la notte passò senza che si avverassero le fosche previsioni materne.
Il mattino seguente esplorammo il letto nella speranza che durante la notte il chicco di caffè si fosse deciso ad uscire, ma le ricerche risultarono infruttuose; perciò a una certa ora la mamma mi condusse dal professor Pasini, che era un caro amico del babbo e il custode ufficiale della salute familiare.
La sua era una delle più belle case del paese, costruita a pochi passi dall’argine del fiume Senio. Ci accolse la moglie, la signora Valeria che, dopo aver ascoltato la mia piccola sventura, ci invitò ad attendere il ritorno del professore dall’ospedale. Nonostante il mio morale fosse a pezzi, non potei fare a meno di restare affascinata da quell’ambiente incredibilmente raffinato; per qualche minuto riuscii perfino a scordare il famigerato chicco di caffè, intenta com’ero ad ammirare quel lussuoso arredamento piuttosto insolito a quei tempi.
Improvvisamente la porta d’ingresso si aprì e apparve la familiare figura del professor Pasini; a quel punto fui distolta dalla muta ammirazione e ripiombai nell’angoscia, che si fece tutta interiore, per la soggezione che provavo nei confronti del medico. “Che cosa hai combinato?” mi chiese, dandomi un affettuoso buffetto su una guancia. Per tutta risposta non seppi far altro che sorridere un po’ nervosamente.
Quando il professore ci invitò a seguirlo nello studio, mi aggrappai agitatissima alla mano di mia madre, che m’incoraggiò più con lo sguardo che con le parole. Il medico mi esaminò con attenzione il naso, lo palpò leggermente con un tocco esperto e subito indovinò la posizione del chicco, proprio come lo stratega scorge alla prima occhiata la posizione del nemico.
Prese un paio di lunghe pinze e mi si avvicinò; istintivamente opposi resistenza, pur sapendo che, prima o poi, avrei dovuto cedere, infatti quasi subito le mie proteste si fecero sempre più deboli fino a cessare del tutto.
Il professore poté allora raggiungere con le magiche pinze il chicco, lo afferrò delicatamente e me lo mostrò trionfante.
Dio, che peso mi ero tolta! Avevo il cuore gonfio di gratitudine per il buon professore che non mi aveva fatto soffrire un solo istante e gliela dimostrai tutta con il più bel sorriso di cui fui capace.
I coniugi D’Antino abitavano nel nostro stesso palazzo; spesso ci scambiavamo visite.
Io soprattutto non mancavo di salire quasi ogni sera a trovarli ( o a disturbarli ) e poiché non avevano figli, mi accoglievano sempre con molto affetto, lasciandomi libera di gironzolare per tutta la casa. Mi attirava soprattutto lo studio del signor Francesco, arredato con due austere librerie e con un’enorme scrivania; proprio su quella una sera trovai un portasigarette d’oro; era senza dubbio un oggetto di grande valore, ma quello che maggiormente mi attirò fu la lucentezza di quel nobile metallo; così, come una piccola gazza ladra, me ne impossessai senza che nessuno si accorgesse di quel furto. La mattina seguente portai a scuola il mio piccolo tesoro, mostrandolo di nascosto ai miei amici, orgogliosa dell’enorme ammirazione che suscitai in loro, ma ahimè, anche la superiora, accortasi di tutto quell’interesse dei piccoli alunni, mi si avvicinò e, stupita nel vedermi in mano un simile oggetto, me lo requisì e lo consegnò più tardi a mia madre, che subito ne riconobbe la provenienza.
Non sto a descrivere la vergogna che provai, quando io in persona dovetti restituire il maltolto al legittimo proprietario, né mi dilungherò sulle lunghe e giuste prediche di mia madre; la gravità del fatto mi colpì a tal punto che giurai a me stessa di non riprovarci mai più e così è stato.

 

Suor Emilia, una monaca dall’aria tranquilla, dotata di un’infinita pazienza, ci assegnò per casa una cronaca sull’autunno, io mi ripromisi di stupirla . Non so come, ma qualche giorno prima mi era capitata fra le mani una rivista scolastica di mia sorella, che nel frattempo aveva conseguito il diploma di maestra, e avevo avuto la lieta sorpresa di leggere , fra i tanti, il titolo di un argomento: “Autunno”. Subito cominciai a scorrerne il contenuto e non so descrivere l’ammirazione che mi suscitarono quelle immagini suggestive, quegli aggettivi così ben appropriati, quei colori e quei suoni che uscivano dalle righe che io scorrevo avidamente senza quasi respirare.
– Bene, bene, pensai, da qui potrò prendere qualche spunto per la mia cronaca. Subito mi procurai carta e penna con l’intenzione di svolgere il mio componimento tenendo sott’occhio il testo appena letto ripromettendomi di apportarvi opportuni cambiamenti. Ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a cambiare proprio niente, continuavo a ricopiare il testo tale e quale mi si presentava sulle pagine della rivista. Non ce la facevo proprio a modificare quelle belle espressioni, che, d’altra parte, coincidevano perfettamente con quelle che io pure avevo in mente.
Fatto sta che nel giro di un’oretta avevo ricopiato di sana pianta tutto il contenuto senza cambiare né un vocabolo, né una virgola.
Il giorno successivo la buona Suor Emilia mi invitò a consegnarle la mia cronaca che lesse forte davanti a una scolaresca letteralmente ammutolita, udendo le magnifiche immagini con cui avevo dipinto il mio autunno. La stessa insegnante alla fine della lettura aveva gli occhi lucidi di malcelata emozione e , al solito, si complimentò con me, citandomi come esempio da imitare.
Io, che sulle prime me ne stavo trionfante presso la cattedra, per niente imbarazzata da quell’immeritata ammirazione che mi pioveva addosso da ogni parte, un po’ alla volta mi resi conto di aver combinato una brutta azione, anzi un imbroglio bello e buono, ma ormai la frittata era fatta e non potevo certo tirarmi indietro.
Poi arrivò la doccia fredda, quando la buona suora assicurò che avrebbe inviato la mia cronaca ad un concorso che stava per essere bandito di lì a poco. A quella notizia mi sentii come travolgere da un macigno; non so quale fu in quell’istante l’espressione del mio viso, ma penso che sarebbe stato interessante se un fotografo di passaggio l’avesse per sempre immortalata sulla pellicola.
Non ricordo che cosa balbettai in quel momento, so però quel che pensai nei giorni che seguirono. Mi sentivo come un leone in gabbia; a chi potevo confessare il mio maldestro imbroglio? Non certo a mia madre che mi avrebbe giustamente rimproverata e costretta a confessare ogni cosa all’insegnante. Ma potevo io distruggere in pochi secondi tutta la stima che Suor Emilia nutriva nei miei confronti? Ce l’avevo soprattutto con me stessa; capivo di essermi messa con estrema leggerezza in un grosso guaio. Come avevo potuto mentire così spudoratamente e pensare di farla franca?. Passai una settimana d’inferno; temevo che da un momento all’altro l’insegnante mi comunicasse l’avvenuta partecipazione dalla mia “bella cronaca” al concorso e invece ….-…..invece Dio mi aiutò in quel frangente e vi assicuro che gliene fui molto grata, così grata che gli promisi di non barare mai più in vita mia.
Ma cos’era accaduto di preciso? Suor Emilia non aveva spedito in tempo la cronaca e così addio concorso! La buona suora mi comunicò la “triste” notizia con volto e voce mesta. Mi finsi anch’io delusa e dispiaciuta, ma in realtà, dentro di me ero in preda ad una gioia delirante. Non mi ero mai sentita così leggera e sollevata. Ebbi la sensazione di essere diventata una piuma trascinata dal vento di quell’autunno così ben descritto nella cronaca con cui io non avevo niente, ma proprio niente da spartire.


Lascia un commento