“Sei studi sulla memoria” di Alberto Cristofori


 

 

  

1

“È meraviglioso il pensiero che il tuo corpo sappia quello che deve fare – e lo faccia, tutto da solo!” mi diceva un’amica poco prima di partorire. Si riferiva proprio al momento del parto e ai meravigliosi meccanismi che le descrivevano al relativo corso di preparazione.

A me, che meno di un anno prima avevo assistito alla nascita di mia figlia, questo sembrava l’entusiasmo simpatico, ma un po’ ingenuo, di una persona animata da una grande fiducia nella natura e nella scienza, nella razionalità del mondo, nel buon senso della realtà. Una persona abituata certo a programmare i cambiamenti importanti (sposarsi, cambiare lavoro, fare un figlio…) e forse, anzi sicuramente, anche gran parte della vita quotidiana (la spesa, le lavatrici…), che di fronte alla rapida e quasi violenta trasformazione del proprio corpo scopriva il piacevole brivido, diciamo così, di doversi abbandonare al corso degli eventi: non devo fare niente, non sono io ai comandi, per una volta…

Come mi ricordava mia madre, questo modo di affrontare la vita! E come doveva essere più forte, negli anni Sessanta del Novecento, rispetto a trent’anni più tardi, la fiducia nella razionalità umana, nella bontà della natura e dei suoi meccanismi… Con che slancio si poteva aderire al sogno di un progresso che a poco a poco, certo non senza battaglie, non senza drammi, anche! ma alla fine avrebbe sciolto ogni nodo, vinto ogni ostacolo, superato ogni malinteso: solo la morte è senza rimedio.

Parlo per sentito dire, com’è ovvio; così come per sentito dire so che, già in ospedale, e poi appena tornata a casa, mia madre si era messa ad allattarmi con grande impegno, benché l’epoca non fosse sospettosa quanto la nostra nei confronti del latte artificiale, anzi. Ma c’era la comodità, valore supremo per una donna moderna e razionale (e milanese): il latte artificiale costringeva a orari rigidi e a tutto un traffico di bottigliette, sterilizzatori, tettarelle e misurini, di cui volentieri poteva fare a meno. Forse, inconsapevolmente, c’era anche una sfida a distanza con sua madre, che non aveva potuto allattare a causa di una malformazione ai capezzoli (e aveva sofferto moltissimo per questo – sofferto fisicamente, dico, perché il latte che produceva restava bloccato dentro…): un desiderio di fare “meglio” che era, a suo modo, un omaggio al progresso, al passo “avanti” che ogni generazione doveva fare, e faceva, rispetto a quella precedente.

Io tiravo: dopo i primi goffi tentativi a vuoto avevo imparato e mi attaccavo subito e tendevo tutto il corpo nello sforzo e tiravo, tiravo, prima un seno, poi l’altro, fino a diventare paonazzo e a cadere addormentato, esausto. Poi però mi risvegliavo, molto prima di quanto avrei dovuto, e mi mettevo a strillare, con la rabbia dell’affamato, costringendola a scoprirsi di nuovo e a offrirmi quel povero seno, da cui tiravo, tiravo ancora, con tutte le mie forze, in un circolo vizioso di scarsità e spossatezza.

Non si rendeva conto, mia madre, di avere pochissimo latte, o forse non era disposta ad ammetterlo? Finché una sera, dopo chissà quali dubbi e quante angosce (quelle di tutti i genitori inesperti di fronte a un pianto implacabile: “Cos’avrà mai?”), mio padre ha detto basta: mi ha raccontato di essere sceso alla farmacia di turno più vicina e di aver comperato una confezione di latte in polvere, di averla preparata con la testa che martellava per il sonno arretrato e per le mie urla di protesta e di avermi preso in braccio guardandomi come a sfidarmi mentre mi ficcava il biberon in quella bocca maledetta (mia madre: “Hai controllato la temperatura?”) e poi mentre svuotavo la bottiglietta a velocità inverosimile, prima di cedere finalmente a un sonno tranquillo e prolungato.

La soddisfazione di mio padre per aver capito e risolto il problema temo che l’abbia reso insensibile, almeno allora, alla delusione di mia madre: il suo corpo (come quello di sua madre, sia pure in modi differenti) l’aveva tradita, i meccanismi automatici non erano scattati – e quel suo amore eccessivo per l’ordine, per l’organizzazione, quel suo troppo di fiducia nella razionalità e nella programmazione dell’esistenza, di cui oggi rido con mio fratello (ma non ne ridevamo da bambini e soprattutto da adolescenti, quando ci rendeva così difficile volerle bene), chissà…

Anche il corpo della mia amica, a dispetto della sua bella fiducia, al momento buono non ha saputo affatto cosa fare, e suo figlio, dopo una lunga e vana battaglia, è nato con un cesareo. Di latte, invece, ne ha avuto subito tanto, la mia amica, e ha continuato ad allattare a lungo, anche dopo che il pediatra le aveva concesso le pappe e la frutta, anche dopo che al pargolo erano spuntati i primi dentini. Frequentando la sua casa, mi capitava spesso di assistere a queste poppate e di apprezzare (senza malizia, beninteso) la forma del seno, il colore dei capezzoli, il movimento della bocca che succhiava, l’odore intenso del latte e della saliva, il gioco degli sguardi, il sorriso estatico della madre immersa nella sua bolla magica col figlio.

Un giorno, un’altra amica a cui raccontavo di questo allattamento prolungato ben oltre l’anno ha esclamato scandalizzata: “Ma non è possibile! Nessun bambino chiede il seno per così tanto tempo: vuol dire che è a lei che piace!” E io sono rimasto un attimo senza parole di fronte alla solennità di quel rimprovero, che lasciava trasparire una traccia di disgusto, quale si proverebbe di fronte a una perversione, quasi.

 

2

Doveva essere la pallina di acciaio uscita da un cuscinetto a sfere, finita tra le mie mani chissà come. E non solo rimbalzava che era un piacere, ma era anche stupendamente liscia, tra le dita: liscia e fresca. Sicché, ignorando mio fratello che avrebbe voluto giocarci anche lui, almeno un pochino, almeno ogni tanto (e invece “no, no, no! sei troppo piccolo”…), passavo le ore a farla saltare per terra, sul tavolo, contro le pareti della casa.

Che pazienza, mia madre, a sopportare quel continuo, ossessivo tic tic tic, e che liberazione, immagino, non sentirlo più, all’improvviso! Ma non credo se ne sia accorta subito, perché era al telefono nel momento in cui, affascinato da tanta levigatezza, ho pensato bene di mettermi la pallina in bocca e farmela girare tra i denti, sulla lingua, nella gola…

Ecco: la pallina era troppo liscia ed era sfuggita al mio controllo, l’avevo ingoiata! In quel preciso momento, ricordo di aver avuto due pensieri, limpidi nella vertigine di terrore che mi coglieva: il primo, che avrei dovuto prevederlo, era inevitabile che finisse così; il secondo, che adesso sarei morto, con quel pezzo di acciaio nella pancia, ed era colpa mia.

Mia madre, terminata la telefonata, immagino che non potesse fare a meno di accorgersi che avevo qualcosa di strano, un’espressione di quelle che… Cos’era successo?

E la risposta mi è uscita dalla bocca come se a parlare fosse un altro, un difensore intervenuto a salvare, se non la mia vita ormai compromessa, almeno la mia reputazione postuma: “È stato lui” – indicando mio fratello, lì accanto, allibito. “Mi ha tirato la pallina addosso e… mi è finita in bocca e… l’ho ingoiata!”

Ma dico: chi poteva bersela? Invece mia madre, strattonato d’istinto, ma solo per un attimo, il mio povero fratello, muto di fronte all’orrore di quella calunnia immeritata e gratuita, ha ripreso in mano il telefono per chiamare il pediatra, che l’ha rassicurata: essendo liscia (ah!) sarebbe passata, come si dice, senza fare danni. Insomma, non sarei morto.

Fine del dramma.

Senonché quel rimbalzo mai avvenuto, quella sventurata improbabilità balistica, complice lo spavento di mia madre e i pochissimi anni di mio fratello (che toglievano credibilità ai suoi dinieghi), hanno incominciato quella sera stessa a trasformarsi in leggenda: sotto i miei occhi esterrefatti, il tragicomico caso è stato riportato prima a mio padre, poi, a poco a poco, ai nonni, alle zie, ai parenti tutti, alle amiche, e per anni, a rinnovare il mio senso di colpa, si sono date occasioni in cui mia madre raccontava la storia della pallina e del suo capriccioso rimbalzo, ormai entrata a far parte di un cristallizzato epos familiare.

E come smentire? Dove trovare la forza per ammettere non solo di aver mentito, ma di aver compiuto un gesto da perfetto cretino (io che, lo dicevano tutti, ero così intelligente!), un gesto realmente pericoloso, perché avrei potuto davvero morire, se invece che nell’esofago la maledetta si fosse infilata…?

Oggi so che quella piccola e in fondo innocua bugia (ripetuta, sì, ma più raramente di quanto il mio risentimento voglia credere) è stato uno dei momenti in cui si è incrinata l’armonia perfetta che mi univa a mia madre “prima” – prima che sentissi paura della morte, voglio dire. E non vi stupirà sapere che quando finalmente, ormai adulto, ho disingannato la narratrice, quella stessa voce venuta da chissà dove l’ha fatto quasi con rabbia – “Devi smetterla di raccontare questa storia, le cose non sono andate come dici tu” e le ha spiegato, no, le ha sbattuto in faccia, ciò che era accaduto realmente – quasi accusandola di aver costruito lei quella leggenda, di aver… approfittato, sì, proprio! di quella mia infantile debolezza.

 

3

Il mio primo cane non è mai stato davvero il mio cane. Non perché ero un bambino, e i cani in genere riconoscono come padrone un adulto, un “capobranco”, ma perché è rimasto in casa nostra solo pochi giorni.

Parlo di un’epoca in cui ancora non andavo a scuola. Mia madre, casalinga, tutte le mattine in cui il tempo lo consentiva ci portava a fare una passeggiata – io per mano e mio fratello in passeggino. Vivevamo a pochi chilometri da Milano, in un quartiere di villette semi-popolari che durante il giorno, partiti i papà e qualche rara mamma lavoratrice sulle loro utilitarie o sulle loro biciclette, era più che tranquillo, tanto che tutti lasciavano il cancello aperto, e spesso anche la porta di casa.

A poche villette di distanza dalla nostra c’era un cane, una specie di bracco, credo, che a me sembrava enorme e che, al nostro passaggio, usciva liberamente e si univa a noi: pisciacchiava qua e là, ogni tanto si fermava ad annusare qualcosa, abbaiava contro un suo simile dietro una cancellata, inseguiva un gatto o un merlo. Ricordo perfettamente la sua camminata elastica, il colore grigio del mantello, gli occhi gialli e inespressivi.

Ora, io provavo per quel cane tutt’altro che minaccioso, forse anzi bisognoso di compagnia, un vero e proprio timor panico, immotivato, ma non per questo meno intenso, e mi stringevo alla mamma e mi rattrappivo trattenendo il fiato ogni volta che lui ci si avvicinava. Mia madre, mi sembra, era ignara di questi miei sentimenti, e solo ogni tanto commentava con un moto di fastidio la presenza di quel cagnolone libero, “che dovrebbero tenere in giardino, come tutti”; ma forse invece aveva deciso di prendere un cucciolo proprio per aiutarmi a vincere una paura che rischiava di cristallizzarsi e diventare patologica.

L’arrivo di Pat, questo il nome che gli avevamo dato, è svanito dalla mia memoria; ma si sono invece fissati altri episodi, come quello drammatico di pochi giorni dopo: Pat si era infilato tra la siepe e la cancellata e non riusciva a tornare fuori perché un rametto gli si era incastrato nelle pieghe del collo – piangeva, naturalmente, ma per moltissimo tempo (qualche minuto, in realtà) avevamo cercato invano l’origine di quell’uggiolare disperato, nascosto com’era dal fogliame; e ricordo che mia madre, col mio aiuto (come mi ero sentito orgoglioso, in quel momento!), gli aveva poi disinfettato il graffio con l’acqua ossigenata.

Nel frattempo, il mio stupido fratello gridava e piangeva ogni volta che vedeva il cane, anzi ogni volta che lo sentiva, e si rifiutava di mangiare se il cane non veniva mandato in giardino, e non poteva addormentarsi se prima non aveva controllato che il cane fosse legato nella sua cuccia, e si svegliava strillando se per caso il cane salutava con un piccolo latrato mio padre che tornava tardi dal lavoro…

Tutte smorfie, tutte fisime, tutte assurdità: non c’era niente da temere da quel cucciolo che non poteva far male a una mosca! Provavo per mio fratello un vero e proprio astio – ora mi dicevo che era scemo, ora mi convincevo che facesse apposta, che fosse tutta un’astuzia sopraffina per attirare l’attenzione, perché doveva essere geloso, il piccolo mostro, geloso del nuovo arrivato…

Dopo qualche giorno, forse qualche settimana, i miei hanno dovuto rassegnarsi, e una mattina, molto presto, ecco mio padre che partiva, in macchina, portandosi via Pat. Io ero alla finestra, dovevo aver colto qualcosa per aria, qualche frase, qualche parola… Sapevo già quello che mi avrebbero detto – che sarebbe diventato un cane molto grosso, che il nostro giardino era piccolo, che invece l’amico a cui il papà l’aveva regalato viveva in campagna… Non piangevo, ma se avessi potuto ammazzare mio fratello credo che l’avrei fatto, in quel momento.

La sera stessa, poi, è successo che sul tetto della macchina è venuta a posarsi una colombella bianca, di quelle con la coda a raggiera che chiamano pavoncelle e che gli sposi lanciavano all’uscita dalla cerimonia nella chiesa vicina. Erano uccelli destinati a finire in bocca ai gatti del vicinato nel giro di poche ore, essendo semi-domestici, incapaci di cavarsela da soli – infatti la mamma è riuscita a prenderla porgendole una manciata di riso, il giorno dopo ha comperato una piccola voliera e il mangime adatto e ha detto che quella era la mia pavoncella. Era molto affettuosa, quando la prendevo in mano mi dava delle beccatine d’amore sulle guance, delicatissime.

La signora Rosa, che veniva a stirare due volte la settimana, amava ripetere, accarezzandomi la testa, che la colombella era l’anima di Pat che era tornata, finché un giorno la mamma, sentendola, le ha detto a muso duro di piantarla con quella storia. Ma intanto era cominciata la scuola e avevo altro a cui pensare. Le passeggiate mattutine erano cessate e il cagnaccio che tanto mi aveva terrorizzato fino all’estate prima non mi faceva più nessuna impressione.

 

4

Proprio davanti a casa nostra c’era l’universo.

L’universo era un edificio grandissimo, tutto grigio all’esterno, in cui non ero mai entrato, anche se da qualche settimana ci passavo davanti tutti i giorni per andare a scuola. Aveva delle finestre lunghe e strette, con dei vetri giallini e azzurrini.

Un giorno una vicina più grande mi aveva detto, col tono di chi stava comunicando un’informazione importante, una di quelle cose che sapevano solo gli adulti, che l’universo era infinito. Ma io non ci ero cascato: “Come infinito!” avevo ribattuto: “È grande, sì, ma mica così grande!” E gliel’avevo indicato, lì, pochi metri al di là della strada.

Gloria, così si chiamava, era scoppiata a ridere: “Cosa stai dicendo? Quella è la chiesa!” E io avevo capito d’istinto che diceva la verità e che fino a quel momento avevo creduto, convinto, una cosa sbagliata. Come mai? Chi mi aveva messo in testa quell’idea balzana? Mistero…

A scuola c’erano altri misteri che non riuscivo a spiegarmi.

Per esempio, le lezioni incominciavano sempre con le preghiere, che erano delle filastrocche un po’ assurde, come tutte le filastrocche, ma belle, in fondo. Si recitavano in coro per una decina di minuti, tutti in piedi come tanti soldatini, chi a mani giunte (con le dita tese o intrecciate), chi impettito a braccia conserte. I miei compagni, chissà come, le sapevano tutte a memoria già al primo giorno di scuola, e io no. Ma le avevo imparate rapidamente, senza farmi troppe domande – Padre nostro, Ave Maria, Dona l’oro all’eterno riposo, Gloria ha il padre (ovviamente: era il signor Capretti, quello con la Citroen…), e l’ultima, Angelo Didìo che sei il mio custode… – e aspettavo che la maestra se ne accorgesse e chiamasse anche me, prima o poi, a “guidare” accanto alla cattedra. Invece non venivo mai chiamato e mi sembrava una grande ingiustizia.

Un altro mistero inspiegabile era il mio compagno Walter Finzi, che arrivava in classe sempre in ritardo, accompagnato dal bidello Angelo (il custode della scuola, come diceva appunto la filastrocca): una decina di minuti dopo l’inizio delle lezioni, più o meno, tutte le mattine. Strano, perché non abitava lontano, solo poche case più in là della nostra. Ma non doveva essere una cosa grave: la maestra non lo rimproverava mai…

E comunque Walter era un bambino abbastanza bravo, abbastanza simpatico… Uno come tutti. Come me. O meglio: lui era diverso, perché era l’unico ad avere la mamma straniera – una bella signora bionda, alta, sempre elegante, che si chiamava la Tedesca.

Anch’io però mi sentivo diverso, perché non avevo la televisione e quindi facevo scena muta quando i miei compagni parlavano dei film di Zorro e Stanlierollio, che erano sempre “fortissimi!” (Ogni tanto facevo finta di averne visto uno anch’io, e dicevo “fortissimo!” ma mi smascheravano subito: a che ora l’avevo visto? e com’era la storia?…) E anche perché i miei non mi davano i soldi per le figurine dei calciatori, che erano “stupidaggini”, e assistevo con un misto di invidia e di disprezzo agli scambi, alle infinite litanie di “celo celo celo manca celo manca”, alle furibonde partite a muro durante l’intervallo e alle pagine che si riempivano ogni giorno un po’ di più (ma solo pochi fortunati riuscivano a completare davvero l’album, mettendo insieme le forze: io, solo, dicevo che l’album lo tenevo a casa, e che ero a buon punto, mi mancava sempre poco, ma ovviamente non mi credeva nessuno).

Anche dalla chiesa, a maggio, arrivavano degli album – molto più esili, forse appena quattro pagine, con i riquadri da riempire: ogni giorno di quel mese benedetto chi andava a catechismo (ennesimo mistero!) riceveva un’immaginetta e alla fine, pieno di madonne di tutti i colori e di tutte le fogge, l’album era una vera festa per gli occhi.

In chiesa, alla fine, ero comunque entrato, un giorno che tornavo da scuola insieme a un compagno dei più scafati, e ci eravamo messi a giocare con le candele, accendendole, spegnendole, spostandole (per metterle in ordine, ci dicevamo)… Immersi in quel silenzio siderale che hanno le chiese deserte (era l’ora di pranzo), non ci eravamo accorti del tempo che passava, e all’uscita avevo visto con sbigottimento mia madre, sulla porta di casa al di là della strada, che gridava il mio nome a intervalli regolari, a mo’ di sirena, con gli occhi fuori, dopo aver spedito mio padre prima a scuola, dal custode Angelo, e poi in giro per il paese, convinta che mi fosse toccata una disgrazia, un brutto incontro…

Non mi rendevo conto del pericolo di giocare col fuoco in quel modo? ripeteva mio padre dopo aver chiarito i dettagli dell’incidente. E perché non potevo fare anch’io come tutti, come tutti i bravi bambini cioè (questa era mia madre), che tornano a casa senza perdere tempo?

 

5

Lo chiamavano il Tigre per prenderlo in giro – probabilmente era il più mite della classe. Era anche un gran pasticcione, al contrario di me, uno di quei ragazzini coi quaderni tutte macchie, i libri con le orecchie, le matite spuntate e un sacco di cianfrusaglie sempre alla deriva nella cartella. All’epoca (parlo degli anni Sessanta) noi delle elementari avevamo il grembiule nero, il colletto bianco e un fiocco azzurro (le femmine avevano il grembiule bianco e il fiocco rosa). Il Tigre arrivava in classe alla mattina con un bel fioccone inamidato, gonfio di amore materno, e alla fine delle lezioni l’aveva regolarmente ridotto a uno straccetto inzuppato di saliva, perché era molto emotivo e quando il cuore incominciava a martellargli nel petto, per calmarsi, succhiava il fiocco.

Era il mio compagno di banco fin dalla prima elementare, e il mio migliore amico, ma non è che ci fossimo scelti, è che ci avevano esclusi. La classe era divisa in due bande, quella di V., il figlio del dottore, che faceva ippica e andava a sciare all’Aprica, e quella di F., ripetente, che da grande, diceva, avrebbe fatto il ladro come il suo papà. L’appartenenza all’una o all’altra banda non dipendeva comunque dalla condizione sociale, ma dalle simpatie e dall’umore dei due capi, che non rispettava alcuna regola. L’unica certezza era che io e il Tigre, poco veloci nella corsa, imbranatissimi col pallone, incapaci di picchiare, non facevamo mai parte né dell’una né dell’altra. E quindi, al pomeriggio, giocavamo insieme, un giorno da me, un giorno da lui – non ricordo bene cosa facevamo, per lo più sognavamo di metter su una nostra banda, come Sandokan e Yanez, e costruivamo armi (cerbottane, fionde, fucili a elastico) per sconfiggere quelle di V. e di F., finché le nostre mamme ci chiamavano a fare la merenda. Il cuore ci martellava nel petto al pensiero della battaglia, ma naturalmente sapevamo benissimo che non ci sarebbe mai stata nessuna battaglia, per carità! e tutto il nostro eroismo si spendeva in quei piani, in quelle chiacchiere.

La nostra maestra, la signora Kleiber, era tedesca di nome e di fatto. Non priva di slanci materni, in verità, ma decisa a reprimerli per il nostro bene. Maniaca dell’ordine, cosa che collocava automaticamente il Tigre fra gli ultimi degli ultimi. E convinta, per ragioni tutte sue, che le biro rovinassero la calligrafia e che quindi fosse suo dovere costringerci a usare il pennino e l’inchiostro e la carta assorbente. Gli unici a cui era permesso portare in classe le amatissime penne a sfera erano i due mancini. “Ma perché non sono nato mancino?” protestava il Tigre, che con quel maledetto inchiostro faceva disastri incredibili. Qualunque pennino usasse (ce n’erano decine: a forma di mano, di lancia, di freccia, con un taglietto in mezzo, dorati, argentati, neri…), riusciva a incagliarli, a deformarli, a spezzarli addirittura, sicché lettere e numeri gli venivano tutti sbilenchi, le righe storte, le pagine costellate di macchie, alcune grandi come laghi, altre minuscole, come una tempesta di gocciolione – se poi tentava di cancellarle (con la parte “dura” delle gomme bicolori), erano baffi, buchi, paciughi degni di un pittore d’avanguardia. Al primo banco di fianco a lui, sotto lo sguardo severissimo della Kleiber, io riempivo i miei quaderni di righe e pagine di lettere ordinate e di numeri perfetti, mentre lui ansimava col suo povero fiocco in bocca in quel pantano irrimediabile. “Ma perché non sono nato mancino?” ripeteva. Avevamo anche provato a diventarlo, ore di esercizi, pomeriggi interi a scrivere con la sinistra, ma pareva proprio che quell’handicap (tale era considerato allora) non si potesse né fingere né acquisire…

Finché, in quinta, quando ormai si avvicinava la fine dell’anno e la liberazione dalla terribile Kleiber, il Tigre ha deciso che era arrivato il momento di dire basta. Basta prepotenze, basta umiliazioni, basta pennini – una mattina, all’intervallo, dopo aver subito l’ennesima sfuriata, mi ha detto che il giorno dopo sarebbe venuto a scuola con la biro e lì, al primo banco, davanti alla strega, avrebbe scritto tutto il compito in classe, il più importante di tutti, quello “di preparazione all’esame”, con una meravigliosa biro blu.

Sono rimasto senza parole, col cuore che mi martellava nel petto. Era un suicidio! La Kleiber gli avrebbe dato quattro, come minimo! L’avrebbe sospeso! Bocciato! Cosa gliene fregava, in fondo? Mancavano due mesi, due mesi soltanto, e poi avrebbe potuto bruciare tutti i pennini e le boccette d’inchiostro che voleva, per sempre! Perché rischiare?

Non gli ho detto niente di tutto questo, però. In realtà ero senza parole perché, per la prima volta in cinque anni, capivo che il Tigre non scherzava, non giocava a fare il capobanda, il pirata, l’eroe, ma parlava seriamente, e la mattina dopo avrebbe davvero lanciato la sua sfida, aperta, pubblica, alla tiranna. E io cosa c’entravo? Perché me ne aveva parlato? Cosa dovevo fare? Io, che mi ero sempre considerato “superiore” per i bei voti e i quaderni ordinati e i libri senza macchie, avrei saputo seguirlo in quella decisione senza ritorno?

Quando abbiamo tirato fuori le nostre biro blu, la mattina dopo, e ci siamo messi a scrivere il tema con quegli strumenti proibiti, che rovinavano la calligrafia, la maestra ci ha fulminato con gli occhi, ma non ha detto niente. Forse non poteva interrompere la “prova d’esame”, forse si è resa conto che era il momento di allentare un po’ le redini, forse (ne sono quasi sicuro) ha saputo cogliere il valore di quel gesto che diceva “Siamo cresciuti” e provava un pizzico di orgoglio (e rideva, dentro di sé) perché due dei “suoi” ragazzi avevano finalmente trovato il coraggio di ribellarsi. Uno dei suoi ragazzi, in realtà, l’aveva trovato. L’altro, cioè io, aveva solo trovato il coraggio di non abbandonare l’amico nel momento della sfida suprema. Io non ero il Tigre, però era l’amico del Tigre. Dei due, chiaramente, Sandokan era lui.

La maestra ha dato i voti come se non si fosse nemmeno accorta che avevamo usato le biro e due giorni dopo pennini e inchiostro erano spariti da tutti i banchi della classe. Il Tigre è rimasto escluso come sempre, poi la scuola è finita e io ho traslocato e ci siamo persi di vista per vent’anni. Ma quando ci siamo ritrovati, come succede nella vita, abbiamo parlato per ore di pennini e di inchiostro e di biro ci martellava il cuore nel petto a tutti e due, ne sono sicuro, e se qualcuno ci avesse ascoltato avrebbe pensato che eravamo due pazzi, due amici pazzi.

 

6

Non c’era nessun perché, all’apparenza: ero sempre andato a teatro coi miei, ma quel pomeriggio (doveva essere ottobre o novembre: ricordo un’atmosfera buia, piovosa) volevo restare a casa con la nonna – che portassero mio fratello.

Non era affatto troppo piccolo, anzi, e in ogni caso io non avevo voglia di uscire, mi sentivo… triste, dopo pranzo mi aveva colto una strana stanchezza, una specie di languore, e mi era venuta voglia di leggere, cosa c’era di male?

Non intendevo lasciarmi convincere, anzi più mia madre e mio padre, e poi mia nonna e mio nonno, tentavano di farmi ragionare, più m’incaponivo in quel rifiuto immotivato. Finché mia madre – credo proprio che sia stata lei a prendermi per un braccio e (“Basta, questi sono capricci, infilati le scarpe e vieni subito con noi!”) a trascinarmi in macchina.

Era senza dubbio un capriccio: un precoce “Faccio quello che voglio” che metteva alla prova l’autorità dei genitori. (Neanche tanto precoce, in fondo: dovevo avere sui nove anni…) Ma, se non ricordo male, era anche un vero disagio quello che tentavo di esprimere con quei no: l’ultimo spettacolo (si andava all’Angelicum, dai francescani) era stata una fiaba più adatta a un bambino piccolo che a uno di quarta – la solita storia del principe viziato che il buon re suo padre fa rapire da una banda di finti briganti perché sperimenti la fame, il freddo, la fatica, e impari così il vero valore delle cose. Io volevo storie terribili e sanguinose: battaglie, vendette, tigri, serpenti, babirussa, giungle e mari in tempesta, passioni divoranti e fanciulle maltrattate, rapimenti e riti barbarici, mica quelle stupidaggini!

Grazie al mio capriccio, siamo arrivati in ritardo – le luci in sala erano già spente e la maschera ci ha fatto sedere in posti di fortuna – io mezzo nascosto dietro a una colonna, per cui vedevo malissimo. Ma la scena era irresistibile, come al solito: i costumi, le luci, gli attori… Il buio mi permetteva di smetterla, finalmente, col muso che avevo tenuto per tutto il viaggio in macchina e di abbandonarmi a quelle emozioni semplici, ingenue… Era bellissimo, in verità, tornare piccolo, ascoltare ancora le fiabe, come avevo fatto a non rendermene conto subito, l’altra volta? Mi sentivo caldo, protetto, felice…

Perché la storia era, guarda caso, una fiaba: una fiaba giapponese, in cui un povero pescatore accetta di sposare una specie di principessa del mare e va a vivere con lei sotto le onde, ma dopo cinque settimane sente il bisogno di tornare sulla terra per rivedere la sua famiglia, e invece di cinque settimane sono passati cinque secoli. E lui, sbigottito, stravolto da tutte le novità, da tutti i cambiamenti che vede, non capisce, poveretto, e ha tutti i motivi per non capire cos’è successo, finché trova una buona donna che gli dice sì, certo, conosce il suo nome, lui è il protagonista di un’antica leggenda che risale a circa cinquecento anni prima, quella di un povero pescatore rapito da una principessa del mare…

Va bene, dice lui, le persone – si capisce, sono tutte morte. Le macchine, la radio – nuove invenzioni, d’accordo. Ma la città? Possibile che non ne sia rimasto nulla, nemmeno una traccia? Accanto alle capanne dei poveri c’erano case robuste, palazzi, templi di pietra…

Nulla, spiega la buona donna: c’è stata una guerra, e un giorno, lei era una bambina piccola, allora, e queste cose gliele hanno raccontate, perché viveva in campagna, dai nonni – un giorno è passato un aereo, su su, molto in alto, quasi invisibile, e poco dopo (si sentiva un sibilo che si avvicinava, sempre più assordante) poco dopo si è visto un lampo (buio improvviso, un faro violentissimo puntato nei nostri occhi) e si è sentito un rumore inimmaginabile, più forte di qualsiasi tuono, più assordante, un urlo…

Mentre tornavamo a casa, per consolare il mio terrore (ma non avevo pianto: cioè, non l’avevo fatto vedere, che piangevo), mio padre mi ha spiegato, con calma, cos’era successo a Hiroshima nel 1945. La mamma mi teneva abbracciato sul sedile posteriore.

 


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